Nella storia
dell'umanità nessuna generazione ha sacrificato più tempo al lavoro
quanto quelle nate sotto il
capitale. Ogni invenzione tecnica, sociale e scientifica, anziché
liberare del tempo, non fa che estendere l'impresa del capitale sulle
nostre temporalità. L'arte è dentro la divisione sociale del lavoro
come ogni altra attività. Da questo punto di vista essere artista è
una professione o una specializzazione come un'altra, ed è proprio
questa ingiunzione a occupare, con il corpo e con l'anima, una
posizione, un ruolo, un'identità, l'oggetto del rifiuto categorico e
permanente di Marcel Duchamp.
Marco Bascetta
Il mio corpo non è
una merce
Quello dell’arte
è un terreno impervio. Dapprima sembra
offrirci un segno forte, indicare con immediatezza
il suo bersaglio, conferire espressione
vivida all’idea, mostrare nella sua pratica il cuore del
problema. E però, poi, si ritrae, non asseconda
fino in fondo ciò che vi si vorrebbe leggere, afferma
le proprie prerogative, ci ricorda, alla
fine, che «è sempre un’altra cosa».
Eppure, quale
esempio migliore di quello della pratica artistica
per misurare il rapporto tra mercato
e creatività? Non più un segmento ai
margini della grande industria, una «sovrastruttura»,
o una provincia del cosiddetto «consumo
improduttivo», ma un rapporto insediato al
centro stesso di quella produzione immateriale
che si estende, ormai, lungo tutto l’orizzonte della
valorizzazione capitalistica. E che
quindi ripropone in termini nuovi un antico problema.
Come sottrarre il proprio agire allo sfruttamento.
Come cessare di lavorare alacremente contro
la propria libertà?
Questo il tema che Maurizio Lazzarato affronta nel breve scritto dedicato a Marcel Duchamp e al suo corpo a corpo con il mercato dell’arte, i suoi valori, la sua temporalità. Nell’«agire ozioso» dell’artista, nella autonegazione stessa di questa figura, l’autore ricerca, se non proprio un modello, almeno una traccia da seguire per mettere a fuoco il «rifiuto del lavoro» nel mondo del capitalismo cognitivo.
Quello operaio, contenuto non solo come arma ma anche come profetico desiderio di libertà nella pratica dello sciopero, lo abbiamo visto esplodere a livello di massa e articolarsi nelle forme più diverse e astute, durante tutta l’espansione dell’economia fordista, fino alla sua crisi. Quello ancora più antico, fantasioso e immaginifico, lo troviamo sedimentato nelle innumerevoli narrazioni (presenti fin dal Medioevo in quasi tutti i paesi d’Europa), del Paese di Cuccagna nel quale la messa al bando del lavoro è il primo «principio costituzionale» e l’abbondanza senza sforzo l’immagine stessa del mondo liberato. Nessuno, in fondo, ha mai dimenticato che il lavoro nasce esplicitamente da una maledizione biblica.
Scomparsi, almeno per il momento, i contadini affamati e allucinati della vecchia Europa e in via di rapida riduzione gli operai alienati inchiodati alla catena di montaggio, il lavoro cognitivo, e l’«intellettualità di massa», come anche è stata designata questa forma emergente di soggettività, occupano sempre più diffusamente la scena sociale. Con il comando sapientemente celato dietro una non meno tirannica «committenza» ognuno è chiamato a «inventarsi» la propria vita messa al lavoro, a «crearsi» un’identità produttiva, a innovare se stesso come produttore e come prodotto. Tutti «artisti», insomma, e tutti sfruttati. Che anche quella di arrangiarsi è pur sempre un’arte.
Marcel Duchamp |
Dagli anni ’80
in poi il mito e la retorica della creatività
dilagano. Qualcuno ci vede addirittura una
«classe». La «creatività» diventa infine
«capitale umano» e impresa. Ogni velleità
liberatoria è sacrificata al
calcolo costi\benefici. Il rifiuto del lavoro si fa allora
problematico nel momento stesso in cui
quest’ultimo si rende indistinguibile dalla
propria «realizzazione» e dalla stessa
vita del singolo.
Ecco allora che la figura dell’artista in rivolta contro il proprio ruolo sacralizzato e contro la sua valorizzazione sul mercato sembra mostrare in controluce un paradigma. Una strategia di riconquista della propria temporalità, un principio di autogoverno della vita, il recupero di quello spessore antico dell’otium, che aveva affascinato Lafargue. Trarre ispirazione da tutto questo e assumere la diffidenza di Duchamp nei confronti dell’idea stessa di «creazione» come strumento di autodifesa diventa a questo punto del tutto legittimo e promettente.
Ma la storia
dell’artista, con tutte le sue contraddizioni,
il suo attrito con il tempo e la stessa presa di commiato
dalla propria identità, resta collegata
a una vicenda individuale. Nondimeno
lascia il segno, apre a un possibile, smaschera
l’assenza di alternative. Allude a un generale
rovesciamento dei valori.
La storia del lavoro cognitivo è una storia collettiva, seppure impensabile prescindendo dalle singolarità irriducibili che la hanno vissuta, la vivono e le impongono la dimensione del molteplice. Non sarà dunque una pensierosa presa di coscienza, un solitario azzardo esistenziale, a decretarne l’implosione, ma la bancarotta del «capitale creativo» sul mercato, il suo brutale deprezzamento, la sua insuperabile ricattabilità. E qui, per il rifiuto del lavoro, comincia una nuova storia, ancor più radicale di quella che la ha preceduta.
il manifesto - 14 Giugno
2014
Maurizio Lazzarato
Marcel Duchamp e il
rifiuto del lavoro
Edizioni Temporale,
2014
€ 8.00
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