Siamo particolarmente lieti di anticipare, in esclusiva, una
parte della Prefazione scritta da Goffredo Fofi per la nuova edizione del libro.
Dalla nuova Prefazione di Goffredo Fofi
Mia madre non studiò oltre la
terza elementare – e poi, al lavoro, come sua madre e sua sorella, figlie di un
contadino morto ammazzato sul Grappa. Mio padre la terza e mezzo
e poi al lavoro anche lui. Di quel “mezzo” si vantava – quarto dei cinque
figli di un bracciante analfabeta che, con la moglie, analfabeta anche lei,
aveva messo da parte i soldi per costruirsi, con suo fratello, una casa,
lavorando lui in miniera e la moglie in una locanda, a Metz era ancora Prussia.
Mio padre e mia madre sono morti entrambi nella periferia di Parigi e lì sono
sepolti. Vi erano emigrati nei primi mesi del 1957, ma mio padre era già
operaio in gioventù nella Germania hitleriana. Ho parenti o amici d’infanzia in
molti paesi, dall’Australia agli Stati Uniti, dall’Argentina al Belgio, dal
Venezuela al Sudafrica. A Scranton, Pennsylvania, e a Charleroi, Belgio, sono
le comunità di miei compaesani più numerose, e a Charleroi sono stato più
volte.
Questa non è una storia eccezionale, bensì
normale, è la storia di milioni di italiani poveri dell’Ottocento e del
Novecento, ed è anche la storia che ci racconta Tommaso Bordonaro nella Spartenza. Scritta
da sé medesimo, nell’italiano incerto di chi scuola ne ha vista poca e di chi ha
dovuto dividersi tra due lingue, di conseguenza mescolandole. Ma sapere due
lingue (che può anche significare avere due patrie) e avere due amori, come
recita un proverbio antillese, è molto meglio che sapere una sola lingua e
avere un solo amore. Bordonaro sapeva due lingue e ha avuto due amori,
apprendendo della vita l’essenziale: la condanna della fatica (il sudore della
fronte) ma anche la soddisfazione del lavoro ben fatto e utile anche gli altri,
le virtù della tolleranza dettate da una curiosità non malevola per i casi
altrui e cioè per il prossimo, il rispetto per la propria consorte e la fedeltà
antica alla famiglia, che è stata e continua a
essere troppo spesso, come constatava Christopher Lasch in un suo celebre
saggio, l’“unico rifugio in una società senza cuore”.
Mancarono
a Bordonaro (ma non mancarono ad altri, e per esempio ai miei, di solida
vocazione socialista) la passione per il bene comune e le virtù dell’impegno
civile, del sentirsi responsabili nei confronti di una comunità, anche se di
una comunità si sa di far parte e se ne condividono le sorti. Bordonaro si apre
alla famiglia allargata, quasi clan, ma non si spinge fino all’identificazione
nelle sorti di un villaggio, di un paese, di una parte sociale, e il massimo di
apertura che si consente, già “americano”, è quella nei confronti di
un’identità che sta nella rivendicazione di radici locali, non nazionali, e che
si esprime nel farsi carico di una tradizione religiosa, un’appartenenza anche
in questo caso circoscritta: il santo del paese e la sua festa, più importanti
delle stesse convinzioni religiose.
Quando si legge La spartenza, la prevalenza del particulare è
peraltro assai comprensibile: la lotta per la sopravvivenza la determinava e la
imponeva; la fame è fame e la scarsità è scarsità, e per l’individuo che
appartiene volente o nolente a una società in cui impera la disuguaglianza –
gabellata oggi per meritocrazia – la prima legge è quella di sopravvivere
assicurando la sopravvivenza dei propri famigliari, dei propri cari. Il
“familismo amorale” ha una sua necessità, prima di diventare un modo di
distinguersi dagli altri e di viverli come rivali e nemici. E legge di ogni
emigrazione, da che mondo è mondo, è la sconfitta della solitudine per l’aiuto
che viene al singolo dal suo primario gruppo di appartenenza, la famiglia
allargata e i compaesani e corregionali, e solo accessoriamente i connazionali.
Sono coloro che sono arrivati a destinazione prima di noi e che hanno il nostro
stesso sangue e che parlano la nostra stessa lingua, sono essi che possono
darci una mano e introdurci, proteggendoci, dentro un nuovo ambiente, a nuove
forme e regole di convivenza, a una nuova lingua e a una nuova comunità. Solo
loro ci capiscono, solo loro possono identificarsi nelle nostre ambasce, perché ci sono già passati. Solo più
tardi, e non sempre, arrivano i sindacati, i partiti.
Stupisce nella Spartenza l’assenza dei compari, una forma di allargamento della
famiglia al gruppo amicale e parenterale
che significava, nell’Italia povera, la corresponsabilizzazione di altri nel
destino nostro e dei nostri figli, mentre non stupisce che Bordonaro non
avverta la presenza di organizzazioni della solidarietà tra simili (neanche le
parrocchie hanno svolto un ruolo significativo nella sua vita, non solo i
sindacati e i partiti) sia nella sua Sicilia che nel suo New Jersey. Se penso
alla vita dei miei e alla mia stessa, devo constatare che, nell’Umbria del
dopoguerra, erano estremamente presenti – dopo i vent’anni del fascismo –
partiti e organizzazioni sindacali e religiose o para-religiose, insieme alle
vecchie organizzazioni delle categorie artigianali (che si chiamavano ancora,
come nel Medio Evo, “università”), ma la Sicilia e il Sud erano lontani e le condizioni di
vita, e insomma l’economia, vi erano ben più tragiche e miserabili, l’ordine
delle classi sociali infinitamente più rigido e pesante. E chi decideva in
Sicilia di dedicare la sua vita al raggiungimento di una maggiore giustizia
sociale, rischiò spesso la morte. Nella società statunitense, peraltro, si
trovava protezione e solidarietà oltre il clan quando si era da tempo superata
la fase più dura dell’inserimento, e la lotta per l’esistenza (la darwiniana struggle for life) aveva dato i suoi
frutti.
Documento
assai istruttivo, le memorie di Bordonaro dicono anche quando non dicono,
spiegano per assenza e non solo per l’immediata percezione di un vissuto e per
il ricordo del tragitto affrontato e delle conquiste raggiunte. Dicono, cioè
scrivono. Affrontano una prima persona come altri e tanti hanno fatto prima di
lui, ma il cui risultato non è un documento di storia orale, un’intervista
trascritta o registrata, bensì un’opera letteraria vera e propria. Nell’elenco ricco e importante
delle “storie di vita” di cui l’editoria del dopoguerra e del boom ci ha
consegnato molti e diversi esempi, da Scotellaro a Dolci, da Cagnetta ad
Alasia, è però a quella parte delle Autobiografie
della leggera di Danilo Montaldi che vennero scritte dai diretti protagonisti e non trascritte dal curatore che si pensa leggendo
Bordonaro. E la benemerita iniziativa di Saverio Tutino dell’archivio
e del premio di Pieve Santo Stefano, che ha premiato La spartenza favorendone la scoperta da parte di una scrittrice del
valore di Natalia Ginzburg e di un editore come Einaudi, ha stimolato la
raccolta di centinaia di diari e memorie venuti dal “basso”, fornendo a chi
voglia studiare la nostra società e in particolare come hanno vissuto la storia
le sue “classi subalterne” dei materiali straordinari, i cui autori non
raccontano oralmente ad altri la propria vita, ma se ne fanno
direttamente carico, con maggiore o minore sincerità, capacità di
narrare, significatività delle esperienze vissute. Oltre a La spartenza, merita di essere ricordato un altro eccezionale
documento letterario e storico che in qualche modo – non solo perché ci è
venuto anch’esso dalla Sicilia – gli si apparenta, anche se in esso la libertà
e l’originalità della lingua è quella di uno scrittore “illetterato” ma grande,
Terra matta di Vincenzo Rabito,
anch’esso pubblicato da Einaudi.
La lingua, dunque. Quest’italiano essenziale che
va subito al sodo, e che è quello delle antiche cronache perché il tempo passa
lentamente per i senza-storia, ma che è nutrito di dialetto e di slang, di
siciliano di italiano di inglese o, meglio, di americano. Che stimola il
ricordo delle interviste di Dolci ma anche, altrettanto ignote all’autore,
delle sintesi di storia siciliana di Savarese su Rossomanno (il feudo) e Petra
(la città), che tanto piacevano a Sciascia e che meriterebbero – è un consiglio
al nuovo editore di Bordonaro – di venir riproposte insieme alla Storia di un brigante, come una
necessaria introduzione alla comprensione della
grande isola-nazione. (Una lingua che a me ricorda anzitutto, e mi scuso per
mettermi di nuovo in campo, le lettere che ho ricevuto per anni da un
ergastolano italo-americano, David William Bianchi, cacciato
come indesiderabile dagli USA e luogotenente del bandito Barbieri nella
turbolenta Milano della Liberazione…).
È vero, come disse Natalia
Ginzburg, che la lingua di Bordonaro è “rocciosa, simile a un sentiero di
montagna che sale e scende in mezzo alle pietre”, […] senza
“artifici
o accorgimenti, nemmeno rudimentali” e che è una “scrittura selvaggia” però
ampiamente dotata della “facoltà di comunicare”. Ma non è vero, credo, che essa
“non assomiglia a niente che abbiamo già letto”. È la
lingua delle “classi subalterne”, è la lingua scritta degli illetterati, dei semi-analfabeti, una lingua che
trasceglie dal vissuto i fatti salienti e significativi per il
protagonista-narratore e che è anche in questo significativa e comunicativa,
perché ci ricorda come venga vissuta da los de abajo, come
dicevano gli scrittori spagnoli e latino-americani, la Storia con la maiuscola, a
partire dal prisma dell’esperienza diretta. Che non è mai piccolo. Che è stato
e in parte è ancora, nonostante la rivoluzione del web, la lingua universale
che troppi letterati hanno creduto non esistesse che oralmente, che non avesse
dignità se non orale: la lingua degli “illetterati” e degli “innalfabeti”
che
sono stati la massa e il sale del genere umano.
[…]
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