Gli oggetti seppelliti negli archivi delle donne
La mia presenza a un convegno sugli archivi delle donne è immeritata, almeno per due ragioni: sono solo da pochi mesi alla direzione di una collana legata alla ricerca di archivio, Letture d’archivio, nata per iniziativa della Fondazione Badaracco, e di cui è uscito il primo libro (Lea Melandri, Una visceralità indicibile. La pratica dell’inconscio nel movimento delle donne negli anni Settanta, Franco Angeli 2000); inoltre, quando hanno cominciato a nascere i Centri Studi (o Centri di Documentazione) sul movimento delle donne, come quello milanese fondato da Elvira Badaracco e Pierrette Coppa, il Centro di studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia (1979-1980), sono stata indifferente o critica, pensando che fosse una operazione di seppellimento o di resa. Non potevo arrendermi all’idea che il movimento delle donne fosse finito come tale e potesse assumere altre forme, anche se mi era chiaro che eravamo di fronte a una svolta.
Quando Elvira mi chiese di presentare il libro Dal movimento femminista al femminismo diffuso (Franco Angeli, 1985), curato da Laura Grasso e Annarita Calabrò, criticai molto l’interpretazione in chiave sociologica, che chiudeva nelle maglie di una disciplina tradizionale un sapere e una pratica che si erano poste così radicalmente vicino alla vita, al corpo, alla storia personale. Lo stesso atteggiamento sospettoso mi fece declinare l’invito al Convegno di Modena sugli Studi femministi in Italia, 1987 (cfr. La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia, a cura di M.C. Mancuso e A.Rossi Doria, Rosemberg & Sellier, 1987): il rapporto tra femminismo e saperi disciplinari, femminismo e università, lasciava ancora aperta la porta, ma sarebbe stato per poco, a quel ‘pendolarismo’ tra esterno e interno che Annarita Buttafuoco considerava “condizione necessaria per non essere assorbite dentro l’università in un modo che non ci consente più il rapporto critico ed antagonista, la dinamica continua di adesione e riserva, che abbiamo mantenuto sempre nei confronti della cultura maschile.”
Non diversa era stata la posizione espressa da Marina Zancan nella Relazione introduttiva al Seminario internazionale promosso dal Centro di Studi Storici, a Milano, nel novembre 1981: “In questi ultimi quattro anni, molte di noi hanno attuato una ri-presa in mano della propria professionalità, una maggiore presenza all’interno degli ambiti istituzionali… questo nostro ri-entro non ha le caratteristiche di una ritirata: ci siamo portate dietro lo spessore e la forza del patrimonio politico e conoscitivo che abbiamo contribuito a produrre; abbiamo tutelato spazi di autonomia e di autogestione… ci siamo proposte le ridefinizione dei diversi paradigmi scientifici, e la necessità di attivare processi di autolegittimazione”. (cfr. Atti del seminario internazionale, Milano 26-27 novembre 1981, a cura del Centro di studi storici del movimento di liberazione della donna in Italia, p.9). La diffidenza rispetto al lavoro di archiviazione, documentazione, nasceva dalla consapevolezza che quello che era stato un sapere legato alla vita, alla possibilità di cambiamento, sarebbe diventato ‘materia di studio’ sottoposta alle metodologie accademiche, rimaste immodificate.
Detto questo, devo anche riconoscere che non è casuale che io sia approdata agli archivi:
a) con molti vuoti di memoria fino ai trent’anni, conservo invece ricordi precisi a partire dal ’68 e per tutti gli anni ’70. Possiedo un archivio ricco di materiale edito e inedito riguardante il movimento antiautoritario, la rivista L’erba voglio e soprattutto il femminismo (autocoscienza e pratica dell’inconscio). Sono venti filze, quasi una presenza viva nella mia casa, dalle quali stento a separarmi per farle catalogare;
b) non ho mai smesso di considerare attuali le pratiche del primo femminismo, di darvi seguito nei miei progetti, di rileggere quegli inizi per capire le ragioni dell’ “occultamento” che hanno subito, da parte delle femministe stesse, per analizzare gli ostacoli che hanno incontrato l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio alla fine degli anni ’70, all’incrocio con i saperi disciplinari, con le istituzioni e le pratiche sociali.
La decisione di raccogliere in un libro i documenti relativi alla pratica dell’inconscio è cominciata già cinque anni fa, quando mi sono resa conto che non bastavano più i richiami saltuari che potevo fare nelle mie scritture, per lo più dentro argomentazioni polemiche, e che era necessario restituire le voci dirette di quegli anni.
Il modo di procedere per la rilettura di un materiale del tutto particolare, come quello dei primi anni ’70, è un problema che si pone quando si apre una collana di questo tipo, ma anche più in generale quando si comincia a mettere mano agli archivi. È su questo che tenterò di dare un contributo alla discussione aperta da questo convegno.
L’interrogativo che si pone è: che tipo di sapere è stato quello prodotto dal femminismo nei primi anni ’70 (e quindi che tipo di documenti, testimonianze, segni ha lasciato)?
a) non un sapere organizzato ma, innanzitutto, una “presa di coscienza”: un salto, una rottura rispetto ai saperi e alle metodologie date. Più che all’apprendimento, assomiglia alle conversioni. È una esperienza personale, un vissuto, che si può anche perdere, che comporta spostamenti nell’equilibrio interno tra inconscio e coscienza, sentimento e ragione. È il momento in cui la questione dei sessi cessa di essere solo una realtà sociale, un problema oggettivo e se ne cominciano ad avvertire i riflessi in tutto il proprio organismo, la propria persona, la propria memoria, quando ci si accorge che i ruoli sessuali ci hanno costruito nel modo di sentire, di pensare, di desiderare , di sognare. È una consapevolezza che non si dà come processo di acculturazione, ma che avviene nella discontinuità rispetto a convinzioni abituali. È un sapere che si dà nella relazione con altre donne, in un raccontare di sé che comporta il rivivere, il riattualizzarsi del passato; un pensare che si avvale dello sguardo di altre donne, capaci di vedere quello che noi non vediamo di noi stesse. Il massimo del ritrovamento di sé si dà nella consegna fiduciosa di frammenti della propria vita ad altre; per conoscersi fino in fondo ci deve essere il coraggio di farsi ascoltare, di prendere le distanze “da tutto ciò che si è amato e in cui si è creduto”, “tragicamente autonome”, come dice Sibilla Aleramo… Per portare la parola vicina al corpo occorreva svincolarla dal discorso razionale, dalla cultura acquisita, dalla professionalità. Era un processo che poteva assomigliare a una spoliazione. Non a caso si parlava allora di ‘inesistenza’ delle donne, come se tutto fosse da creare, da tirar fuori da noi stesse.
La presa di coscienza era quel leggero scarto o spostamento che permetteva di vedere per la prima volta che le figure del maschile e del femminile – ruoli sessuali, immaginario dei sessi, costruzioni di genere, ecc – non coincidono con l’essere reale dell’uomo e della donna, nella loro singolarità ma anche più in generale in ciò che hanno di comune e di diverso. Per essere reale non é da intendersi un’entità piena ma soltanto il punto di osservazione che rendeva possibile rileggere quello che era parso il destino naturale dei sessi, o, in altre parole, la soglia di resistenza a un fatale assorbimento dentro i modelli, le immagini ricevute e interiorizzate. Questa ‘dislocazione’ rispetto al luogo in cui si è state messe può anche non avvenire mai nel corso di una vita. Era in altre parole, il luogo da cui si potevano vedere adattamenti, resistenze, modelli interiorizzati, leggere il rapporto uomo-donna sotto il profilo della ‘violenza invisibile’, quella “rappresentazione del mondo, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi” (Aleramo).
Quando, alla fine degli anni ’70, si è cominciato a parlare di “cultura femminile”, di “identità, differenza femminile” non era chiaro se si trattava del sapere tradizionalmente attribuito alle donne, e divenuto forzatamente nostro, o di quel sapere che venivamo scoprendo in una pratica di rapporti, se si pensava a una cultura strutturalmente connessa al corpo femminile (alle sue diversità biologico-anatomiche) o non piuttosto una consapevolezza nuova del rapporto tra i sessi, svelato nel suo radicamento corporeo psichico più remoto, e che come tale può essere fatta propria da uomini e donne. Per chi, come me, non si è riconosciuta nel “pensiero della differenza” e nemmeno negli studi di genere, che riportavano il rapporto uomo-donna a costruzioni culturali e linguistiche, il compito alla fine degli anni ’70 era quello di vedere come si intersecavano quei “barlumi di sapere”, che venivano dalla lenta trasformazione di noi stesse, nel rapporto con le altre, con le nostre formazioni culturali, professionali, linguistiche.
A differenza della pratica dell’inconscio, consegnata quasi esclusivamente alla parola, questo secondo passaggio -che abbiamo chiamato “sessualità e simbolico”, “sessualità e scrittura”- si è tentato di affidarlo a una scrittura che riproducesse in qualche modo quella pratica: cogliendo il non-detto, il pre-testo, il vissuto personale dietro le teorizzazioni. Non a caso però ci siamo concentrate sulle “scritture del cassetto”, come se il riattraversamento dei saperi disciplinari avesse bisogno di quella “preistoria” che vi è sottesa, presente e attiva ma muta. Il problema che restava (e resta) aperto era come esplicitare l’autobiografia che viaggia dentro la teoria, la soggettività che ogni volta allontana da sé l’esperienza, oggettivandola, il tessuto fantastico, emotivo che permea la ragione. Quel “supplemento di storia”, che secondo la Woolf doveva essere raccontato, non è solo la somma delle storie personali, la descrizione delle condizioni materiali di vita delle donne – le “vite infinitamente oscure”, “non registrate”, su cui tuttavia si regge la civiltà, la storia della loro emarginazione -; “oggetti seppelliti” sono anche i segni della “violenza invisibile”, l’assunzione inconsapevole di modelli, l’adattamento o l’identificazione al ruolo imposto. Alla storia manca anche l’analisi di quell’impianto dualistico su cui si é costruita a partire dalla differenziazione tra i sessi divenuta modello di altre dualità: natura-cultura, privato-pubblico, individuo-società. Per uscire dalla dualità, occorre restituire alla storia, alla cultura, il suo volto nascosto, la sua “preistoria” lasciata in una zona di inconsapevolezza, dove si conserva inalterata, sempre pronta a riemergere.
b) Non un sapere oggettivato, gettato fuori di sé occultando il luogo da cui proviene, ma un sapere che aveva, anche nelle sue forme più astratte,le sue radici, e il luogo della sua formazione, nella soggettività, nella storia personale di ognuna. A operare questo spostamento, dai saperi istituzionali al luogo stesso in cui si forma il pensiero, un pensiero a cui si riconosceva di aver sempre avuto come “interlocutore e parte in causa il corpo” sono state l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio, di cui poi in seguito è stata data una versione riduttiva: “partire da sé”.
In queste pratiche è vero che aveva grande spazio il raccontare di sé, l’autobiografia, il racconto di vita, ma nel concetto di “vissuto”, messo al centro dell’analisi collettiva c’erano altre implicazioni: “vissuto” non era solo la storia personale, il proprio passato, ma tutto ciò che di quel passato si riattivava nel presente del rapporto con altre donne.
Lo sguardo di altre donne diventava essenziale per la rilettura, lo svelamento, e quindi la modificazione del proprio sentire, pensare.
Inoltre: non erano genericamente tutte le vicende della vita a interessare, ma ciò che atteneva al corpo, alla sessualità, perché lì gravava l’aspetto più drammatico e paradossale della condizione femminile: il corpo con cui la donna è stata identificata è ciò che meno le appartiene: ridotto a merce di scambio tra uomini, completamento organico per un soggetto scorporato, forza riproduttrice della specie, oggetto sessuale. Lo stesso si può dire della sessualità: considerate iniziatrici del sesso e ignare della loro sessualità, sacrificata spesso al piacere dell’altro.
Raccontare e riflettere intorno alle problematiche del corpo, non significava perciò ricostruire un sapere specifico (un’identità femminile), ma andare alla radice del dominio maschile, mettere allo scoperto la “preistoria” che sta alla base della comunità storica degli uomini, venire a capo della posizione contraddittoria della donna stretta tra insignificanza storica ed esaltazione immaginaria.
Questo si intendeva con lo slogan “il personale è politico”.
Ma “presa di parola” su di sé, ricerca di una sessualità propria, significava anche avviare un processo di individuazione fuori dall’appiattimento in un genere, pensarsi nell’individualità e nell’interezza (corpo e mente). Nella rilettura delle storie personali, ci si accorge che in quell’”archivio” ordinato per essere riportato alla luce, che sono i ricordi (cfr. Freud, Studi sull’isteria) o la memoria del corpo di ogni individuo, si può rintracciare quel “supplemento di storia” che manca non solo alla storia tradizionalmente intesa ma a tutti i saperi e a tutti i linguaggi che sono nati sulla cancellazione del corpo, sui bisogni e i desideri di un solo sesso. In questo senso, l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio non sono da intendere come una fase del femminismo o un generico partire da sé ma come un punto d’osservazione (una consapevolezza, uno scavo, un sapere portato su di sé) imprescindibile per ripensare la costruzione sociale nel suo insieme, i suoi saperi, le sue istituzioni. Nessuna rivoluzione ha mai avuto un progetto così radicale di cambiamento.
c) Non un sapere ( una teoria, una dottrina), ma un pensiero che procede in modo discontinuo, un andirivieni tra inconscio e coscienza, tra sogno e lucidità, parola e silenzio, individuo e collettività, scrittura autobiografica e documento. Il materiale che rende di più l’idea di questo andirivieni, sono le trascrizioni di convegni della prima metà degli anni ’70.
Il silenzio, come mancanza di documenti, è, in parte, la conseguenza inevitabile di un pensiero che nasceva e procedeva in stretta aderenza con la vita e finiva per perdersi dentro la vita, per lasciare lì le sue tracce. Un sapere che pareva tutt’uno col cambiamento della vita, poco preoccupato di scrivere una nuova storia. (Molte donne sono tornate, nei decenni successivi, alle loro professioni, alle loro scelte culturali, lasciandosi a fianco un’esperienza che aveva cambiato le loro relazioni familiari, sessuali, ma che sembrava muta rispetto ai luoghi sociali).
Silenzio è anche la rapidità con cui frammenti di memoria che avevano a che fare con le vicende originarie (nascita, rapporto con la madre) comparivano e sparivano, dietro la tentazione di espellere tutto ciò che segnalava la confusione, contaminazione, tra i sessi, per costruire un femminile “autentico”, inassimilabile, omogeneo, bandiera di riconoscimento per una “generazione” che si accingeva a varcare la soglia della vita pubblica.
Come per il femminismo di inizio ‘900, il movimento delle donne degli anni ’70, nel momento in cui “usciva all’esterno” – dalle case, dai collettivi alle istituzioni della vita pubblica -, o si istituzionalizzava esso stesso, sembrava aver bisogno di un segno distintivo, una differenza, una identità propria, inconfondibile. Questa differenza non poteva essere che quella tradizionale, cambiata di segno: rivisitata, rivalutata, capovolta, riletta in analogia con quella dell’uomo.
Il silenzio che troviamo nella storia del femminismo anni ’70, non sono dunque solo le lacune della documentazione, i vuoti d’archivio che possiamo tentare di riempire con le testimonianze orali, ma anche le cancellazioni che la coscienza, la ragione, (la teoria, i saperi disciplinari) operano sugli aspetti dell’esperienza che più inquietano, o paiono intollerabili: tali sono parsi i materiali che emergevano dall’analisi della sessualità, il rapporto con la madre, la domanda d’amore, la fissità all’infanzia, l’interiorizzazione del desiderio dell’uomo. Cioè l’aspetto ibrido della ‘cultura’ delle donne. Di questa contaminazione testimonia l’emancipazione femminile, che è sempre passata attraverso strade già tracciate da altri: integrazione, assimilazione ai comportamenti maschili, oppure ripresa, come potere, delle condizioni stesse su cui si è costruito la marginalizzazione, l’insignificanza o l’esaltazione immaginaria delle donne, custodi di un “ordine diverso”, quello che ha a che fare con la vita, le relazioni umane (C. Lonzi, L. Irigaray), con l’erotismo e la maternità.
Questo è il vuoto più difficile da colmare, perché richiede una lettura attenta all’altalenare della coscienza (tra sogno e lucidità), capace di rimettersi all’ascolto di più voci, più sguardi di donne attente ai non detti, agli svicolamenti, alle impennate di una ragione che non sa sostare a lungo sui “confini del corpo”.
A questo punto ci si può chiedere come riportare la rilettura (e il lavoro d’archivio) di un materiale che ha dentro questa anomalia, questa originalità:
1) Non basta la contestualizzazione storica, non bastano le analisi sociali, culturali, politiche (la ricostruzione di uno svantaggio, di una emarginazione, espropriazione). I documenti del primo femminismo (trascrizione di convegni, o scritture personali, collettive), rappresentano anche lo sforzo di portare alla luce la “preistoria” non del tutto cancellata, che sottostà alla vita dei singoli e alla vita sociale (pulsioni, costruzioni immaginarie, sedimentazioni mitologiche che improntano i corpi, prima ancora che i ragionamenti,i saperi, le istituzioni). Questa “preistoria” non parla di differenze già acquisite – connaturate alle diversità biologiche di un sesso e dell’altro -, ma di un processo di individuazione di un sesso solo, delle differenziazioni prodotte dalle paure e desideri dell’uomo (donna-natura, uomo-storia) diventate, forzatamente, la visione del mondo di entrambi i sessi.
Come é capitato per la scoperta di Freud (l’inconscio), questa “preistoria” é un terreno che può emergere alla coscienza d’improvviso e inabissarsi di nuovo. Quando scompare, vuol dire che agisce e si muove a nostra insaputa. Il dualismo è l’impronta più solida, piantata solidamente nelle “viscere della terra” (nella notte dell’origine) e per coglierla è necessario scavare a fondo nella parola, nella scrittura, nei sintomi e nella memoria del corpo, lasciare emergere “resti notturni”, frammenti di sedimentazioni arcaiche. I documenti vanno collocati nel nesso fra storia e origine, ragione e sentimento, sogno e lucidità. Solo così si può vedere dove la nascita dell’individualità femminile va a ricalcare il processo di differenziazione dell’uomo, dove si costruisce in analogia, dove va a confondersi altalenando senza uscita tra differenza e uguaglianza, dove invece riesce a sottrarsi alle dicotomie e avviare modalità nuove di rapporto tra i sessi, tra gli esseri umani e la natura.
Rileggersi oggi vuol dire capire perché “il pensiero della differenza” e gli studi di genere hanno occultato, loro malgrado, l’esperienza radicale del primo femminismo, spostando di nuovo il rapporto tra i sessi sul terreno delle costruzioni culturali. Perché si è preferito tornare all’idea di genere, o generazione, anziché di individualità femminile, perché è così tentante, rassicurante assestarsi su differenze date, limitandosi a cambiarne il segno; perché le logiche del potere sono più forti di quelle dell’amore.
2) Non si può rileggere quella storia dimenticando che ciò che si legge in quelle carte, o si ascolta dalla viva voce delle protagoniste, viene da una ‘pratica’ che in qualche modo va riattualizzata. La “memoria orale” non basta. I modi possono essere diversi: un corso di lezioni (come nel mio caso) i reincontri tra protagoniste, un rapporto intergenerazionale.
3) Infine: oltre il coraggio di assumere, come punto di osservazione, la propria memoria – ciò che si ricorda ma anche le esigenze del proprio presente, la soggettività non solo come supporto autobiografico, ma come tracciato sotterraneo indisgiungibile dalla storia collettiva.
pubblicato lunedì, 16 giugno 2014 · Intervento già apparso sulla rivista Genesis nel 2002. (Fonte immagine)
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