04 dicembre 2016

M. BULGAKOV, Il diavolo a teatro.


Michail Bulgakov è noto soprattutto per i suoi romanzi, ma fu anche autore di un teatro modernissimo dove luci e scenografie avevano altrettanta importanza delle parole.

Marco Archetti

Se il diavolo è dietro le quinte di un palcoscenico

«I manoscritti non bruciano!» cinguetta diabolicamente il tenebroso Woland ne Il maestro e Margherita, capolavoro di Michail Bulgakov, varcando la soglia della letteratura mondiale e dichiarando, una volta per tutte, che i romanzi fanno sul serio perché restano scritti per sempre. Ma i loro autori? Esistono per sempre anche quando non è loro permesso di esistere nemmeno una volta?
«Sono, mi viene da pensare, una macchina astrusa che produce ciò di cui l’Urss non ha bisogno». Bulgakov lo scrive al fratello, in una lettera del 21 febbraio 1930, a partita ormai persa e a bezdomnost’ ormai certificata. Senza casa, estraneo, privo di punti di riferimento, così si sentiva lo scrittore ucraino più moscovita che si possa immaginare, costretto al silenzio in vita e inesistente letterariamente fino a venticinque anni dopo la sua morte.

Un silenzio che ha fatto fiorire il deserto, ma il bilancio della vita di Bulgakov resta assai drammatico: la maggior parte dei romanzi restò impubblicata, tre quarti delle riduzioni sceniche e dei libretti composti per il Bol’šoj inutilizzati, e delle pièce teatrali scritte, quattro non vennero mai portate in scena, quattro sì, ma due furono stroncate subito dopo la prima.
Le uniche che si guadagnarono un vago diritto di esistere (ottenuto dopo travagliatissime riscritture affinché i testi non ledessero la «sensibilità politica» dell’epoca) furono I giorni di Turbin e L’appartamento di Zoja, che andarono in scena in due teatri di Mosca contemporaneamente proprio in questi giorni, tra ottobre e novembre di novant’anni fa. Entrambe furono un evento, entrambe facevano di una casa il proprio fulcro narrativo: la prima raccontava la disfatta dei controrivoluzionari bianchi assediati dai bolscevichi, la seconda di un finto atelier rivelatosi bordello.

Al contrario di Cechov che si considerava sposato solo con la letteratura, Bulgakov si sentiva drammaturgo a pieno titolo. Compose i primi drammi a Vladikavkaz quand’era aggregato alla Guardia bianca in qualità di medico, senonché un giorno provò a rendere difficile la vita ai posteri e distrusse tutto quel che aveva scritto, pagina dopo pagina, ma è vero che il diavolo sta nei dettagli se alla fine, fortunatamente, è stata ritrovata la copia di una sua pièce intitolata I Figli del Mullah – pare si trattasse della copia di un suggeritore. Certo è che insieme alla stesura letteraria de La guardia bianca Bulgakov si dedicò anche a quella teatrale: nell’estate del 1925, ospite di amici presso Koktebel’, mentre posava per un ritratto dettava alla moglie le ultime pagine del romanzo – pagine che non usciranno sulla rivista che l’aveva pubblicato fino a quel momento, perché l’editore fuggirà con la cassa e a Bulgakov non verrà restituito il manoscritto – ed entro agosto ne terminerà la versione teatrale.

A fine mese, mentre gli giungeva il verdetto di Kamenev per Cuore di cane(«Impubblicabile!»), il regista Sudakov gli annuncerà la possibilità di leggere I Turbin a Stanislavskij. Presente alla lettura, anche Lunacarskij, il Commissario del Popolo all’Istruzione dell’Urss. Dirà: «Una porcheria. Non va portato in scena. Rifare!». Le sfibranti riscritture di quei giorni e le guerre interne al teatro porteranno lo scrittore a rispondere in questo modo a una lettera d’invito per una serata letteraria: «Sono seppellito sotto un testo teatrale dal nome altisonante. Di me è rimasta solo l’ombra, da accludersi quale supplemento gratuito al testo suddetto».

Ma attenzione, è proprio in quel periodo – intanto anche il bellissimoDiavoleide, premonizione narrativa de Il Maestro e Margherita, viene ritirato dalle edicole – che Michail Bulgakov, ombra stakanovista, si mette a scrivere un’altra commedia: L’appartamento di Zoja. Tutt’intorno, gli eventi precipitano.
Il 7 maggio 1926 la casa dello scrittore è oggetto di una perquisizione poliziesca ad opera di due ceffi che sfonderanno le poltrone con un punteruolo («Cara moglie – sdrammatizzerà Michail – possono anche sparare alle tue poltrone, ma non te le ricompro!»), il teatro di Mosca tenterà di imporre un nuovo titolo ai Turbin, ossia Prima della fine (titolo che Stanislavskij detesterà, ma consiglierà a Bulgakov di evitare l’aggettivo «bianco» – servirà a poco, l’esame censorio non verrà superato) e a giugno, da Leningrado, arriverà la comunicazione che nemmeno L’appartamento di Zoja, così com’è, andrà in scena.

Il regista Popov si darà molto da fare per aiutare Bulgakov, e alla fine I Giorni di Turbin passerà, ma solo dopo che la prova per i censori della Commissione Repertori sarà andata bene. Quella sera, abbandonandosi a una crisi isterica, Stanislavskij minaccerà di lasciare il teatro se il testo fosse stato nuovamente respinto. «I nostri stomaci sono forti al punto da digerire cibi piccanti, il dubbio contenuto ideologico del testo non ci spaventa», dichiarò uno spaventato Lunacarskij. Così, i Turbin andranno in scena 13 volte in ottobre, 14 in novembre, 15 in dicembre, per un totale di 50 entro gennaio. Pare che la sera della prima un’ambulanza facesse gli straordinari fuori dal teatro. E che Majakovskij se ne andò, annoiato, al terzo atto.

Contemporaneamente, al teatro Vachtangov, debuttava (riscritto) anche L’appartamento di Zoja. È questa la pièce perfetta per godere a pieno il vigore della satira bulgakoviana che, servita da maschere che inscenano l’insopportabile teatralizzazione della vita sovietica, fa a pezzi la Nep e la sua pallida volontà di riconoscere alcune piccole imprese private. Nella commedia si intraprende eccome, ma un traffico di prostituzione. Di giorno, sulla parete della casa di Zoja, campeggia un quadro di Marx, di notte il ritratto viene sloggiato con un impietoso: «Scendi, vecchietto!».

La scena è un felicissimo pandemonio, il palco brulica di viavai e di personaggi che irrompono e si danno a serrati botta e risposta. La fantasmagoria musicale è notevole: stornelli sovietici, foxtrot, romanze zigane e trombettate da pasquinata. Ma dopo il fracasso, la disperazione: il momento è difficilissimo. Il famoso attore Michail Cechov abbandona Mosca e da Berlino scriverà: «Sono bandito dalla Russia. La nostra vita quotidiana è un’assurdità. A disposizione del teatro sono rimasti i quadri di costume della vita durante la Rivoluzione e delle pièce grossolane di carattere propagandistico». E Bulgakov, di rimando: «Mosca è una caldaia dove, insieme alla nuova vita, devono bollire anche gli stessi che la stanno preparando»


il Manifesto – 24 novembre 2016

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