L’età dell’estremismo
di Alessandra Sarchi
Sono quarantonove i saggi che compongono l’ultimo libro di Marco Belpoliti, L’età dell’estremismo
(Guanda, 2014) con una introduzione dell’autore e una ricca nota
bibliografica finale a corredo di ciascuno saggio. Il nucleo di
partenza, costituito dai saggi presenti in Crolli (Einaudi
2005) si è ampliato seguendo plurime direttrici, in uno sforzo
notevolissimo di abbracciare fenomeni molto distanti tra loro, ma legati
dal fatto di avere una portata globale e di tendere, in potenza o in
atto, verso un esito estremo, spesso catastrofico. I due poli
dell’estremismo di cui parla Belpoliti sono infatti quelli tracciati da
Susan Sontag, una cinquantina d’anni fa: la banalità ininterrotta e un
terrore inconcepibile, di cui sono matrice la seconda guerra mondiale e
la società dei consumi, ma che l’autore declina alla luce degli
accadimenti degli ultimi anni.
E due sembrano essere i vettori intorno
cui Belpoliti ha organizzato i propri oggetti di studio: l’atto del
vedere, sempre più mediato da protesi e filtri – macchina fotografica,
telecamera, televisione, computer, drone – e l’atto dell’occupare lo
spazio, costruendo, abbattendo, risignificando luoghi, o al contrario
sottraendo ai luoghi e ai corpi la loro propria materialità. Vedere e
manipolare lo spazio sono, peraltro, gesti fortemente politici in quanto
conferiscono potere, L’età dell’estremismo è dunque, a suo modo, un libro politico.
Viviamo in un orizzonte d’attesa
catastrofico, ma la castrofe è anche ciò su cui camminiamo, ogni giorno.
L’eredità del Novecento è costituita infatti da una mole intollerabile
di macerie – di città bombardate, di muri abbattuti, quello di Berlino
nell’euforia del 1989, ma anche quelli delle case palestinesi trapassati
dai soldati israeliani alla fine del primo decennio del ventunesimo
secolo. La presenza delle macerie, indagata da tanti artisti e scrittori
di cui Belpoliti intreccia la diversa testimonianza e interpretazione,
da Sebald che ne lamenta la rimozione a Haacke che, nel padiglione della
Biennale del 1993, ne crea di nuove sventrando il pavimento costruito
sotto il nazismo, subisce una mutazione in momento preciso, si trasforma
da subito nel suo elemento più sottile, la polvere, con il crollo delle
Twin Towers a seguito dell’attacco islamico rivendicato dai terroristi
di Al Qaeda l’11 settembre 2001. Questo disastro, per la maniera in cui è
stato raccontato e ripreso, in diretta e in tempo reale, è emblematico
di un modo nuovo di trattare la realtà: il fatto che milioni di persone
potessero assistere all’evento dietro uno schermo lo ha reso irreale o
surreale. Alcuni artisti, fra questi Damien Hirst e Karlheinz
Stockhausen, lo hanno in seguito commentato come se fosse un’opera
d’arte, una straordinaria opera d’arte, suscitando il biasimo
giustificato di vittime e comunità civile, e rivelando al contempo come
l’evento rientrasse in quella spettacolarizzazione del reale che invade
il nostro tempo nella sua indistinzione etica. Proprio su tale
indistinzione si basa il kitsch, sentimentalismo del gusto,
estetizzazione della realtà, dittatura del cuore (Kundera) e della
lacrima televisiva, che evacua e non rielabora, che rivela mancanza di
giudizio morale e collega con un filo rosso il dubbio commento di Hirst
alla sospensione di responsabilità rivendicata da Albert Speer,
architetto di Hitler. Si domanda a ragione Belpoliti: “non sarà questa
doppia sospensione della morale, insieme ai rimossi monoliti di cemento,
la vera eredità che la guerra mondiale ha conseganto all’età
contemporanea?” Ed è con questa domanda in sordina che l’autore si
affaccia a comprendere lo sviluppo di una città come Astana, capitale
del Kazakistan, una psicometropoli dove la simbologia architettonica
prevale sulla funzione ed esprime un’idea autocratica, distopica e
regressiva verso forme storiche di secoli precedenti svuotate, però, di
senso, o Pyongyan capitale della Corea del Nord, paese dominato da una
dittatura che ha resecato i rapporti con il resto del mondo ed eretto
un’utopia architettonica modernista che ripropone, in una scacchiera
disciplinata e coercitiva, gli esempi monumentali europei e americani
del ventesimo secolo. Ma è nell’analisi della cattura e uccisione di
Osama Bin Laden, nella sua rappresentazione mediatica, che l’autore
fonde i vettori della sua ricerca: il capo del terrorismo islamico
internazionale, che aveva rivendicato l’attentato alle Torri gemelle, fu
scovato in un compound pakistano dai droni tra la fine di aprile e
l’inizio di maggio del 2011. Lui che si era negato nella propria
fisicità, apparendo solo in video che ne ritraevano perlopiù il volto,
viene sconfitto dagli Americani proprio grazie alla superiorità dei loro
mezzi di avvistamento a distanza, e in assenza fisica dell’esecutore
dell’eventuale lancio di arma da fuoco. Il presidente Barack Obama,
insieme ai suoi collaboratori, dalla Situation Room della Casa Bianca
seguì tramite video le operazioni, mentre nella saletta attigua il
generale dell’areonautica Marshall Webb coordinava dal suo pc, e tramite
le immagini inviate dal piccolissimo drone, il raid dei soldati al
fortino di Bin Laden. È il trionfo della visione senza sguardo,
preconizzata dal filosofo Paul Virilio in un saggio del 1984. Una
visione che fa prevalere la precisione del colpo d’occhio senza
coscienza su quello dell’arma da fuoco.
Di questo scenario in cui vedere e
sapere sono di nuovo sinonimo di potere, senza un chiaro codice morale,
Belpoliti ha tracciato l’inquietante mappa, in cui se è vero che
metropoli e disastro sono un binomio certo, è altrettanto vero che anche
fuori dalle metropoli in ogni luogo del pianeta, in ogni istante, si
consuma nel rumore bianco che ci avvolge, fatto di
accelerazione tecnologica, di consumo nevrotico di merci e risorse, di
moltiplicazione di illusioni di realtà, una incontrollata fuoriuscita
dell’uomo da se stesso, o meglio, da tutto quello che finora si è
definito umano.
Testo pubblicato il 12 giugno 2014
«Alias – il manifesto»
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