10 giugno 2014

T. MONTANARI: LA VERITA' DI GUERNICA


Pubblichiamo un estratto da Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà di Tomaso Montanari. Vi segnaliamo che oggi, martedì 10 giugno, alle 17 Montanari è a Roma per presentare il libro al Museo Nazionale Romano. Intervengono Massimo Bray e Giuseppe Civati. Modera Paolo Fallai. Introduce Rita Paris, Direttrice del Museo.

Istruzioni per l’uso del futuro

Verità
Pablo Picasso iniziò a pensare a Guernica il primo maggio del 1937. Una settimana prima Adolf Hitler aveva fatto radere al suolo la cittadina spagnola di Guernica. Era la prima distruzione pianificata di un centro abitato realizzata attraverso un bombardamento aereo, un evento che annunciava la devastazione prossima di tutta l’Europa. In quel momento Picasso aveva messo la sua intelligenza e la sua arte al servizio della resistenza contro Hitler, e contro il suo amico spagnolo: il dittatore fascista Francisco Franco. Aveva accettato la nomina a direttore del Museo del Prado, a Madrid, e ne stava mettendo in salvo le collezioni.
È forse anche per questo che la lingua di Guernica è quella della tradizione più nobile dell’arte europea. Questo quadro monumentale (è alto tre metri e mezzo e lungo quasi otto) non esisterebbe senza i modelli di un affresco di Raffaello (l’Incendio di Borgo, nelle Stanze Vaticane) e di un quadro di Rubens (i Disastri della guerra, a Palazzo Pitti a Firenze). Picasso ha «rubato» alcune figure, alcuni gesti di pathos, alcuni elementi chiave nella costruzione stessa del quadro. E ha rubato anche il linguaggio simbolico: è stato lui stesso a dirci che il toro rappresenta la brutalità degli aerei nazisti, e il cavallo raffigura il popolo spagnolo sconvolto e ferito.
Quando un ufficiale nazista chiese a Picasso se fosse lui l’autore di Guernica, egli rispose: «No, l’avete fatta voi». Ma Picasso non si limita a descrivere l’inferno di fuoco e di morte piovuto su Guernica per tre giorni di fila: ci dice anche di chi è la colpa. La Verità in persona si affaccia da una finestra, e con una lampada a petrolio illumina la scena: e, come la Storia, dà torto e dà ragione. Quella donna condanna per sempre i nazisti che distrussero Guernica: nessun revisionismo, cioè nessun tentativo di truccare le carte, potrà dire il contrario. Picasso proibì che Guernica fosse portato in Spagna finché fosse stato al governo il dittatore Franco: perché la Verità non viene a patti, e non si inchina.
Ecco, il patrimonio artistico serve a qualcosa solo se tiene alta e accesa la lampada di Guernica. Per secoli, e in qualche modo anche oggi, gli artisti sono state persone capaci di dire – malgrado tutto, e non di rado malgrado loro stessi – la verità. Le loro opere sono spesso la nostra sola possibilità di conoscerla, la verità. E più quelle opere sono grandi, più è terribile la verità che svelano.
È per questo che asservire il patrimonio artistico alla propaganda dei valori del presente – per esempio asservirlo alle ragioni della politica attuale – significa disinnescarlo, neutralizzarlo: o peggio, pervertirlo, tradirlo, falsificarlo. Se l’arte dice la verità sulla condizione umana difficilmente andrà d’accordo col potere: ed è per questo che in una democrazia basata su una Costituzione come la nostra, l’unico modo di gestire il patrimonio è metterlo al servizio della conoscenza, e dunque della verità, e non al servizio del potere, e dunque della propaganda e della mistificazione pianificata.
Facciamo un esempio. Nel settembre 2013 una grande (cinque metri per due e mezzo) Annunciazione di Sandro Botticelli è stata spedita in Israele, per celebrare i 65 anni dello Stato ebraico. Botticelli la affrescò nella loggia esterna di una specie di orfanotrofio della Firenze del Quattrocento: l’Ospedale di Santa Maria della Scala. E ancor oggi quell’edificio, divenuto Istituto penale minorile, accoglie alcuni ragazzi: quelli che hanno bisogno di imparare di nuovo a vivere, dopo aver sbagliato. Proprio sopra la tomba del benefattore che aveva fondato quell’ospedale (si chiamava Cione di Lapo Pollini, ed era vissuto duecento anni prima), Botticelli regalò a quei bambini senza mamma l’immagine di una mamma dolcissima, felice di accettare il proprio Bambino: Maria, che accoglie Gesù nel suo grembo, affidandosi alle parole incredibili di un angelo equilibrista. E a quei bambini senza casa, Botticelli mostrava una casa calda di tappeti, tende, baldacchini, comodi letti imbottiti, e una loggia aperta su un meraviglioso giardino chiuso, simbolo della misteriosa maternità di Maria.
Botticelli pensava certo che il suo affresco intessuto di luce sarebbe durato, o sarebbe stato distrutto, insieme al muro su cui lo dipinse. Ma, nel 1920, quell’opera venne «strappata» dal muro – non senza patire gravi danni e perdite – e portata agli Uffizi. Nemmeno qui ha trovato pace. È andata fino in Cina per una assurda mostra propagandistica del «brand Italia», e ora è appunto volata in Israele senza alcuna ragione.
Quella Madonna che culla il suo bambino nella pancia, quella casa accogliente e tranquilla perdono un po’ di significato per ogni chilometro che si allontanano dalla sofferenza dell’Ospedale di Santa Maria della Scala (coi suoi bambini di ieri e i suoi ragazzi di oggi), dagli Uffizi, da Firenze. Il passare del tempo scompone il mosaico della storia in tante tessere, che dovremmo sforzarci di rimettere insieme, e non di allontanare. Con amore, possibilmente.
Ma quando il ministro Massimo Bray ha provato a bloccare il viaggio del Botticelli volante – che anche a lui pareva senza senso – è scoppiata quasi una crisi diplomatica. Non si potevano mettere in discussione gli accordi dello sventato predecessore, e il ministro degli Esteri Emma Bonino riteneva l’ostensione di un singolo Botticelli assai più efficace di una seria pianificazione di rapporti culturali. Quando Bray ha chiesto al massimo istituto di restauro italiano, il fiorentino Opificio delle Pietre Dure, una relazione sulle condizioni dell’opera, ne è arrivata una così concepita: la vera relazione tecnica, scritta da una restauratrice, diceva che l’opera aveva subito danni durante spostamenti recenti (il viaggio a Pechino?), e che un’ulteriore movimentazione sarebbe stata «pericolosa». Ma questa verità scientifica veniva schiacciata dalla lettera di accompagnamento del soprintendente dell’Opificio, dove la ragion di Stato induceva a definire «non significative» le preoccupazioni sullo stato di conservazione.
E così Bray si è arreso, e Botticelli è volato a Gerusalemme. D’altra parte esiste un precedente eloquente: nel 1930 proprio Botticelli fu protagonista di una spettacolare quanto criminale mostra voluta da Mussolini a Londra (Francis Haskell ne ha studiato la vicenda in un saggio intitolato «Botticelli al servizio del Fascismo»), esaltata dal Corriere della Sera dell’epoca come «un segno portentoso dell’eterna vitalità della razza italica». E basta sostituire «brand Italia» a «razza italica» per ottenere la retorica propagandistica di oggi. Che travolge la verità della storia dell’arte e della scienza in nome delle ragioni di un potere autoreferenziale.
In una lettera scritta insieme a Sefy Hendler – che insegna Storia dell’arte all’Università di Tel Aviv – e pubblicata in Italia sul Corriere della Sera e in Israele su Haaretz, abbiamo provato a dire che entrambi crediamo profondamente nell’amicizia tra Italia e Israele, e nel ruolo che la cultura può e deve avere nel rafforzarla: il nostro stesso, continuo scambio scientifico è un minuscolo tassello di quell’amicizia. Ma siamo convinti che le relazioni culturali tra i popoli non possano essere rafforzate da scambi di singole opere «feticcio» decise dalle diplomazie senza nessun coinvolgimento della comunità scientifica, e anzi imponendo al museo prestatore e al museo ospitante un «evento» del tutto estraneo alla loro vita. Non siamo più nell’antico regime: nelle democrazie moderne le opere d’arte non sono più pedine della ragion di Stato, ma testi su cui fare ricerca, e da restituire alla conoscenza dei cittadini.
Una vera mostra di ricerca aperta al grande pubblico avrebbe ogni ragione di spostare dall’Italia a Israele, o viceversa, anche cento opere (magari meno fragili del Botticelli): non ha invece alcun senso spedire un’opera singola e irrelata, in un’operazione assai vicina al marketing. Crediamo che la regola fondamentale della conoscenza, e cioè il perseguimento della verità, debba stare anche alla base delle relazioni internazionali: specie quelle che si vogliono fondate sulla cultura. È per questo che dirsi la verità non può in nessun caso mettere in crisi, ma anzi può solo rafforzare, le relazioni culturali internazionali dell’Italia.
Può sembrare curioso – certo sembra ingenuo – ricordarlo in un momento in cui «parole come verità o realtà sono divenute per qualcuno impronunciabili a meno che non siano racchiuse tra virgolette scritte o mimate»: ma «il ruolo dell’intellettuale è tirar fuori la verità. Tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità [...] La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo».

In questo, in fondo, consiste ogni serio programma di politica culturale, a questo serve il patrimonio culturale: a tenere accesa la lampada di Guernica. A dire la verità.

 Testo pubblicato oggi, 10 giugno 2014, da http://www.minimaetmoralia.it/

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