Giotto, La cacciata dei mercanti dal Tempio.
Cappella degli Scrovegni, Padova
EDOARDO VILLATA - LA DIFFERENZA DI GIOTTO
Nel bellissimo opuscolo Gaudenzio alle porte di Varallo
(1960), dedicato alla cappella della Madonna di Loreto a Roccapietra
fuori Varallo Sesia, forse progettata e sicuramente decorata da
Gaudenzio Ferrari, Giovanni Testori, a proposito della peculiare
situazione paesaggistica della cappella (rimasta quasi intatta fino a
oggi) formulava il concetto di “restauro psicologico”, teso a restituire
idealmente una situazione ambientale nel frattempo modificata. Poteva
sembrare una bella fantasia da scrittore applicato alla prosa d’arte, e
infatti non mi risulta che tale concetto abbia avuto seguito nel studi
storicoartistici, non solo gaudenziani, salvo qualche isolato ricordo a
cui non ha corrisposto alcuna ulteriore riflessione teorica. Forse,
però, si tratta di un’idea che merita qualche attenzione in più.
Credo
di non andare troppo lontano dal vero ritenendo che il concetto non
cambi di molto se invece di “psicologico”, che in questo caso sarebbe
come dire “emotivo”, parleremo, forse più precisamente, di “restauro
percettivo”. Si tratta, è ovvio, di una operazione molto difficile, e
con margini di fallibilità indubbiamente alti, ma che potrebbe magari
favorire risultati interessanti. Per restauro percettivo intendo il
tentativo di avvicinarsi quanto possibile al livello di percezione
visiva dei fruitori di una opera d’arte in epoche precedenti la nostra;
una cosa assai prossima e collegata, ma non coincidente, con il “gusto”
(qualcuno direbbe con il Kunstvollen) o con la storia della
critica. Possono infatti coesistere più livelli percettivi, dettati da
differenze di cultura, di esperienze, di classe sociale, anche nello
stesso momento, così come ogni epoca (la cui periodizzazione costituisce
a sua volta un problema non secondario), possedendo esperienze visive
differenti, si attesta su propri peculiari livelli di percezione. E
soprattutto, è per noi molto difficile recuperare, anche solo in parte,
uno di questi livelli. Noi tutti siamo “nativi” del cinema, della
televisione, della fotografia (la prossima generazione lo sarà dell’HD e
del 3D, che con ogni probabilità cambieranno ancora le cose), e ci
risulta impervio immaginarci di vedere non solo le opere d’arte, ma il
mondo stesso, con gli occhi di chi non ha avuto tali esperienze visuali.
Se poi tentiamo di risalire più indietro nel tempo, dobbiamo spogliarci
dalla dimestichezza, per esempio, con le pitture illusive barocche, con
i trompe l’oeil (un nome che già ci dice qualcosa), e poi con
l’anatomia artistica, poi con la prospettica classica… e, a differenza
di chi voglia studiare il “gusto”, più si risale indietro nel tempo e
più non solo aumenta la difficoltà a rinunciare a un sempre maggior
numero di “abitudini” visive, ma diventano forse più rade e meno
utilizzabili le fonti scritte. Il rischio (o forse la certezza) di
arbitrio, e quindi la necessità di essere oltremodo prudenti, è
geometricamente crescente. In altre parole, non so se questo tipo di
indagine potrebbe mai produrre un risultato analogo, per rigore
metodologico e ampiezza di risultati, al Mannerism di John Shearman. E tuttavia, almeno a livello di esperimento, potrebbe valere la pena di provarcisi
The Architecture in Giotto’s Painting,
2011), e mi fa piacere ricordare di aver seguito, alla Cattolica di
Milano, un corso dedicato dal compianto Miklós Boskovits alla
decorazione delle due basiliche francescane assisiati che si intitolava
significativamente La nascita della pittura moderna. Tutti
d’accordo sul ruolo determinante di Assisi per la storia della pittura
italiana ed europea, sulla centralità di Giotto, e in linea di massima,
tenendoci lontani dalle semplificazioni agiografiche, anche sulla
tendenza alla concretezza fisica insita nella spiritualità francescana,
che potrebbe aver favorito una maggiore attenzione al “reale”, secondo
l’antica e felice intuizione di Henry Thode. Ma non basta ancora. A
esempio, per immaginare (e specifico: immaginare) l’effetto prodotto
dai “coretti” giotteschi affrescati nella cappella degli Scrovegni a
Padova da quello che ben a ragione Roberto Longhi (1952) definiva Giotto spazioso
dobbiamo privarci di ogni nozione accademica, scolastica o
semplicemente visiva di prospettiva. Se ci sforziamo di non vedere, e di
non concepire formalmente altro che pittura duecentesca, anche la più
straordinaria (anche Coppo di Marcovaldo, anche Cimabue, anche il primo
Duccio, anche Cavallini), ecco che subito questo intervento giottesco ci
si rivela come una differenza qualitativa, anzi categoriale: qualcosa
di non assimilabile a quelle che erano la “nostre” esperienze
precedenti. Ma quando arriviamo con Giotto a questo punto, siamo nei
primissimi anni del Trecento, si tratta già di un virtuosismo, per
quanto di tale portata da lasciarci obiettivamente senza fiato. Proprio
questo è il punto nodale. La straordinaria novità della concezione dello
spazio di Giotto, che si esprime già, in forma nemmeno tanto
embrionale, nella fase “Maestro di Isacco” ad Assisi (spero proprio che
nessuno vorrà ancora fare del Maestro di Isacco un pittore distinto dal
giovane Giotto), è stata più volte sottolineata dai maggiori specialisti
moderni di Giotto (Toesca, Longhi, Previtali, Bellosi, Flores d’Arcais,
per non dimenticare il Giotto architetto di Decio Gioseffi e il recente libro di Francesco Benelli,
Se
ci sforziamo di operare il “restauro percettivo” alle Storie di Isacco,
a quei letti di cui si può valutare l’ingombro, contenuti in ambienti a
loro volta misurabili, e dentro cui agiscono persone dotate di
specifica consistenza fisica, di volumetria non solo simbolica o
allusiva, ma vera e imponente; di individualità che non sia solo
l’espressione di sentimenti-tipo (la gioia, il dolore, il terrore,
l’ira…), già splendidamente caratterizzati dalla pittura del XII e XIII
secolo, ma di sfumature espressive e drammatiche di inusitata ricchezza;
ecco che la loro alterità rispetto a quanto precede, quasi direi la
loro discontinuità, ci appare evidente. E ci sarebbe da chiedersi se la Invenzione dell’uomo
sia davvero, come sostiene Harold Bloom, merito specifico di
Shakespeare, o non vada fatta risalire a quasi trecento anni prima.
Ma è soprattutto lo spazio, quello spazio, che
poi si dilata ancora e si fa più stupefacente in alcune scene delle
Storie di san Francesco della Basilica Superiore (su tutte le scene del
Monito del Crocifisso di San Damiano e la Conferma della regola), a
sancire quello scarto rispetto al passato: Giotto ha inventato la prospettiva, come dire che per primo ha visto e fatto vedere
lo spazio non come qualcosa di esterno al fronte visivo, ma come
qualcosa nel quale quello stesso fronte è, o può essere, contenuto.
Forse per la prima volta, il mondo fenomenico assume tridimensionalità.
Cosa avranno provato i primi frequentatori della
Basilica, davanti a quegli affreschi? Quanto avrà contribuito la
meraviglia di fronte a un fenomeno ottico mai prima né visto né
concepito su una parete piana al clima di misticismo e devozione,
insomma all’“aura” sacra del luogo?
Credo che si tratti di una conquista definitiva non
solo per le arti figurative, ma per la gnoseologia, per il modo
dell’uomo di pensare e vedere sé stesso, ben più profonda delle
speculazioni sulla luce del francescano Roberto Grossatesta (1175-1253),
destinate peraltro a lunga vita nell’ottica medievale e rinascimentale.
Grossatesta nel De inchoatione formarum scrive: “la luce si
diffonde da sé in tutte le direzioni, in modo che da un punto luminoso
viene immediatamente generata una sfera di luce grande quanto si vuole, a
meno che non faccia ostacolo un corpo opaco. Dall’altro lato la
corporeità è ciò che ha per conseguenza necessaria l’estensione della
materia nelle tre dimensioni”. Si tratta di un concetto speculativo di
materia quale principium individuationis, che potrebbe
tranquillamente tradursi nei coevi disegni, strettamente bidimensionali,
di Villard de Honnecourt. Villard, non certo Giotto, ci viene subito in
mente se leggiamo un altro passo del Grossatesta, estratto dal De luce:
“L’utilità dello studio delle linee e degli angoli delle figure è
grandissima, poiché senza esse nulla si può conoscere riguardo alla
filosofia naturale. Esse valgono senza eccezione nell’universo tutto
intero e in ogni parte di esso”. Linee e angoli, superfici
bidimensionali, in grado di misurare l’universo. Siamo lontanissimi
dalle ombre pesanti, dai gesti vigorosi, dagli spazi abitabili che
Giotto per primo ha rivelato agli occhi e, forse, al cervello umano.
Così tanto nuovo che nemmeno le testimonianze letterarie trecentesche, e
siano pure quelle di Dante e di Boccaccio, pur concordi nel riconoscere
Giotto quale primo pittore del mondo, non riescono, letteralmente, a
esprimere la novità qualitativa della sua pittura.
Non
sarebbe esagerato, in virtù di ciò, rivendicare per Giotto un ruolo
primario non solo nella storia dell’arte, ma in quella della gnoseologia
e dell’autocoscienza dell’uomo, precisamente nella prospettiva della
hegeliana Filosofia dello spirito (e dello Hegel berlinese più che di
quello jenense, sia ben chiaro). In questa prospettiva a Giotto spetta
un ruolo non minore, nella nascita dell’“uomo moderno”, di quello
riservato per esempio a Copernico. Grazie a lui abbiamo preso coscienza
delle tre dimensioni come un fatto non solo logico, ma concreto,
agibile, riproducibile, nel quale siamo immersi. Anzi mutuando un
concetto di Pierre Hadot (2002) possiamo addirittura ritenere che,
esistenzialmente, la rivoluzione di Giotto sia ancora più profonda,
eprché accompagna l’uomo nella sua vita di ogni giorno, non solo nelle
speculazioni intellettuali: “la rivoluzione copernicana, di cui tanto si
parla nei libri di filosofia, sconvolge il discorso teorico che
sapienti e filosofi conducono a proposito del mondo, ma non modifica in
alcun modo la percezione abituale e quotidiana che abbiamo di esso”. È
proprio ciò che Giotto ha fatto. Andrà quindi rivendicato, e lo dico da
storico dell’arte convinto del primato epistemologico della Connoisseurship,
un ruolo specifico e grande a Giotto non solo nella storia dell’arte
(per la quale penso che nessuno avrà da obiettare nel riconoscere in lui
il più grande pittore di ogni tempo), ma in quella della filosofia e
della scienza: anche se la sua rivoluzione percettiva è stata compiuta
per immagini, per visum, e non per scriptum. Che è altra
cosa dall’uso quasi sempre improprio che i filosofi fanno delle opere
d’arte (si pensi ai casi celeberrimi del Van Gogh “di” Heidegger o del
Michelangelo e del Rembrandt “di” Simmel), o a livello infinitamente più
basso, dall’uso impudente di opere d’arte famose fatto da manifestini
di qualche movimento integralista sedicente cattolico, affiancate da
pretenziose citazioni del guru di turno. Cioè, come se l’opera d’arte
fosse un materiale quasi grezzo, utilizzabile per le proprie esigenze e
al di fuori o quasi del contesto storico, culturale e figurativo in cui è
nata. Viceversa sarà da rivendicare una autorità dell’opera figurata
anche in serie culturali solitamente riservate al testo scritto. Si è
detto di Giotto, ma altrettanto sarebbe corretto, per esempio,
rivendicare a Grünewald, nel campo della mistica, una autorità del tutto
pari a quella di un Jakob Böhme o di un Sebastian Franck.
Da L'INDICE DEI LIBRI
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