Michail Bulgakov è
noto soprattutto per i suoi romanzi, ma fu anche autore di un teatro
modernissimo dove luci e scenografie avevano altrettanta importanza
delle parole.
Marco Archetti
Se il diavolo è
dietro le quinte di un palcoscenico
«I manoscritti non
bruciano!» cinguetta diabolicamente il tenebroso Woland ne Il
maestro e Margherita, capolavoro di Michail Bulgakov, varcando la
soglia della letteratura mondiale e dichiarando, una volta per tutte,
che i romanzi fanno sul serio perché restano scritti per sempre. Ma
i loro autori? Esistono per sempre anche quando non è loro permesso
di esistere nemmeno una volta?
«Sono, mi viene da
pensare, una macchina astrusa che produce ciò di cui l’Urss non ha
bisogno». Bulgakov lo scrive al fratello, in una lettera del 21
febbraio 1930, a partita ormai persa e a bezdomnost’ ormai
certificata. Senza casa, estraneo, privo di punti di riferimento,
così si sentiva lo scrittore ucraino più moscovita che si possa
immaginare, costretto al silenzio in vita e inesistente
letterariamente fino a venticinque anni dopo la sua morte.
Un silenzio che ha fatto
fiorire il deserto, ma il bilancio della vita di Bulgakov resta assai
drammatico: la maggior parte dei romanzi restò impubblicata, tre
quarti delle riduzioni sceniche e dei libretti composti per il
Bol’šoj inutilizzati, e delle pièce teatrali scritte, quattro non
vennero mai portate in scena, quattro sì, ma due furono stroncate
subito dopo la prima.
Le uniche che si
guadagnarono un vago diritto di esistere (ottenuto dopo
travagliatissime riscritture affinché i testi non ledessero la
«sensibilità politica» dell’epoca) furono I giorni di
Turbin e L’appartamento di Zoja, che andarono in scena in
due teatri di Mosca contemporaneamente proprio in questi giorni, tra
ottobre e novembre di novant’anni fa. Entrambe furono un evento,
entrambe facevano di una casa il proprio fulcro narrativo: la prima
raccontava la disfatta dei controrivoluzionari bianchi assediati dai
bolscevichi, la seconda di un finto atelier rivelatosi bordello.
Al contrario di Cechov
che si considerava sposato solo con la letteratura, Bulgakov si
sentiva drammaturgo a pieno titolo. Compose i primi drammi a
Vladikavkaz quand’era aggregato alla Guardia bianca in qualità di
medico, senonché un giorno provò a rendere difficile la vita ai
posteri e distrusse tutto quel che aveva scritto, pagina dopo pagina,
ma è vero che il diavolo sta nei dettagli se alla fine,
fortunatamente, è stata ritrovata la copia di una sua pièce
intitolata I Figli del Mullah – pare si trattasse della
copia di un suggeritore. Certo è che insieme alla stesura letteraria
de La guardia bianca Bulgakov si dedicò anche a quella teatrale:
nell’estate del 1925, ospite di amici presso Koktebel’, mentre
posava per un ritratto dettava alla moglie le ultime pagine del
romanzo – pagine che non usciranno sulla rivista che l’aveva
pubblicato fino a quel momento, perché l’editore fuggirà con la
cassa e a Bulgakov non verrà restituito il manoscritto – ed entro
agosto ne terminerà la versione teatrale.
A fine mese, mentre gli
giungeva il verdetto di Kamenev per Cuore di
cane(«Impubblicabile!»), il regista Sudakov gli annuncerà la
possibilità di leggere I Turbin a Stanislavskij. Presente
alla lettura, anche Lunacarskij, il Commissario del Popolo
all’Istruzione dell’Urss. Dirà: «Una porcheria. Non va portato
in scena. Rifare!». Le sfibranti riscritture di quei giorni e le
guerre interne al teatro porteranno lo scrittore a rispondere in
questo modo a una lettera d’invito per una serata letteraria: «Sono
seppellito sotto un testo teatrale dal nome altisonante. Di me è
rimasta solo l’ombra, da accludersi quale supplemento gratuito al
testo suddetto».
Ma attenzione, è proprio
in quel periodo – intanto anche il bellissimoDiavoleide,
premonizione narrativa de Il Maestro e Margherita, viene
ritirato dalle edicole – che Michail Bulgakov, ombra stakanovista,
si mette a scrivere un’altra commedia: L’appartamento di
Zoja. Tutt’intorno, gli eventi precipitano.
Il 7 maggio 1926 la
casa dello scrittore è oggetto di una perquisizione poliziesca ad
opera di due ceffi che sfonderanno le poltrone con un punteruolo
(«Cara moglie – sdrammatizzerà Michail – possono anche sparare
alle tue poltrone, ma non te le ricompro!»), il teatro di Mosca
tenterà di imporre un nuovo titolo ai Turbin, ossia Prima
della fine (titolo che Stanislavskij detesterà, ma consiglierà
a Bulgakov di evitare l’aggettivo «bianco» – servirà a poco,
l’esame censorio non verrà superato) e a giugno, da Leningrado,
arriverà la comunicazione che nemmeno L’appartamento di Zoja,
così com’è, andrà in scena.
Il regista Popov si darà
molto da fare per aiutare Bulgakov, e alla fine I Giorni di Turbin
passerà, ma solo dopo che la prova per i censori della Commissione
Repertori sarà andata bene. Quella sera, abbandonandosi a una crisi
isterica, Stanislavskij minaccerà di lasciare il teatro se il testo
fosse stato nuovamente respinto. «I nostri stomaci sono forti al
punto da digerire cibi piccanti, il dubbio contenuto ideologico del
testo non ci spaventa», dichiarò uno spaventato Lunacarskij. Così,
i Turbin andranno in scena 13 volte in ottobre, 14 in novembre, 15 in
dicembre, per un totale di 50 entro gennaio. Pare che la sera della
prima un’ambulanza facesse gli straordinari fuori dal teatro. E che
Majakovskij se ne andò, annoiato, al terzo atto.
Contemporaneamente, al
teatro Vachtangov, debuttava (riscritto) anche L’appartamento
di Zoja. È questa la pièce perfetta per godere a pieno il vigore
della satira bulgakoviana che, servita da maschere che inscenano
l’insopportabile teatralizzazione della vita sovietica, fa a pezzi
la Nep e la sua pallida volontà di riconoscere alcune piccole
imprese private. Nella commedia si intraprende eccome, ma un traffico
di prostituzione. Di giorno, sulla parete della casa di Zoja,
campeggia un quadro di Marx, di notte il ritratto viene sloggiato con
un impietoso: «Scendi, vecchietto!».
La scena è un
felicissimo pandemonio, il palco brulica di viavai e di personaggi
che irrompono e si danno a serrati botta e risposta. La fantasmagoria
musicale è notevole: stornelli sovietici, foxtrot, romanze zigane e
trombettate da pasquinata. Ma dopo il fracasso, la disperazione: il
momento è difficilissimo. Il famoso attore Michail Cechov abbandona
Mosca e da Berlino scriverà: «Sono bandito dalla Russia. La nostra
vita quotidiana è un’assurdità. A disposizione del teatro sono
rimasti i quadri di costume della vita durante la Rivoluzione e delle
pièce grossolane di carattere propagandistico». E Bulgakov, di
rimando: «Mosca è una caldaia dove, insieme alla nuova vita, devono
bollire anche gli stessi che la stanno preparando»
il Manifesto – 24
novembre 2016
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