Gramsci in liquidazione
di Mario Schiavone#iostoconlunita: Come da comunicato del CDR dell’Unità, prossimamente l’intero gruppo operativo del giornale avrà un incontro con i liquidatori della testata.
Da piccolo, e per anni, qui nella mia terra non c’era molto da fare, se eri un bambino un po’ troppo sveglio e con tanta vitalità dentro. Per tenermi a bada, i miei genitori quando non mi compravano giocattoli mi regalavano dei libri. Storie da leggere con cui distrarmi e sfogare quel mio essere un bambino frenetico e con i nervi spesso in tensione. Oggi, che non leggo solo libri e non sono più un bambino, scrivendo storie accade più o meno la stessa cosa: sto meglio, mi sento più vivo e meno arrabbiato con il mondo.
Stamattina mi sono svegliato, ho sciacquato il viso. Sbrigate le faccende mattutine, sono andato in edicola ho chiesto l’Unità. Dopo aver pagato l’edicolante, ho cercato una panchina per sedermi. Non l’ho trovata. Così sono andato nella libreria che frequento di solito e lì rubando una sedia e un tavolino al libraio ho prima sfogliato il giornale per osservare ogni titolo, poi l’ho cominciato a leggere per davvero. I comunicati del CDR dell’Unità parlano chiaro: la società a cui fa capo il quotidiano è in liquidazione, giornalisti e tipografi sono in stato di agitazione.
Un comico di ieri e rappresentante politico di oggi, qualche giorno fa ha festeggiato la cosa gridando a squarciagola un augurio di cattivo gusto. Io non gli rispondo. Non gli rispondo perché quelli che urlano come lui, per ragioni di problemi alla mia membrana dell’udito, diventano voci distorte che non riconosco.
Ho cominciato a scrivere verso i 17 anni per un giornalino di paese. Qualche anno dopo per un quotidiano della provincia di Caserta, poi per un quotidiano della provincia di Salerno. Da poco più di un anno, sono autore per il web come blogger per Terra Nera, Mare Blu uno spazio del portale ComUnità de l’Unità.
Oggi ho 31 anni e scrivere è ancora una cosa che mi rende felice. Per me scrivere significa dare spazio alla rabbia nei confronti del mondo, uno stato emozionale che tutti portiamo dentro e che ognuno impara a gestire in qualche modo. Io non so gestirla, non l’ho mai saputo fare fin da piccolo. Però da quando scrivo ho scoperto che concentrarmi nel gesto della scrittura è terapeutico, perché mi aiuta a tenere bada mostri interiori che, lasciati liberi, non mi permetterebbero di avere quella che molti chiamano “vita normale”. Quando scrivo faccio a pugni con le mie paure, e seppure in questo lottare non perdo né vinco, quando indosso i guantoni (ovvero quando mi metto a scrivere), veicolo energie che non posso contenere con una semplice camminata o leggendo un libro.
Se ho questo privilegio, se posso destinare le mie energie firmando articoli e racconti per il giornale fondato da Antonio Gramsci, devo soltanto ringraziare la redazione de l’Unità che mi ha permesso di farlo in piena libertà e autonomia; talvolta insegnandomi come usare questo o quel lemma, come tagliare un passaggio forzato, o come accorciare una storia troppo lunga.
Le persone che mi hanno dedicato più tempo e passione si chiamano Daniela Amenta e Stefania Scateni. Si sono impegnate a capire che direzione prende certe volta la mia scrittura e a migliorarla, dandomi in fin dei conti l’opportunità di imparare un mestiere – non quello del giornalista, ma semplicemente quello di chi scrive: il che vuol dire che quel giornale ha un’anima, dei volti singoli che ci lavorano per trasmettere ai lettori un’idea di informazione nata da esigenze umane legate al sapere e al vedere il mondo in un certo modo (forse non il migliore, ma uno dei modi possibili)
Daniela e Stefania, come altri de l’Unità con cui ho parlato o con cui ho scambiato mail, non le ho mai conosciute; eppure non sono solo voci che stanno dall’altro capo di un telefono ma persone che da tempo ormai –senza orari precisi, senza certezza di stipendio- sono in trincea per lottare affinché quel giornale continui a vivere e garantire l’esistenza di un luogo d’incontro e di dibattito, di uno spazio libero e aperto alla cultura intesa in modo così ampio e inclusivo da essere aperto anche al sottoscritto.
Come scrittore esisto (anche) perché esistono i giornali di carta e le loro espansioni web chiamate blog. La mia libertà come autore ha luogo spazio e vita perché ci sono dei tipografi (e informatici) che prendono uno stipendio per fare un giornale. Far morire una testata giornalistica significa questo: aprire un buco nero e gettarvi dentro tutto quello che i giornalisti (testimoni della realtà, quando sono bravi) raccontano. Dopo i giornalisti, nella voragine del buco nero cadono tutti gli altri, tutti quelli che cercano di raccontare le loro storie, me compreso. Per questo mi auguro che quello spazio di carta aperto da Antonio Gramsci continui a vivere. Come mi auguro di poter ancora scrivere qualche pagina con cui tenere compagnia a chi, come me da piccolo, per scelta o destino ha avuto solo storie da leggere con cui addomesticare la rabbia che gli nasce dentro.
l’immagine raffigura il primo numero de L’Unità. Il testo di sopra è stato pubblicato oggi dal sito
http://www.nazioneindiana.com/
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