Giuseppe Casarrubea è un testimone attendibile di Danilo Dolci. Quando, nell'estate del 1975, cominciai a collaborare con Danilo, Giuseppe aveva già pubblicato il suo primo libro sul sociologo triestino trapiantato in Sicilia.
Apprendo, pertanto, con gioia la notizia di questa sua nuova opera
DANILO DOLCI, IL POTERE E LA SOTTOCULTURA MAFIOSA
Giuseppe Casarrubea
Esce domani nelle librerie il mio secondo
libro su Danilo Dolci. Il primo fu stampato quando abitavo a Verbania
Pallanza, nei primi anni Settanta, dal coraggioso editore Celebes di
Trapani; il secondo esce ora grazie alla Casa Editrice Castelvecchi di
Roma, in occasione dei 90 anni dalla nascita di questo nostro
straordinario personaggio. Nel mezzo ci sono quarant’anni esatti. Un
tempo lungo che spiega da solo la difficoltà di osare un avvicinamento
alla lettura e alla comprensione di una figura alla quale i siciliani
non erano abituati, ma che è stata la prima ad anticipare i tempi, come
un vero e grande profeta del secolo appena passato.
Danilo Dolci fu una personalità ricca e
complessa che operò, per sua scelta, in un’area tra le più abbandonate
della Sicilia, in un’epoca in cui pochi lo avrebbero capito a cominciare
dagli apparati dello Stato che gli furono per lo più ostili: vecchi
galantuomini e prelati di spicco, intellettuali e benpensanti, uomini di
scuola e uomini di Chiesa, impiegati e poliziotti, ministri e
sottosegretari. In compenso lo amarono i pescatori e i contadini,
religiosi socialmente impegnati come Tullio Vinay, e intellettuali come
Carlo Levi ed Elio Vittorini.
C’erano, di fatto, nella sua azione, nella sua scelta di campo,
matrici culturali non sempre compatibili con quelle di chi, come
Sciascia, lo accusava di avere scambiato la Sicilia con l’India, o di
non avere capito nulla di quest’isola misteriosa e irredimibile, né,
tanto meno dei suoi mali secolari, come la mafia e l’individualismo.
Eppure, nell’opera di Dolci, lungo la sua lunga militanza “missionaria”
tra la gente della Sicilia occidentale, le battaglie antimafia
costituiscono un architrave ineludibile, precorrono i tempi, anche se
non fondano una scuola. Queste battaglie, non ebbero mai il carattere di
un’azione giudiziaria o di polizia; non si manifestarono per una
qualche forma di contrasto diretto, ma ebbero il segno di una lunga
attività educativa, non facilmente misurabile nei risultati, anzi,
impossibile da definire, in termini statistici e quantitativi. Ai
misuratori di risultato, Dolci avrebbe risposto oggi ammonendoli che gli
uomini non sono prodotti da vendere, e che non tutto ciò che essi fanno
è misurabile, come i valori in Borsa, o i dati che servono a definire
l’indice Dow Jones. Come molte attività di Dolci, verificabili sotto le
lenti di un’analisi osservativa nel lungo o nel lunghissimo periodo,
anche quella che egli svolse per debellare la mafia, non è valutabile se
non per gli indicatori che, nel tempo, ne segnarono il progressivo
decremento: tassi di violenza, incidenza degli assassini per anno,
persistenza o meno di certi codici d’onore, lo sviluppo della
scolarizzazione di massa, e via dicendo. Perciò risultano inadeguati i
tentativi di tirare le somme, e si preferisce relegare questo grande
triestino in soffitta. Si può dire, comunque, che senza l’elemento
costruttivo del suo impegno antimafia, gran parte della sua esperienza
avrebbe avuto un altro sapore, un’altra impronta culturale. Perché Dolci
fu, forse, il primo intellettuale italiano, costretto, suo malgrado, a
fare i conti, oltre che con la secolare e nota miseria meridionale,
anche con una condizione particolare di sofferenza che ad essa comunque
si legava, divenendone allo stesso tempo causa e condizione
esistenziale. Struttura di una cultura solida – come aveva capito Cesare
Mori – che si doveva combattere già dalle culle, mediante l’
educazione. Una sofferenza che inizialmente si manifestava con i segni
tipici della violenza diffusa, con i suoi alti tassi di criminalità fino
al limite della coincidenza tra norme legali e comportamenti sociali;
o, meglio ancora, tra norme condivise e regole sociali. Quasi che queste
ultime fossero la risultante di una cultura atavica che, per il suo
grado di diffusione e di radicamento, sanciva le forme dell’obbligo e i
vincoli dettati da un’antica consuetudine, qual era quella che
comunemente si assumeva rispetto ad alcuni codici propri
dell’organizzazione criminale. Non facilmente evidenziabile, questa,
risultava inavvertita in virtù di una sorta dediazione percettiva, di
lontananza dallo Stato e dai suoi valori, quando membri di Cosa nostra
erano personaggi che governavano le regole sociali e i comportamenti più
diffusi.
Da: http://casarrubea.wordpress.com/2014/06/17/danilo-dolci-il-potere-e-la-sottocultura-mafiosa/
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