Il saggio seguente è tratto dal terzo volume di “L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Il capitalismo americano e i suoi critici”, Jaca Book 2013. Il titolo originale è: “Il labor feminism, l’altro movimento delle donne americane”.
Dorothy Sue Cobble - Il labor feminism Usa
La storia del femminismo americano presenta un problema di classe: a occupare il centro della scena sono le idee, le organizzazioni e i movimenti sociali delle donne dell’élite. È anche per via di questa prospettiva parziale che il femminismo americano finisce per essere ricostruito come un movimento dedicatosi quasi esclusivamente all’emancipazione politica e legale e alla conquista di opportunità individuali nel «libero» mercato del lavoro.
Il recupero della storia del labor feminism sfida questa
prospettiva diffusa ma sbagliata. Ci costringe a ripensare le idee
chiave, le campagne e le istituzioni del femminismo americano. La lotta
per una giustizia economica e per i diritti sociali diventa importante
tanto quanto quella per i diritti politici e legali. Istituzioni
«miste», come il movimento operaio e il movimento per i diritti civili,
diventano luoghi cruciali per la rivoluzione femminista. Il femminismo
diventa un movimento capace di riformare il lavoro e il mercato, e non
solo di garantirvi l’accesso.
Lungi dall’essere un movimento marginale, il labor feminism fu, al tempo, l’ala dominante del femminismo americano. Le sue militanti articolarono una variante feconda, centrata sui bisogni delle donne lavoratrici, e sostennero le associazioni dei lavoratori e i sindacati in qualità di principali strumenti attraverso cui poter migliorare le condizioni della maggior parte delle donne. Queste femministe perseguirono diritti collettivi e diritti individuali, dedicarono attenzione alla riforma economica e sociale come a quella legislativa, e considerarono i problemi delle donne legati a classe e razza tanto importanti quanto la discriminazione sessuale di cui erano vittime. Sostenevano che la differenza di «genere» dovesse essere accolta e che l’uguaglianza non potesse essere sempre raggiunta attraverso l’identità di trattamento. La loro era una visione di uguaglianza che rivendicava giustizia per le donne sulla base della loro umanità, e non del loro essere «come gli uomini». Rigettavano lo standard, o quello che chiamavano «schema» maschile, quando non corrispondeva ai loro bisogni.
Ma perché questa storia non è stata raccontata prima? Perché gli sforzi di riforma delle donne lavoratrici non sono stati considerati un elemento della narrazione standard riguardo la storia del lavoro e delle donne del dopoguerra? In parte, questa assenza è il risultato di un inveterato pregiudizio sessuale ancora attivo tra molti storici del lavoro. La storia del movimento operaio, intesa come campo di studi, considera come proprio interesse primario i lavoratori maschi e le loro lotte pubbliche per il salario. Il «genere», in quanto categoria d’analisi storica, rimane estraneo al quadro narrativo e teorico. Ma le donne lavoratrici sono assenti anche nella storia del femminismo americano. La storia del femminismo, per come è raccontata convenzionalmente, è in gran parte la storia delle lotte condotte dalle donne dell’élite e della classe media bianca per risolvere i «loro» problemi. Le lotte delle donne appartenenti alla classe operaia e alle minoranze per la giustizia sessuale, per come loro la definivano, vengono relegate ai margini della storia – sempre che vi appaiano.
Al di là della metafora dell’onda
Nonostante recenti contestazioni da parte di studiosi «revisionisti», la metafora dell’onda è ancora dominante negli studi e nella didattica sulle riforme promosse dalle donne americane degli ultimi due secoli. Questa metafora organizza il femminismo americano in due ondate di riforme: la prima, più lunga, durò dal 1848 al 1920, mentre la seconda si alzò negli anni Settanta. Significativamente, secondo questo racconto a due ondate, rimane un buco di cinquant’anni, dopo il 1920, – mezzo secolo in cui si suppone non ci siano state né onde, né riforme. Questo contributo si propone di contestare la narrazione «a due ondate» con il suo mezzo secolo di inattività riformista e cercherà di portare argomenti a sostegno della continuità e della vitalità del movimento femminista, non solo negli anni Venti e Trenta, ma anche nei Quaranta e oltre – in quei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale ancora descritti, nella cultura popolare e da molti studiosi, come «età della depressione» per il femminismo e le donne americane, età di conservatorismo sessuale, infelicità domestica e gelo politico da Guerra fredda.
C’è bisogno di rivedere sia la periodizzazione che la struttura di base della storia delle donne negli Stati Uniti. Gli storici del femminismo dovrebbero ragionare in termini di movimenti femminili plurali e sovrapposti, che nascono e muoiono in momenti diversi. L’attivismo delle donne della classe operaia, per esempio, cresce nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale e raggiunge il suo apice all’inizio degli anni Sessanta, prima dell’emergere della «seconda ondata» tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta.
Tra le altre cose, la storia del labor feminism complica la versione tuttora dominante del «mito delle origini» del nuovo femminismo anni Sessanta e Settanta. Secondo questo racconto, il nuovo femminismo affonda le sue radici nei vecchi e nuovi movimenti radicali di sinistra, nel movimento per i diritti civili e, ovviamente, in La mistica della femminilità, il grande successo di Betty Friedan del 1963[1]. Raramente viene riconosciuta l’importanza del potere politico ed economico delle forze lavoratrici organizzate e il loro impatto su ciò che doveva essere considerato giusto, sulle norme e sulle pratiche lavorative e sulle politiche governative riguardo i diritti delle donne e i diritti civili e del lavoro. La tesi qui sostenuta è che il sorgere di quella che tradizionalmente viene definita «seconda ondata» non può essere compreso se non si tiene conto del movimento legato al mondo del lavoro, il più grande movimento sociale dell’America degli anni Cinquanta, e delle donne che vi presero parte.
Nel femminismo americano ci sono molteplici anime, differenti ma vitali, ognuna con la propria lunga storia, diversa a seconda del tempo e dello spazio presi in esame. Riconosciuta la pluralità delle forme del femminismo, si aprono nuove prospettive di studio. Per prima cosa, si estendono i confini del femminismo e nuovi gruppi entrano a far parte della sua storia. Ma non meno importante è che la storia dei diritti delle donne diventerà non solo una storia di sorellanza e di un unico grande movimento, ma inevitabilmente anche una storia di contrasti e di alleanze mutevoli. Per alcune donne le discriminazioni di classe, razziali o basate su altre distinzioni hanno pesato tanto quanto le discriminazioni sessuali. Queste differenze hanno avuto incidenza sulla loro vita, quindi non dovrebbe sorprendere che abbiano inciso anche sulla loro idea di quali riforme fossero desiderabili, oltre che possibili, e di quali riforme dovessero avere priorità, una volta arrivati al dunque.
Il labor feminism prima della Seconda guerra mondiale
Le idee delle femministe della Progressive Era, come Jane Addams, Florence Kelly o Rose Schneiderman, nacquero in un clima, quello degli Stati Uniti dell’inizio del xx secolo, caratterizzato dalla crescita delle comunità di immigrati, dall’ascesa dei partiti democratico e socialista, dagli scioperi di massa nel tessile e in altri comparti tra il 1909 e il 1914, da tragedie come l’incendio della fabbrica della Triangle Shirtwaist Company nel 1911 e dalle lotte per il suffragio femminile – enormi manifestazioni, disobbedienza civile e comizi spontanei.
Le femministe del movimento operaio della Progressive Era crearono nuove associazioni di lavoratrici etnicamente inclusive, soprattutto nel tessile, dove era impiegata la maggior parte delle donne sindacalizzate. Esse formarono anche organizzazioni femminili interclassiste come la Women’s Trade Union League e la National Consumers League. Questi gruppi mescolavano immigrate operaie provenienti in gran parte dall’Europa del Sud e dell’Est con militanti native dell’élite di origine principalmente nordeuropea. Le donne ricche, chiamate «alleate», si schieravano al fianco delle operaie nei picchetti e promuovevano la formazione di organizzazioni sindacali. In realtà, spesso le «alleate» preferirono il boicottaggio dei consumi o il sostegno di leggi per un lavoro più equo agli scioperi e al picchettaggio, ritenendole strategie più efficaci per migliorare le condizioni salariali delle donne.
I risultati ottenuti dalle femministe della Progressive Era nel campo del lavoro e della giustizia sociale furono formidabili. Negli anni Venti esse ottennero l’approvazione di numerose leggi statali regolanti orari, salari e condizioni di lavoro delle donne, riuscirono ad assicurare contratti sindacali e procedure di contestazione in molte aziende e contribuirono alla vittoria del suffragio femminile. La loro influenza raggiunse l’apice negli anni Trenta con la nascita del nuovo Partito democratico, vicino a quante ancora erano private dei diritti civili e di voto, e con l’elezione di Franklin Delano Roosevelt alla presidenza degli Stati Uniti. Queste donne contribuirono a delineare i principi di fondo della legislazione del New Deal in materia di assistenza sociale e di lavoro, tra cui il Fair Labor Standards Act (la prima legge federale che istituiva un minimo salariale e un tetto orario per uomini e donne), il Wagner Act (che incaricava il governo federale di garantire il diritto dei lavoratori a organizzarsi, scioperare e contrattare collettivamente con i datori di lavoro) e una legge sulla previdenza sociale che assicurava sussidi economici per disoccupati, anziani e malati.
Il labor feminism e la generazione della Seconda guerra mondiale
Le militanti del labor feminism della generazione della Seconda guerra mondiale – donne come Esther Peterson, Addie Wyatt, Caroline Dawson Davis o Myra Wolfgang – furono le sorelle e le nipoti intellettuali delle riformatrici della Progressive Era. Anche loro credevano che gli svantaggi delle donne fossero originati da svariate cause e che fosse necessaria una serie di riforme sociali per rimediare alla situazione di subordinazione femminile. Dagli anni Quaranta esse si misero alla guida del labor feminism e lo adattarono a una nuova era.
Quando erano ancora giovani, queste donne si impegnarono nei drammatici sit-down[2] e negli scioperi di massa degli anni Trenta, e contribuirono a costituire associazioni di lavoratrici nei settori automobilistico, elettrico, confezioni e altri comparti della produzione industriale di massa. Negli anni Quaranta e Cinquanta esse consolidarono le proprie conquiste ed estesero l’associazionismo sindacale a nuovi comparti dell’economia. Nel 1947, per esempio, nel più grande sciopero femminile della storia degli Stati Uniti, circa 230.000 operatrici telefoniche diedero vita a una protesta di portata nazionale contro la at&t. Al grido di «The voice with a smile will be gone for awhile»[3], picchetti di ventiquattr’ore attraversarono il Sud, il Midwest e l’America rurale. La sezione delle operatrici telefoniche di Washington dc, incoraggiata dai circa duecento scioperi riusciti nel precedente anno e mezzo, con grande effetto, riuscì a tagliare l’accesso telefonico alla Casa Bianca.
Scalando i vertici delle organizzazioni sindacali e del governo nei decenni del dopoguerra, questa generazione puntò a modificare i programmi dei sindacati per venire maggiormente incontro alle istanze delle donne. Sotto l’egida del Women’s Bureau del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, si riunirono su scala nazionale attorno a un’agenda di riforme sociali concrete e di vasto impatto, che le avrebbe accompagnate fino alla fine degli anni Sessanta. L’agenda includeva la fine della discriminazione sessuale, paghe uguali per lavori simili, assegni familiari per donne e uomini, rivalutazione dei cosiddetti «lavori femminili», accorciamento della giornata e della settimana lavorativa per uomini e donne e aiuti per la maternità e l’allevamento dei figli.
Per le militanti del labor feminism la discriminazione contro le donne era un fatto – un’idea non molto condivisa negli Stati Uniti del dopoguerra. Tuttavia il loro obiettivo non era di porre fine a tutte le distinzioni su base sessuale, cosa che temevano sarebbe derivata dall’approvazione dell’Equal Rights Amendement (era), un disegno di legge proposto da politici conservatori, gruppi d’affari e femministe dell’élite e per il «libero mercato» raccolte nel National Woman’s Party (nwp)[4]. Le donne del labor feminism cercavano di porre fine solo a quelle distinzioni che danneggiavano le donne, cioè a quelle distinzioni «ingiuste» o offensive che comportavano una discriminazione. Per loro alcune distinzioni, come le leggi federali rivolte alle donne che istituivano minimi salariali e tetti orari, andavano a beneficio della gran parte delle donne. Erano quindi convinte che le cosiddette «leggi protettive» dovessero essere conservate e le loro tutele estese anche agli uomini.
Inoltre, la discriminazione sessuale non era l’unico problema che le donne dovevano affrontare. C’era ugualmente bisogno che ci si occupasse di classe, razza e altre forme di disuguaglianza. Ma come? Su questo come su altri temi le donne del labor feminism si distaccavano dalla tradizione femminista, più individualista, centrata sulla parità di trattamento, abitualmente celebrata nelle narrazioni correnti. Opportunità individuali, accesso al mercato e uguale trattamento rispetto agli uomini erano sicuramente importanti e necessari. Ma erano anche insufficienti, soprattutto per le donne povere. Le operaie, come gli operai, avevano bisogno di qualcosa di più dell’accesso al mercato o della possibilità di ambire alle poche posizioni di vertice. Avevano bisogno che fossero trasformati il mercato e la natura stessa dei lavori della classe operaia. Per realizzare tale trasformazione, queste donne si rivolsero allo Stato e alle organizzazioni operaie.
Senza nascondersi che «ci sono cose di cui hanno bisogno solo le donne, e non gli uomini», queste femministe rivendicarono misure da parte di Stato e imprese a difesa delle donne impegnate nel lavoro riproduttivo. Spinsero i sindacati a negoziare congedi per gravidanza e maternità con garanzia di conservare lavoro e reddito, ma anche copertura sanitaria durante il parto e contratti che consentissero ai lavoratori un maggiore controllo sui tempi di lavoro e sul tempo da dedicare alle emergenze familiari. Cercarono anche di estendere la copertura di invalidità e disoccupazione alle donne incinte e alle madri, si batterono per una riforma della tassazione che andasse a beneficio delle famiglie con figli a carico e fecero ripetute pressioni per un programma di assistenza universale all’infanzia, finanziato dallo Stato federale. Consideravano il lavoro di assistenza e cura degno di un salario sociale e di benefici statali quanto qualsiasi altro lavoro, e il diritto a una vita al di là del lavoro salariato rappresentava un aspetto importante di quella che definivano «cittadinanza economica di prima classe» per le donne. «Le donne non devono essere penalizzate perché svolgono le loro normali funzioni materne», sostenne Esther Peterson, membro dell’afl-cio, a un congresso internazionale di pubblici funzionari nel 1958.
Questi sforzi sono chiaramente anticipatori di quelle riforme lavoro-famiglia divenute sempre più centrali nel movimento femminista statunitense contemporaneo. Eppure il nucleo dell’agenda lavoro-famiglia del labor feminism non è ancora diventato parte integrante del dibattito odierno. Si trattava, infatti, di un movimento riformista che mirava a risolvere i problemi delle donne non appartenenti all’élite. Questo significava cercare soluzioni collettive, non individuali, alle due questioni principali: bassi salari ed eccessivo numero di ore di lavoro.
Aprire alle donne l’accesso ai lavori maschili più retribuiti, questa fu la soluzione per ottenere l’aumento dei salari che sarebbe divenuta dominante, alla fine degli anni Sessanta. Ma questa non fu la strategia prioritaria del labor feminism. Piuttosto, lungo gli anni Quaranta e Cinquanta il tentativo fu di aggiornare e modificare le modalità con cui venivano valutati e retribuiti i lavori svolti dalla maggior parte delle donne. Il movimento fece pressioni per aumentare il salario minimo sindacale stabilito dallo Stato, organizzò associazioni e sindacati, spinse i datori di lavoro a colmare la distanza salariale tra i due sessi e lanciò una campagna nazionale per l’equa retribuzione allo scopo di modificare la legge e l’atteggiamento generale circa la dignità del lavoro femminile.
Nel 1945 queste femministe riuscirono a far presentare l’Equal Pay Act[5] al Congresso e lo riproposero ogni anno fino al 1963, quando una versione del disegno di legge fu finalmente approvata. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale riuscirono anche a far approvare leggi sulla giusta retribuzione in diciotto Stati. Quello che conta non è solo il loro attivismo, ma anche le loro idee. Esse formularono una definizione generale di giusta retribuzione: sostenevano che le donne avrebbero dovuto essere pagate come gli uomini, a parità di lavoro, ma che avrebbero dovuto ricevere una giusta ed equa retribuzione anche quando avessero svolto lavori differenti. I sistemi di retribuzione istituiti dai datori di lavoro sottostimavano le capacità, la produttività e la responsabilità delle donne, per cui era necessario un radicale ripensamento delle logiche salariali. «Perché una donna che rimane in fabbrica seduta a imballare dev’essere pagata 20-25 centesimi meno di un uomo che pulisce i pavimenti?», chiedeva una militante.
Per raggiungere questo vasto obiettivo il movimento, coerentemente, si basava sulla parola d’ordine «salario uguale per lavoro simile», e non «salario uguale per lavoro uguale», e giunse quasi a far passare questa logica a livello federale. La proposta di legge approvata definitivamente nel 1963 rimase ben lontana da quanto il labor feminism aveva sperato: «simile» fu sostituito da «uguale», uno spostamento linguistico che limitò l’effetto della legge alle sole situazioni in cui le donne svolgevano lo stesso lavoro degli uomini.
Negli anni del dopoguerra la battaglia sugli orari fu altrettanto intensa. La lotta per aumentare il tempo libero non terminò negli anni Trenta. Dopo la guerra, i sindacati a leadership maschile non chiesero più un aumento del tempo libero attraverso una giornata lavorativa più breve, ma preferirono battersi per le ferie pagate, per le vacanze, per i permessi di malattia e per il pensionamento anticipato – ciò che Walter Reuther, presidente degli United Automobile Workers (uaw), chiamò «tempo libero concentrato». Il labor feminism sostenne molte delle campagne sindacali del dopoguerra volte a ottenere un tempo libero meglio retribuito. Tuttavia l’approccio del «tempo libero concentrato» non era ancora abbastanza per chi era inchiodato al «doppio turno» del lavoro domestico e del lavoro salariato. C’era ancora bisogno di individuare meccanismi con cui fare della giornata di lavoro più corta una realtà.
Il movimento vedeva nella legislazione per un abbassamento del monte ore la strada più efficace per arrivare a limitare l’orario di lavoro giornaliero. C’era ottimismo sulla possibilità di rafforzare il Fair Labor Standards Act (flsa), che la precedente generazione di femministe aveva contribuito a far approvare nel 1938. Tuttavia le leggi statali riguardanti l’orario lavorativo femminile – nel 1957 circa 43 Stati avevano una legislazione del genere – offrivano una protezione ancora migliore. Molte leggi statali istituivano tetti giornalieri e settimanali al monte ore e proibivano qualsiasi tipo di lavoro che superasse quei limiti. Di contro, per scoraggiare l’orario lungo, il flsa puntava a disincentivare il ricorso al lavoro straordinario oltre le quaranta ore settimanali, ma non lo proibiva. L’approccio del flsa, pensavano in molte, era una forma inadeguata di controllo sul potere dei datori di lavoro e sull’implacabile spinta del mercato per il prolungamento dell’orario di lavoro. Lo standard femminile fissato dalle leggi statali «di genere» non doveva essere lasciato cadere, ma andava esteso a tutti i lavoratori – guadagnare è importante, ma lo è anche una politica dei tempi che ponga dei limiti al mercato del lavoro e tenga conto del diritto di non lavorare.
Così non sarebbe andata. Alla fine degli anni Sessanta quasi tutti i provvedimenti statali destinati alle sole donne, incluse le leggi sulle ore di lavoro, furono ritenuti illegittimi essendo in contrasto con la Civil Rights Act, appena approvata, che proibiva ogni discriminazione di razza, sesso, religione e origine nazionale. Sfortunatamente, non furono individuati nuovi meccanismi in grado di limitare il tempo di lavoro. Il flsa divenne in tutto il paese il riferimento primario per limitare le ore di lavoro. Oggi riconosciuto come uno strumento sempre più problematico, la sua debolezza è certamente una delle ragioni per cui le ore lavorative sono negli Stati Uniti più alte che in qualsiasi altro paese industrializzato.
Il labor feminism ebbe maggior successo in altre battaglie. Per esempio, contribuì a conquistare e consolidare il Civil Rights Act del 1964, il Voting Rights Act del 1965[6] e, nel 1966, ad assicurare l’estensione del flsa a copertura della maggior parte delle lavoratrici. Il movimento contribuì anche, alla fine degli anni Sessanta, all’emergere di un movimento femminile di massa. Nel novembre del 1963 Esther Peterson, la donna più in alto nella gerarchia del governo federale, consegnò al Presidente Kennedy la relazione finale della Commission on the Status of Women[7], la prima commissione federale dedicata al cambiamento del ruolo delle donne e alle modalità con cui il Governo rispondeva a tale processo. Il report, dal titolo American Woman, divenne un best-seller capace di sollevare un dibattito nazionale sulle ingiustizie legate allo status delle donne nella società e su cosa si potesse fare per rimediarvi. Il nuovo femminismo delle baby boomer si fondò su queste conquiste. Essendo più giovani, acculturate e impegnate in professioni liberali, le donne che si unirono allora al movimento misero in questione le priorità della generazione della Seconda guerra mondiale. Eppure, ancora negli anni Settanta sorsero nuove organizzazioni e associazioni di donne lavoratrici, in linea con le tradizioni del labor feminism. Come le precedenti generazioni, queste donne cercarono di ottenere diritti economici e sociali, di offrire un’alternativa allo «standard maschile» e di ottenere che il lavoro diventasse più a misura di donna.
Il labor feminism delle baby boomer, dagli anni Settanta al Duemila
Come la loro controparte della classe media, negli anni Sessanta e Settanta operaie e sindacaliste si impegnarono in un vasto attivismo sulle questioni di genere. Alla fine degli anni Sessanta le «tute blu» fecero propria una nuova prospettiva sull’uguaglianza sessuale e per la prima volta considerarono discriminatoria la suddivisone del lavoro in «femminile» e «maschile». Donne sindacalizzate inondarono l’Equal Employment Opportunity Commission (eeoc), l’agenzia governativa istituita per consolidare il Civil Rights Act del 1964, di denunce di discriminazioni sessuali in materia di assunzioni, promozioni e aiuti. Così stimolata, l’eeoc ottenne che la maggior parte delle decisioni delle Corti di giustizia sancisse la fine della segregazione sessuale e delle pratiche discriminatorie da parte delle imprese più importanti, come la us Steel e la at&t.
Oltre a utilizzare Corti e agenzie governative a sostegno dell’uguaglianza, le lavoratrici si impegnarono anche nell’organizzazione all’interno dei luoghi di lavoro. Donne impegnate o meno in professioni liberali si organizzarono in sezioni sui luoghi di lavoro chiamate a farsi carico di questioni legate alla positive action e alla discriminazione. Esse tentarono inoltre di modificare il programma del movimento sindacale relativo a contrattazioni e legislazione. Nel 1974, alcune sindacaliste avevano istituito la Coalition of Labor Union Women (cluw). Organizzazione programmaticamente femminista, tra i suoi obiettivi vi erano l’ingresso delle donne nella dirigenza sindacale, una maggiore attenzione all’organizzazione delle lavoratrici e la fine della segregazione sessuale così come di altre pratiche di discriminazione sul luogo di lavoro. La cluw esercitò pressioni per il riconoscimento della libertà di scelta della maternità e sostenne l’istituzione dell’Equal Rights Amendment (era). Il loro appoggio all’era segnava un taglio netto rispetto al femminismo del passato, ma era dovuto al fatto che negli anni Settanta erano ormai rimaste ben poche leggi specificatamente dedicate alla protezione delle donne. Inoltre, molte confidavano che l’era potesse contribuire a schiudere la prospettiva di lavori nuovi e meglio pagati per le donne con bassi salari.
Meno conosciuto nel femminismo di questo periodo è l’esplosione dell’attivismo tra le donne impiegate in lavori a prevalenza femminile – uffici, assistenza, lavori domestici – e le forme in cui questi movimenti aprirono la strada a nuove forme di organizzazione del lavoro e a nuove strategie di riforma. In alcuni casi queste attiviste trovavano nel movimento sindacale tradizionale un interlocutore aperto alle loro idee, per cui lavorarono insieme e attraverso le istituzioni sindacali. In altri casi rifiutarono la dirigenza e le strategie delle organizzazioni sindacali, ancora dominate dagli uomini, e cercarono alleati e strade differenti per sostenere i propri interessi. Alcune ruppero definitivamente con il movimento sindacale, affidando la propria battaglia ad associazioni esclusivamente femminili, fondate tanto sull’appartenenza sessuale quanto sulla solidarietà di classe. Queste nuove associazioni di lavoratrici furono costruite a partire dal programma di riforme del labor feminism della Seconda guerra mondiale, rimodellando quelle tradizioni per una nuova generazione di lavoratrici. In particolare, il vocabolario dei diritti fu ampliato e furono inventate nuove forme di rappresentanza sul posto di lavoro, più adatte per donne impegnate nell’assistenza o in professioni liberali
Nel 1972, per esempio, pressate da problemi che i sindacati a guida maschile sembravano incapaci di comprendere o accettare come «reali», le assistenti di volo decisero di prendere in mano la situazione. Fu formata la prima associazione nazionale delle assistenti di volo esclusivamente femminile, la Stewardesses for Women’s Rights (sfwr). Invece di costruire coalizioni con i maschi della classe operaia, come aveva fatto la generazione della Seconda guerra mondiale, la sfwr optò per una più stretta alleanza con le donne della classe media, includendo donne con ruoli di dirigenza nelle compagnie aeree e insigni esponenti del femminismo nazionale, come per esempio Gloria Seinem. Per raggiungere i propri obiettivi, inoltre, tale movimento fece più affidamento su azioni di lobby, cause giudiziarie, propaganda e altre tattiche di pressione, e meno su scioperi e contrattazione collettiva.
La sfwr puntava a porre fine a tutte le forme di discriminazione, compresa quella che chiamarono «sexploitation», ovvero l’impiego dei loro corpi e della loro sessualità per vendere biglietti aerei. Presentarono causa contro la Continental and National Airlines, sostenendo che le campagne pubblicitarie della compagnia creavano un ambiente di lavoro ostile. La sfwr lavorò duramente alla modifica del regolamento dell’azienda in materia di abbigliamento e aspetto. Inoltre, in sinergia con i pochi sindacati di assistenti di volo a guida femminile ottenne risultati anche in altri ambiti – opportunità di promozione, sicurezza e salubrità del luogo di lavoro, diritti di gravidanza e maternità. Alla fine degli anni Settanta molto era cambiato per le assistenti di volo – anzitutto, erano comparse nuove uniformi più dignitose, grazie a cui le hostess potevano non assomigliare più a una schiera di Barbie a grandezza naturale.
Tra le donne negli anni Settanta e Ottanta la tendenza a sindacalizzarsi aumentò, contrariamente a quanto accadde per i maschi, e questo soprattutto tra le donne impiegate nel servizio pubblico nazionale e nelle professioni liberali. Insegnanti, bibliotecarie, assistenti sociali e altri tipi di impiegate statali e municipali entrarono a far parte di sindacati o di associazioni professionali. All’inizio degli anni Ottanta, circa il 40% delle lavoratrici del settore pubblico era organizzato in sindacati, una proporzione che è rimasta stabile da allora.
Anche i lavori impiegatizi del settore privato si organizzarono, ma in modo diverso rispetto al settore pubblico ed ebbero minor successo nel rapporto con le organizzazioni tradizionali. Nel 1973 fu creata la 9to5, un’organizzazione di lavoratrici che ebbe un impatto notevole pur senza firmare mai alcun contratto collettivo. I gruppi che riunivano le categorie delle impiegate, guidati dalla 9to5, fecero ricorso a cause, petizioni, gare in cui si eleggeva «il peggior capo» e altre trovate per attirare l’attenzione sulla difficile situazione delle segretarie. La loro «Costituzione delle impiegate» e la campagna «Raises not Roses»[8] suscitarono un dibattito pubblico sulle condizioni di lavoro negli uffici e sulle norme discriminatorie che regolavano i rapporti capo-segretaria. Alla fine degli anni Settanta il movimento aveva contribuito a ottenere milioni di dollari di arretrati e di aumenti per l’uguaglianza sessuale, aveva stimolato lo sviluppo di piani per l’eliminazione delle discriminazioni sessuali da parte dei datori di lavoro, aveva fatto del National Secretaries Day – una tradizione americana in cui i capi dimostrano il loro apprezzamento per le proprie segretarie portandole fuori a pranzo e regalando loro, appunto, fiori invece che aumenti – un evento aspramente discusso e, infine, avevano ispirato canzoni di grande successo, un film e programmi televisivi.
La prossima ondata di femminismo, 2000-
Che cosa possiamo imparare da questa storia, se vogliamo una nuova ondata di lotte di donne lavoratrici? Per avviare un dibattito che dovrebbe essere anzitutto un dialogo attraverso culture e nazioni, concentrerei l’attenzione su tre temi cruciali, su cui ho avuto modo di riflettere occupandomi delle organizzazioni delle lavoratrici americane del xx secolo.
Per prima cosa, le donne della classe operaia si sono impegnate senza sosta in quella che potremmo chiamare una «doppia lotta». Facendo affidamento sulle proprie forze, su reti e solidarietà «interne», queste donne si sono organizzate con successo contro i datori di lavoro e sono riuscite a costruire sindacati potenti e di lunga durata. In molti casi il successo è dipeso anche dal dialogo instaurato con «alleati» esterni, donne dell’élite e uomini della classe operaia. Queste alleanze trasversali ai sessi e alle classi, però, spesso si sono dimostrate non solo fonti di fiducia, amore e spirito di collaborazione, ma anche sorgenti di tensioni, incomprensioni e conflitti. Per questo le donne operaie hanno dovuto organizzarsi per proteggere i propri interessi di fronte al paternalismo dei «fratelli» operai e all’élitismo delle «sorelle» della classe media.
Gli uomini della classe operaia, per esempio, e in particolare quelli non impiegati nello stesso genere di settori o mansioni, hanno offerto un aiuto fondamentale in momenti cruciali. Ma al contempo essi trattavano le donne come cittadine di seconda classe all’interno del movimento sindacale, così come nel mercato del lavoro e a casa. In risposta, le donne operaie organizzarono sindacati femminili separati o, all’interno di organizzazioni miste, crearono spazi separati e protetti, come dipartimenti, comitati o sezioni femminili.
Il rapporto con le donne delle classi agiate fu ugualmente problematico. Queste sembravano talvolta in preda a quella che potrebbe essere definita «cecità di classe». Davano la priorità alle proprie cause, che definivano come universali quando, nei fatti, riguardavano solamente una parte specifica. In maniera che non sorprende, le donne della classe operaia dovettero talora organizzarsi separatamente dalle donne dell’élite, proprio come avevano fatto nei confronti degli uomini della classe operaia. Nelle coalizioni tra classi, inoltre, esse cercarono di ritagliarsi spazi a parte, in modo che potessero emergere le loro capacità di leadership e le loro specifiche prospettive.
In secondo luogo, le organizzazioni delle donne lavoratrici dovettero continuamente elaborare tecniche con cui affrontare le differenze interne alle donne della classe operaia. La strategia del divide et impera adottata dai datori di lavoro incoraggiava a marcare, all’interno della classe lavoratrice, le differenze radicate nel pregiudizio razziale, nell’etnocentrismo, nel campanilismo, o semplicemente nella paura dell’«altro». Le donne «bianche», ad esempio, portarono avanti scioperi per impedire la condivisione di bagni, mensa, spazi ricreativi e opportunità di lavoro con le donne di colore. La seconda e la terza generazione di donne immigrate fecero pressione sulle politiche governative affinché venissero limitati i diritti dei nuovi immigrati e chiusi i confini per quanti arrivassero a cercare lavoro o asilo. Le femministe operaie americane, inoltre, si divisero a seconda delle condizioni familiari, con le donne sposate che si mostravano più spesso propense a concedere alti salari familiari agli uomini di quanto non facevano le donne sole. Scoppiarono discussioni tra le sindacaliste su quanta fede prestare alle convenzioni culturali correnti circa la gestione sessuale: cosa significava per le donne essere un «buona madre» o «una donna rispettabile»? Le donne dovrebbero onorare l’ambito «domestico» o rifuggirlo?
Negli Stati Uniti le classi lavoratrici si sono rivelate particolarmente eterogenee, ma le distinzioni per razza, etnia, nazionalità, cultura, religione, condizione familiare, età e sesso sono presenti sempre, in tutte le società. Siamo tutte diverse l’una dall’altra, quindi l’uguaglianza, così come la solidarietà, è sempre una relazione fondata sulla differenza. Non esiste alcuna identità o coscienza di classe che possa sostituire tutte le altre, per la ragione che non esiste un solo tipo di lavoratore. Allo stesso modo, non c’è una sola esperienza di genere, o un solo sfruttamento sessuale o una sola forma di emancipazione sessuale. Le organizzazioni che riconoscono e prevedono le differenze riveleranno un legame di solidarietà più solido e realistico.
Terzo e ultimo punto, le organizzazioni di donne lavoratrici hanno fatto affidamento su molteplici strategie e su molteplici strutture per raggiungere i propri obiettivi. Mentre i loro fini sono rimasti invariati nel tempo, sono cambiati i mezzi con cui hanno provato a raggiungerli. Hanno fatto ricorso all’organizzazione sia politica che economica per avanzare pretese di fronte ai datori di lavoro e di fronte allo Stato. Hanno creato organizzazioni il cui proposito principale era la contrattazione collettiva con i datori di lavoro, ma hanno anche formato associazioni di lavoratori e professionisti che adottavano altre strategie, come le cause giudiziarie, il condizionamento dell’opinione pubblica o l’azione di lobby per cercare di modificare la legislazione sui diritti sindacali, civili e sociali.
La storia della rivoluzione femminista è diventata troppo grande per la struttura che aveva ereditato. La storia afro-americana è vista oggi come una lunga, continua e conflittuale lotta per la libertà. Anche la storia delle donne potrebbe essere reinterpretata in questo modo. C’è un conflitto; ci sono priorità diverse e conflittuali. Le donne non si sono unite attorno a un’unica visione della solidarietà femminile. Piuttosto, hanno trovato forme di solidarietà contingenti e punti di convergenza mobili. Se vogliamo creare un movimento femminile nuovo e più inclusivo, dobbiamo cominciare a scrivere una storia che condivida questa prospettiva.
Bibliografia
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Lungi dall’essere un movimento marginale, il labor feminism fu, al tempo, l’ala dominante del femminismo americano. Le sue militanti articolarono una variante feconda, centrata sui bisogni delle donne lavoratrici, e sostennero le associazioni dei lavoratori e i sindacati in qualità di principali strumenti attraverso cui poter migliorare le condizioni della maggior parte delle donne. Queste femministe perseguirono diritti collettivi e diritti individuali, dedicarono attenzione alla riforma economica e sociale come a quella legislativa, e considerarono i problemi delle donne legati a classe e razza tanto importanti quanto la discriminazione sessuale di cui erano vittime. Sostenevano che la differenza di «genere» dovesse essere accolta e che l’uguaglianza non potesse essere sempre raggiunta attraverso l’identità di trattamento. La loro era una visione di uguaglianza che rivendicava giustizia per le donne sulla base della loro umanità, e non del loro essere «come gli uomini». Rigettavano lo standard, o quello che chiamavano «schema» maschile, quando non corrispondeva ai loro bisogni.
Ma perché questa storia non è stata raccontata prima? Perché gli sforzi di riforma delle donne lavoratrici non sono stati considerati un elemento della narrazione standard riguardo la storia del lavoro e delle donne del dopoguerra? In parte, questa assenza è il risultato di un inveterato pregiudizio sessuale ancora attivo tra molti storici del lavoro. La storia del movimento operaio, intesa come campo di studi, considera come proprio interesse primario i lavoratori maschi e le loro lotte pubbliche per il salario. Il «genere», in quanto categoria d’analisi storica, rimane estraneo al quadro narrativo e teorico. Ma le donne lavoratrici sono assenti anche nella storia del femminismo americano. La storia del femminismo, per come è raccontata convenzionalmente, è in gran parte la storia delle lotte condotte dalle donne dell’élite e della classe media bianca per risolvere i «loro» problemi. Le lotte delle donne appartenenti alla classe operaia e alle minoranze per la giustizia sessuale, per come loro la definivano, vengono relegate ai margini della storia – sempre che vi appaiano.
Al di là della metafora dell’onda
Nonostante recenti contestazioni da parte di studiosi «revisionisti», la metafora dell’onda è ancora dominante negli studi e nella didattica sulle riforme promosse dalle donne americane degli ultimi due secoli. Questa metafora organizza il femminismo americano in due ondate di riforme: la prima, più lunga, durò dal 1848 al 1920, mentre la seconda si alzò negli anni Settanta. Significativamente, secondo questo racconto a due ondate, rimane un buco di cinquant’anni, dopo il 1920, – mezzo secolo in cui si suppone non ci siano state né onde, né riforme. Questo contributo si propone di contestare la narrazione «a due ondate» con il suo mezzo secolo di inattività riformista e cercherà di portare argomenti a sostegno della continuità e della vitalità del movimento femminista, non solo negli anni Venti e Trenta, ma anche nei Quaranta e oltre – in quei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale ancora descritti, nella cultura popolare e da molti studiosi, come «età della depressione» per il femminismo e le donne americane, età di conservatorismo sessuale, infelicità domestica e gelo politico da Guerra fredda.
C’è bisogno di rivedere sia la periodizzazione che la struttura di base della storia delle donne negli Stati Uniti. Gli storici del femminismo dovrebbero ragionare in termini di movimenti femminili plurali e sovrapposti, che nascono e muoiono in momenti diversi. L’attivismo delle donne della classe operaia, per esempio, cresce nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale e raggiunge il suo apice all’inizio degli anni Sessanta, prima dell’emergere della «seconda ondata» tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta.
Tra le altre cose, la storia del labor feminism complica la versione tuttora dominante del «mito delle origini» del nuovo femminismo anni Sessanta e Settanta. Secondo questo racconto, il nuovo femminismo affonda le sue radici nei vecchi e nuovi movimenti radicali di sinistra, nel movimento per i diritti civili e, ovviamente, in La mistica della femminilità, il grande successo di Betty Friedan del 1963[1]. Raramente viene riconosciuta l’importanza del potere politico ed economico delle forze lavoratrici organizzate e il loro impatto su ciò che doveva essere considerato giusto, sulle norme e sulle pratiche lavorative e sulle politiche governative riguardo i diritti delle donne e i diritti civili e del lavoro. La tesi qui sostenuta è che il sorgere di quella che tradizionalmente viene definita «seconda ondata» non può essere compreso se non si tiene conto del movimento legato al mondo del lavoro, il più grande movimento sociale dell’America degli anni Cinquanta, e delle donne che vi presero parte.
Nel femminismo americano ci sono molteplici anime, differenti ma vitali, ognuna con la propria lunga storia, diversa a seconda del tempo e dello spazio presi in esame. Riconosciuta la pluralità delle forme del femminismo, si aprono nuove prospettive di studio. Per prima cosa, si estendono i confini del femminismo e nuovi gruppi entrano a far parte della sua storia. Ma non meno importante è che la storia dei diritti delle donne diventerà non solo una storia di sorellanza e di un unico grande movimento, ma inevitabilmente anche una storia di contrasti e di alleanze mutevoli. Per alcune donne le discriminazioni di classe, razziali o basate su altre distinzioni hanno pesato tanto quanto le discriminazioni sessuali. Queste differenze hanno avuto incidenza sulla loro vita, quindi non dovrebbe sorprendere che abbiano inciso anche sulla loro idea di quali riforme fossero desiderabili, oltre che possibili, e di quali riforme dovessero avere priorità, una volta arrivati al dunque.
Il labor feminism prima della Seconda guerra mondiale
Le idee delle femministe della Progressive Era, come Jane Addams, Florence Kelly o Rose Schneiderman, nacquero in un clima, quello degli Stati Uniti dell’inizio del xx secolo, caratterizzato dalla crescita delle comunità di immigrati, dall’ascesa dei partiti democratico e socialista, dagli scioperi di massa nel tessile e in altri comparti tra il 1909 e il 1914, da tragedie come l’incendio della fabbrica della Triangle Shirtwaist Company nel 1911 e dalle lotte per il suffragio femminile – enormi manifestazioni, disobbedienza civile e comizi spontanei.
Le femministe del movimento operaio della Progressive Era crearono nuove associazioni di lavoratrici etnicamente inclusive, soprattutto nel tessile, dove era impiegata la maggior parte delle donne sindacalizzate. Esse formarono anche organizzazioni femminili interclassiste come la Women’s Trade Union League e la National Consumers League. Questi gruppi mescolavano immigrate operaie provenienti in gran parte dall’Europa del Sud e dell’Est con militanti native dell’élite di origine principalmente nordeuropea. Le donne ricche, chiamate «alleate», si schieravano al fianco delle operaie nei picchetti e promuovevano la formazione di organizzazioni sindacali. In realtà, spesso le «alleate» preferirono il boicottaggio dei consumi o il sostegno di leggi per un lavoro più equo agli scioperi e al picchettaggio, ritenendole strategie più efficaci per migliorare le condizioni salariali delle donne.
I risultati ottenuti dalle femministe della Progressive Era nel campo del lavoro e della giustizia sociale furono formidabili. Negli anni Venti esse ottennero l’approvazione di numerose leggi statali regolanti orari, salari e condizioni di lavoro delle donne, riuscirono ad assicurare contratti sindacali e procedure di contestazione in molte aziende e contribuirono alla vittoria del suffragio femminile. La loro influenza raggiunse l’apice negli anni Trenta con la nascita del nuovo Partito democratico, vicino a quante ancora erano private dei diritti civili e di voto, e con l’elezione di Franklin Delano Roosevelt alla presidenza degli Stati Uniti. Queste donne contribuirono a delineare i principi di fondo della legislazione del New Deal in materia di assistenza sociale e di lavoro, tra cui il Fair Labor Standards Act (la prima legge federale che istituiva un minimo salariale e un tetto orario per uomini e donne), il Wagner Act (che incaricava il governo federale di garantire il diritto dei lavoratori a organizzarsi, scioperare e contrattare collettivamente con i datori di lavoro) e una legge sulla previdenza sociale che assicurava sussidi economici per disoccupati, anziani e malati.
Il labor feminism e la generazione della Seconda guerra mondiale
Le militanti del labor feminism della generazione della Seconda guerra mondiale – donne come Esther Peterson, Addie Wyatt, Caroline Dawson Davis o Myra Wolfgang – furono le sorelle e le nipoti intellettuali delle riformatrici della Progressive Era. Anche loro credevano che gli svantaggi delle donne fossero originati da svariate cause e che fosse necessaria una serie di riforme sociali per rimediare alla situazione di subordinazione femminile. Dagli anni Quaranta esse si misero alla guida del labor feminism e lo adattarono a una nuova era.
Quando erano ancora giovani, queste donne si impegnarono nei drammatici sit-down[2] e negli scioperi di massa degli anni Trenta, e contribuirono a costituire associazioni di lavoratrici nei settori automobilistico, elettrico, confezioni e altri comparti della produzione industriale di massa. Negli anni Quaranta e Cinquanta esse consolidarono le proprie conquiste ed estesero l’associazionismo sindacale a nuovi comparti dell’economia. Nel 1947, per esempio, nel più grande sciopero femminile della storia degli Stati Uniti, circa 230.000 operatrici telefoniche diedero vita a una protesta di portata nazionale contro la at&t. Al grido di «The voice with a smile will be gone for awhile»[3], picchetti di ventiquattr’ore attraversarono il Sud, il Midwest e l’America rurale. La sezione delle operatrici telefoniche di Washington dc, incoraggiata dai circa duecento scioperi riusciti nel precedente anno e mezzo, con grande effetto, riuscì a tagliare l’accesso telefonico alla Casa Bianca.
Scalando i vertici delle organizzazioni sindacali e del governo nei decenni del dopoguerra, questa generazione puntò a modificare i programmi dei sindacati per venire maggiormente incontro alle istanze delle donne. Sotto l’egida del Women’s Bureau del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, si riunirono su scala nazionale attorno a un’agenda di riforme sociali concrete e di vasto impatto, che le avrebbe accompagnate fino alla fine degli anni Sessanta. L’agenda includeva la fine della discriminazione sessuale, paghe uguali per lavori simili, assegni familiari per donne e uomini, rivalutazione dei cosiddetti «lavori femminili», accorciamento della giornata e della settimana lavorativa per uomini e donne e aiuti per la maternità e l’allevamento dei figli.
Per le militanti del labor feminism la discriminazione contro le donne era un fatto – un’idea non molto condivisa negli Stati Uniti del dopoguerra. Tuttavia il loro obiettivo non era di porre fine a tutte le distinzioni su base sessuale, cosa che temevano sarebbe derivata dall’approvazione dell’Equal Rights Amendement (era), un disegno di legge proposto da politici conservatori, gruppi d’affari e femministe dell’élite e per il «libero mercato» raccolte nel National Woman’s Party (nwp)[4]. Le donne del labor feminism cercavano di porre fine solo a quelle distinzioni che danneggiavano le donne, cioè a quelle distinzioni «ingiuste» o offensive che comportavano una discriminazione. Per loro alcune distinzioni, come le leggi federali rivolte alle donne che istituivano minimi salariali e tetti orari, andavano a beneficio della gran parte delle donne. Erano quindi convinte che le cosiddette «leggi protettive» dovessero essere conservate e le loro tutele estese anche agli uomini.
Inoltre, la discriminazione sessuale non era l’unico problema che le donne dovevano affrontare. C’era ugualmente bisogno che ci si occupasse di classe, razza e altre forme di disuguaglianza. Ma come? Su questo come su altri temi le donne del labor feminism si distaccavano dalla tradizione femminista, più individualista, centrata sulla parità di trattamento, abitualmente celebrata nelle narrazioni correnti. Opportunità individuali, accesso al mercato e uguale trattamento rispetto agli uomini erano sicuramente importanti e necessari. Ma erano anche insufficienti, soprattutto per le donne povere. Le operaie, come gli operai, avevano bisogno di qualcosa di più dell’accesso al mercato o della possibilità di ambire alle poche posizioni di vertice. Avevano bisogno che fossero trasformati il mercato e la natura stessa dei lavori della classe operaia. Per realizzare tale trasformazione, queste donne si rivolsero allo Stato e alle organizzazioni operaie.
Senza nascondersi che «ci sono cose di cui hanno bisogno solo le donne, e non gli uomini», queste femministe rivendicarono misure da parte di Stato e imprese a difesa delle donne impegnate nel lavoro riproduttivo. Spinsero i sindacati a negoziare congedi per gravidanza e maternità con garanzia di conservare lavoro e reddito, ma anche copertura sanitaria durante il parto e contratti che consentissero ai lavoratori un maggiore controllo sui tempi di lavoro e sul tempo da dedicare alle emergenze familiari. Cercarono anche di estendere la copertura di invalidità e disoccupazione alle donne incinte e alle madri, si batterono per una riforma della tassazione che andasse a beneficio delle famiglie con figli a carico e fecero ripetute pressioni per un programma di assistenza universale all’infanzia, finanziato dallo Stato federale. Consideravano il lavoro di assistenza e cura degno di un salario sociale e di benefici statali quanto qualsiasi altro lavoro, e il diritto a una vita al di là del lavoro salariato rappresentava un aspetto importante di quella che definivano «cittadinanza economica di prima classe» per le donne. «Le donne non devono essere penalizzate perché svolgono le loro normali funzioni materne», sostenne Esther Peterson, membro dell’afl-cio, a un congresso internazionale di pubblici funzionari nel 1958.
Questi sforzi sono chiaramente anticipatori di quelle riforme lavoro-famiglia divenute sempre più centrali nel movimento femminista statunitense contemporaneo. Eppure il nucleo dell’agenda lavoro-famiglia del labor feminism non è ancora diventato parte integrante del dibattito odierno. Si trattava, infatti, di un movimento riformista che mirava a risolvere i problemi delle donne non appartenenti all’élite. Questo significava cercare soluzioni collettive, non individuali, alle due questioni principali: bassi salari ed eccessivo numero di ore di lavoro.
Aprire alle donne l’accesso ai lavori maschili più retribuiti, questa fu la soluzione per ottenere l’aumento dei salari che sarebbe divenuta dominante, alla fine degli anni Sessanta. Ma questa non fu la strategia prioritaria del labor feminism. Piuttosto, lungo gli anni Quaranta e Cinquanta il tentativo fu di aggiornare e modificare le modalità con cui venivano valutati e retribuiti i lavori svolti dalla maggior parte delle donne. Il movimento fece pressioni per aumentare il salario minimo sindacale stabilito dallo Stato, organizzò associazioni e sindacati, spinse i datori di lavoro a colmare la distanza salariale tra i due sessi e lanciò una campagna nazionale per l’equa retribuzione allo scopo di modificare la legge e l’atteggiamento generale circa la dignità del lavoro femminile.
Nel 1945 queste femministe riuscirono a far presentare l’Equal Pay Act[5] al Congresso e lo riproposero ogni anno fino al 1963, quando una versione del disegno di legge fu finalmente approvata. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale riuscirono anche a far approvare leggi sulla giusta retribuzione in diciotto Stati. Quello che conta non è solo il loro attivismo, ma anche le loro idee. Esse formularono una definizione generale di giusta retribuzione: sostenevano che le donne avrebbero dovuto essere pagate come gli uomini, a parità di lavoro, ma che avrebbero dovuto ricevere una giusta ed equa retribuzione anche quando avessero svolto lavori differenti. I sistemi di retribuzione istituiti dai datori di lavoro sottostimavano le capacità, la produttività e la responsabilità delle donne, per cui era necessario un radicale ripensamento delle logiche salariali. «Perché una donna che rimane in fabbrica seduta a imballare dev’essere pagata 20-25 centesimi meno di un uomo che pulisce i pavimenti?», chiedeva una militante.
Per raggiungere questo vasto obiettivo il movimento, coerentemente, si basava sulla parola d’ordine «salario uguale per lavoro simile», e non «salario uguale per lavoro uguale», e giunse quasi a far passare questa logica a livello federale. La proposta di legge approvata definitivamente nel 1963 rimase ben lontana da quanto il labor feminism aveva sperato: «simile» fu sostituito da «uguale», uno spostamento linguistico che limitò l’effetto della legge alle sole situazioni in cui le donne svolgevano lo stesso lavoro degli uomini.
Negli anni del dopoguerra la battaglia sugli orari fu altrettanto intensa. La lotta per aumentare il tempo libero non terminò negli anni Trenta. Dopo la guerra, i sindacati a leadership maschile non chiesero più un aumento del tempo libero attraverso una giornata lavorativa più breve, ma preferirono battersi per le ferie pagate, per le vacanze, per i permessi di malattia e per il pensionamento anticipato – ciò che Walter Reuther, presidente degli United Automobile Workers (uaw), chiamò «tempo libero concentrato». Il labor feminism sostenne molte delle campagne sindacali del dopoguerra volte a ottenere un tempo libero meglio retribuito. Tuttavia l’approccio del «tempo libero concentrato» non era ancora abbastanza per chi era inchiodato al «doppio turno» del lavoro domestico e del lavoro salariato. C’era ancora bisogno di individuare meccanismi con cui fare della giornata di lavoro più corta una realtà.
Il movimento vedeva nella legislazione per un abbassamento del monte ore la strada più efficace per arrivare a limitare l’orario di lavoro giornaliero. C’era ottimismo sulla possibilità di rafforzare il Fair Labor Standards Act (flsa), che la precedente generazione di femministe aveva contribuito a far approvare nel 1938. Tuttavia le leggi statali riguardanti l’orario lavorativo femminile – nel 1957 circa 43 Stati avevano una legislazione del genere – offrivano una protezione ancora migliore. Molte leggi statali istituivano tetti giornalieri e settimanali al monte ore e proibivano qualsiasi tipo di lavoro che superasse quei limiti. Di contro, per scoraggiare l’orario lungo, il flsa puntava a disincentivare il ricorso al lavoro straordinario oltre le quaranta ore settimanali, ma non lo proibiva. L’approccio del flsa, pensavano in molte, era una forma inadeguata di controllo sul potere dei datori di lavoro e sull’implacabile spinta del mercato per il prolungamento dell’orario di lavoro. Lo standard femminile fissato dalle leggi statali «di genere» non doveva essere lasciato cadere, ma andava esteso a tutti i lavoratori – guadagnare è importante, ma lo è anche una politica dei tempi che ponga dei limiti al mercato del lavoro e tenga conto del diritto di non lavorare.
Così non sarebbe andata. Alla fine degli anni Sessanta quasi tutti i provvedimenti statali destinati alle sole donne, incluse le leggi sulle ore di lavoro, furono ritenuti illegittimi essendo in contrasto con la Civil Rights Act, appena approvata, che proibiva ogni discriminazione di razza, sesso, religione e origine nazionale. Sfortunatamente, non furono individuati nuovi meccanismi in grado di limitare il tempo di lavoro. Il flsa divenne in tutto il paese il riferimento primario per limitare le ore di lavoro. Oggi riconosciuto come uno strumento sempre più problematico, la sua debolezza è certamente una delle ragioni per cui le ore lavorative sono negli Stati Uniti più alte che in qualsiasi altro paese industrializzato.
Il labor feminism ebbe maggior successo in altre battaglie. Per esempio, contribuì a conquistare e consolidare il Civil Rights Act del 1964, il Voting Rights Act del 1965[6] e, nel 1966, ad assicurare l’estensione del flsa a copertura della maggior parte delle lavoratrici. Il movimento contribuì anche, alla fine degli anni Sessanta, all’emergere di un movimento femminile di massa. Nel novembre del 1963 Esther Peterson, la donna più in alto nella gerarchia del governo federale, consegnò al Presidente Kennedy la relazione finale della Commission on the Status of Women[7], la prima commissione federale dedicata al cambiamento del ruolo delle donne e alle modalità con cui il Governo rispondeva a tale processo. Il report, dal titolo American Woman, divenne un best-seller capace di sollevare un dibattito nazionale sulle ingiustizie legate allo status delle donne nella società e su cosa si potesse fare per rimediarvi. Il nuovo femminismo delle baby boomer si fondò su queste conquiste. Essendo più giovani, acculturate e impegnate in professioni liberali, le donne che si unirono allora al movimento misero in questione le priorità della generazione della Seconda guerra mondiale. Eppure, ancora negli anni Settanta sorsero nuove organizzazioni e associazioni di donne lavoratrici, in linea con le tradizioni del labor feminism. Come le precedenti generazioni, queste donne cercarono di ottenere diritti economici e sociali, di offrire un’alternativa allo «standard maschile» e di ottenere che il lavoro diventasse più a misura di donna.
Il labor feminism delle baby boomer, dagli anni Settanta al Duemila
Come la loro controparte della classe media, negli anni Sessanta e Settanta operaie e sindacaliste si impegnarono in un vasto attivismo sulle questioni di genere. Alla fine degli anni Sessanta le «tute blu» fecero propria una nuova prospettiva sull’uguaglianza sessuale e per la prima volta considerarono discriminatoria la suddivisone del lavoro in «femminile» e «maschile». Donne sindacalizzate inondarono l’Equal Employment Opportunity Commission (eeoc), l’agenzia governativa istituita per consolidare il Civil Rights Act del 1964, di denunce di discriminazioni sessuali in materia di assunzioni, promozioni e aiuti. Così stimolata, l’eeoc ottenne che la maggior parte delle decisioni delle Corti di giustizia sancisse la fine della segregazione sessuale e delle pratiche discriminatorie da parte delle imprese più importanti, come la us Steel e la at&t.
Oltre a utilizzare Corti e agenzie governative a sostegno dell’uguaglianza, le lavoratrici si impegnarono anche nell’organizzazione all’interno dei luoghi di lavoro. Donne impegnate o meno in professioni liberali si organizzarono in sezioni sui luoghi di lavoro chiamate a farsi carico di questioni legate alla positive action e alla discriminazione. Esse tentarono inoltre di modificare il programma del movimento sindacale relativo a contrattazioni e legislazione. Nel 1974, alcune sindacaliste avevano istituito la Coalition of Labor Union Women (cluw). Organizzazione programmaticamente femminista, tra i suoi obiettivi vi erano l’ingresso delle donne nella dirigenza sindacale, una maggiore attenzione all’organizzazione delle lavoratrici e la fine della segregazione sessuale così come di altre pratiche di discriminazione sul luogo di lavoro. La cluw esercitò pressioni per il riconoscimento della libertà di scelta della maternità e sostenne l’istituzione dell’Equal Rights Amendment (era). Il loro appoggio all’era segnava un taglio netto rispetto al femminismo del passato, ma era dovuto al fatto che negli anni Settanta erano ormai rimaste ben poche leggi specificatamente dedicate alla protezione delle donne. Inoltre, molte confidavano che l’era potesse contribuire a schiudere la prospettiva di lavori nuovi e meglio pagati per le donne con bassi salari.
Meno conosciuto nel femminismo di questo periodo è l’esplosione dell’attivismo tra le donne impiegate in lavori a prevalenza femminile – uffici, assistenza, lavori domestici – e le forme in cui questi movimenti aprirono la strada a nuove forme di organizzazione del lavoro e a nuove strategie di riforma. In alcuni casi queste attiviste trovavano nel movimento sindacale tradizionale un interlocutore aperto alle loro idee, per cui lavorarono insieme e attraverso le istituzioni sindacali. In altri casi rifiutarono la dirigenza e le strategie delle organizzazioni sindacali, ancora dominate dagli uomini, e cercarono alleati e strade differenti per sostenere i propri interessi. Alcune ruppero definitivamente con il movimento sindacale, affidando la propria battaglia ad associazioni esclusivamente femminili, fondate tanto sull’appartenenza sessuale quanto sulla solidarietà di classe. Queste nuove associazioni di lavoratrici furono costruite a partire dal programma di riforme del labor feminism della Seconda guerra mondiale, rimodellando quelle tradizioni per una nuova generazione di lavoratrici. In particolare, il vocabolario dei diritti fu ampliato e furono inventate nuove forme di rappresentanza sul posto di lavoro, più adatte per donne impegnate nell’assistenza o in professioni liberali
Nel 1972, per esempio, pressate da problemi che i sindacati a guida maschile sembravano incapaci di comprendere o accettare come «reali», le assistenti di volo decisero di prendere in mano la situazione. Fu formata la prima associazione nazionale delle assistenti di volo esclusivamente femminile, la Stewardesses for Women’s Rights (sfwr). Invece di costruire coalizioni con i maschi della classe operaia, come aveva fatto la generazione della Seconda guerra mondiale, la sfwr optò per una più stretta alleanza con le donne della classe media, includendo donne con ruoli di dirigenza nelle compagnie aeree e insigni esponenti del femminismo nazionale, come per esempio Gloria Seinem. Per raggiungere i propri obiettivi, inoltre, tale movimento fece più affidamento su azioni di lobby, cause giudiziarie, propaganda e altre tattiche di pressione, e meno su scioperi e contrattazione collettiva.
La sfwr puntava a porre fine a tutte le forme di discriminazione, compresa quella che chiamarono «sexploitation», ovvero l’impiego dei loro corpi e della loro sessualità per vendere biglietti aerei. Presentarono causa contro la Continental and National Airlines, sostenendo che le campagne pubblicitarie della compagnia creavano un ambiente di lavoro ostile. La sfwr lavorò duramente alla modifica del regolamento dell’azienda in materia di abbigliamento e aspetto. Inoltre, in sinergia con i pochi sindacati di assistenti di volo a guida femminile ottenne risultati anche in altri ambiti – opportunità di promozione, sicurezza e salubrità del luogo di lavoro, diritti di gravidanza e maternità. Alla fine degli anni Settanta molto era cambiato per le assistenti di volo – anzitutto, erano comparse nuove uniformi più dignitose, grazie a cui le hostess potevano non assomigliare più a una schiera di Barbie a grandezza naturale.
Tra le donne negli anni Settanta e Ottanta la tendenza a sindacalizzarsi aumentò, contrariamente a quanto accadde per i maschi, e questo soprattutto tra le donne impiegate nel servizio pubblico nazionale e nelle professioni liberali. Insegnanti, bibliotecarie, assistenti sociali e altri tipi di impiegate statali e municipali entrarono a far parte di sindacati o di associazioni professionali. All’inizio degli anni Ottanta, circa il 40% delle lavoratrici del settore pubblico era organizzato in sindacati, una proporzione che è rimasta stabile da allora.
Anche i lavori impiegatizi del settore privato si organizzarono, ma in modo diverso rispetto al settore pubblico ed ebbero minor successo nel rapporto con le organizzazioni tradizionali. Nel 1973 fu creata la 9to5, un’organizzazione di lavoratrici che ebbe un impatto notevole pur senza firmare mai alcun contratto collettivo. I gruppi che riunivano le categorie delle impiegate, guidati dalla 9to5, fecero ricorso a cause, petizioni, gare in cui si eleggeva «il peggior capo» e altre trovate per attirare l’attenzione sulla difficile situazione delle segretarie. La loro «Costituzione delle impiegate» e la campagna «Raises not Roses»[8] suscitarono un dibattito pubblico sulle condizioni di lavoro negli uffici e sulle norme discriminatorie che regolavano i rapporti capo-segretaria. Alla fine degli anni Settanta il movimento aveva contribuito a ottenere milioni di dollari di arretrati e di aumenti per l’uguaglianza sessuale, aveva stimolato lo sviluppo di piani per l’eliminazione delle discriminazioni sessuali da parte dei datori di lavoro, aveva fatto del National Secretaries Day – una tradizione americana in cui i capi dimostrano il loro apprezzamento per le proprie segretarie portandole fuori a pranzo e regalando loro, appunto, fiori invece che aumenti – un evento aspramente discusso e, infine, avevano ispirato canzoni di grande successo, un film e programmi televisivi.
La prossima ondata di femminismo, 2000-
Che cosa possiamo imparare da questa storia, se vogliamo una nuova ondata di lotte di donne lavoratrici? Per avviare un dibattito che dovrebbe essere anzitutto un dialogo attraverso culture e nazioni, concentrerei l’attenzione su tre temi cruciali, su cui ho avuto modo di riflettere occupandomi delle organizzazioni delle lavoratrici americane del xx secolo.
Per prima cosa, le donne della classe operaia si sono impegnate senza sosta in quella che potremmo chiamare una «doppia lotta». Facendo affidamento sulle proprie forze, su reti e solidarietà «interne», queste donne si sono organizzate con successo contro i datori di lavoro e sono riuscite a costruire sindacati potenti e di lunga durata. In molti casi il successo è dipeso anche dal dialogo instaurato con «alleati» esterni, donne dell’élite e uomini della classe operaia. Queste alleanze trasversali ai sessi e alle classi, però, spesso si sono dimostrate non solo fonti di fiducia, amore e spirito di collaborazione, ma anche sorgenti di tensioni, incomprensioni e conflitti. Per questo le donne operaie hanno dovuto organizzarsi per proteggere i propri interessi di fronte al paternalismo dei «fratelli» operai e all’élitismo delle «sorelle» della classe media.
Gli uomini della classe operaia, per esempio, e in particolare quelli non impiegati nello stesso genere di settori o mansioni, hanno offerto un aiuto fondamentale in momenti cruciali. Ma al contempo essi trattavano le donne come cittadine di seconda classe all’interno del movimento sindacale, così come nel mercato del lavoro e a casa. In risposta, le donne operaie organizzarono sindacati femminili separati o, all’interno di organizzazioni miste, crearono spazi separati e protetti, come dipartimenti, comitati o sezioni femminili.
Il rapporto con le donne delle classi agiate fu ugualmente problematico. Queste sembravano talvolta in preda a quella che potrebbe essere definita «cecità di classe». Davano la priorità alle proprie cause, che definivano come universali quando, nei fatti, riguardavano solamente una parte specifica. In maniera che non sorprende, le donne della classe operaia dovettero talora organizzarsi separatamente dalle donne dell’élite, proprio come avevano fatto nei confronti degli uomini della classe operaia. Nelle coalizioni tra classi, inoltre, esse cercarono di ritagliarsi spazi a parte, in modo che potessero emergere le loro capacità di leadership e le loro specifiche prospettive.
In secondo luogo, le organizzazioni delle donne lavoratrici dovettero continuamente elaborare tecniche con cui affrontare le differenze interne alle donne della classe operaia. La strategia del divide et impera adottata dai datori di lavoro incoraggiava a marcare, all’interno della classe lavoratrice, le differenze radicate nel pregiudizio razziale, nell’etnocentrismo, nel campanilismo, o semplicemente nella paura dell’«altro». Le donne «bianche», ad esempio, portarono avanti scioperi per impedire la condivisione di bagni, mensa, spazi ricreativi e opportunità di lavoro con le donne di colore. La seconda e la terza generazione di donne immigrate fecero pressione sulle politiche governative affinché venissero limitati i diritti dei nuovi immigrati e chiusi i confini per quanti arrivassero a cercare lavoro o asilo. Le femministe operaie americane, inoltre, si divisero a seconda delle condizioni familiari, con le donne sposate che si mostravano più spesso propense a concedere alti salari familiari agli uomini di quanto non facevano le donne sole. Scoppiarono discussioni tra le sindacaliste su quanta fede prestare alle convenzioni culturali correnti circa la gestione sessuale: cosa significava per le donne essere un «buona madre» o «una donna rispettabile»? Le donne dovrebbero onorare l’ambito «domestico» o rifuggirlo?
Negli Stati Uniti le classi lavoratrici si sono rivelate particolarmente eterogenee, ma le distinzioni per razza, etnia, nazionalità, cultura, religione, condizione familiare, età e sesso sono presenti sempre, in tutte le società. Siamo tutte diverse l’una dall’altra, quindi l’uguaglianza, così come la solidarietà, è sempre una relazione fondata sulla differenza. Non esiste alcuna identità o coscienza di classe che possa sostituire tutte le altre, per la ragione che non esiste un solo tipo di lavoratore. Allo stesso modo, non c’è una sola esperienza di genere, o un solo sfruttamento sessuale o una sola forma di emancipazione sessuale. Le organizzazioni che riconoscono e prevedono le differenze riveleranno un legame di solidarietà più solido e realistico.
Terzo e ultimo punto, le organizzazioni di donne lavoratrici hanno fatto affidamento su molteplici strategie e su molteplici strutture per raggiungere i propri obiettivi. Mentre i loro fini sono rimasti invariati nel tempo, sono cambiati i mezzi con cui hanno provato a raggiungerli. Hanno fatto ricorso all’organizzazione sia politica che economica per avanzare pretese di fronte ai datori di lavoro e di fronte allo Stato. Hanno creato organizzazioni il cui proposito principale era la contrattazione collettiva con i datori di lavoro, ma hanno anche formato associazioni di lavoratori e professionisti che adottavano altre strategie, come le cause giudiziarie, il condizionamento dell’opinione pubblica o l’azione di lobby per cercare di modificare la legislazione sui diritti sindacali, civili e sociali.
La storia della rivoluzione femminista è diventata troppo grande per la struttura che aveva ereditato. La storia afro-americana è vista oggi come una lunga, continua e conflittuale lotta per la libertà. Anche la storia delle donne potrebbe essere reinterpretata in questo modo. C’è un conflitto; ci sono priorità diverse e conflittuali. Le donne non si sono unite attorno a un’unica visione della solidarietà femminile. Piuttosto, hanno trovato forme di solidarietà contingenti e punti di convergenza mobili. Se vogliamo creare un movimento femminile nuovo e più inclusivo, dobbiamo cominciare a scrivere una storia che condivida questa prospettiva.
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[1] L’edizione originale uscì, con il titolo The Feminine Mystique,
nel 1963 a New York per i tipi di Norton & co. In Italia la prima
traduzione è del 1964, per le Edizioni di Comunità di Milano (N.d.T.).
[2] Con sit-down strike
si intende abitualmente una forma di sciopero consistente nel fermare
la macchina e sedersi, così da bloccare progressivamente tutta la catena
di produzione (N.d.T.)
[3]
«La voce col sorriso sarà fuori per un po’», ma nella traduzione si
perde la rima presente nello slogan originale (N.d.T.).
[4]
Fondato dall’attivista Alice Paul nel 1913, il National Woman’s Party
si batté in particolar modo per il riconoscimento dei diritti civili ed
elettorali delle donne, puntando direttamente a una riforma della
Costituzione Federale (invece che a riforme ottenute Stato per Stato).
Il nwp ebbe un ruolo fondamentale nella campagna per l’era e nella
riforma del Civil Rights Act del 1964 (N.d.T.).
[5]
Legge federale degli Stati Uniti, approvata in via definitiva nel 1963
come emendamento del Fair Labor Standards Act. Firmata dal presidente
John F. Kennedy, entrò a far parte del suo programma della “Nuova
Frontiera”, allo scopo di abolire le disparità tra uomini e donne in
materia di salari (N.d.T.).
[6]
Legge degli Stati Uniti approvata nel 1965, promossa e sostenuta da
Martin Luther King: essa estese il diritto di voto a tutti i cittadini
maggiorenni nati sul suolo americano, includendo così gli elettori
afro-americani, fino a quel momento esclusi [N.d.T.].
[7]
Commissione istituita dal presidente John F. Kennedy il 14 dicembre
1961 e incaricata di riferire alla presidenza sulle questioni relative
alla condizione femminile negli Stati Uniti. Diretta da Eleanor
Roosevelt (vedova del presidente Roosevelt), Eshter Peterson ne fu
vice-direttore esecutivo [N.d.T.].
[8] “Aumenti, non rose” (N.d.T.).
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