1956. Elio Vittorini, teste difesa al Processo di Danilo Dolci per lo sciopero alla rovescia.
Patrimonio condiviso, storia condivisa?
Nel nostro Paese, “la storia si manifesta alle nuove generazioni nella straordinaria sedimentazione di civiltà e di società leggibile nelle città, piccole o grandi che siano, nel paesaggio, nelle migliaia di siti archeologici, nelle collezioni d’arte, negli archivi, nelle manifestazioni tradizionali che investono insieme lingua, musica, architettura, arti visive, manifatture, cultura alimentare e che entrano nella vita quotidiana. La Costituzione stessa, all’articolo 9, impegna tutti, e dunque in particolare la scuola, nel compito di tutelare questo patrimonio”.
Il brano non è tratto da Istruzioni per l’uso del futuro di Montanari, ma dalle Indicazioni ministeriali del 2012 per la scuola primaria, capitolo su Il senso dell’insegnamento della storia. Ed è il motivo per cui una storica come me si sente chiamata in causa da uno storico dell’arte come lui, e da un libro dal taglio polemico e politico come il suo, su temi che pure hanno accumulato un’abbondante bibliografia scientifica come cittadinanza e integrazione, la democrazia e il rapporto con il passato e con il patrimonio. E visto che Mario Valentini e Emiliano Sbaraglia, da prospettive diverse, sono appena tornati sulla questione in relazione alla scuola, non è inutile, forse, aggiungere alcune riflessioni dal punto di vista dei contenuti di questa possibile scuola dell’integrazione. Quale passato e quale patrimonio? Quale storia?
Il nesso tra patrimonio e cittadinanza sul quale insiste Montanari, pur non essendo esclusivo appannaggio né del nostro paese né dell’Europa, ha in Italia una particolare pregnanza per motivi storici di lungo periodo, e soprattutto grazie alla Costituzione repubblicana del 1948. Ed è un principio intrinsecamente progressivo, come la democrazia liberale che nasce dal patto costituente all’indomani della guerra di liberazione: presuppone l’uguaglianza di diritto, ma tende anche all’uguaglianza di fatto, ovvero all’ampliamento dei diritti di cittadinanza e all’inclusione sociale.
Ora, in quanto figura della storia, la funzione di cittadinanza che il patrimonio può svolgere si deve necessariamente evolvere. Deve accordarsi alle trasformazioni della società, e diventare strumento di integrazione per generazioni di cittadini che provengono da paesi, culture, storie diverse, mentre fino a qualche decennio fa il problema della cittadinanza democratica poteva in larga misura essere concepito, anche sul piano culturale, come un problema di classe. Per meglio dire, oltre a una questione di inclusione sociale sempre attuale (anzi, vieppiù attuale con l’accrescersi della diseguaglianze, che poi è la distanza che separa chi vive nei centri storici e chi nelle periferie degradate), ce n’è una, urgente, di inclusione etnica e culturale che non sia (un’impossibile) assimilazione.
Scrive Montanari nel capitolo Ius soli che gli stranieri che giungono in Italia possono fluire nella tradizione culturale italiana perché vivono in un territorio nel quale essa si manifesta in uno straordinario palinsesto che la Costituzione ha messo a disposizione di tutti. Sono immersi in una storia alla quale possono appartenere senza rinnegare la propria. A patto, naturalmente, che lo si conosca, e che le istituzioni preposte all’istruzione e alla ricerca non rinuncino alla propria missione.
Le potenzialità ‘creative’ del patrimonio, tanto per l’apprendimento della storia quanto per l’educazione alla cittadinanza attiva sono al centro della riflessione sulla didattica della storia da almeno un decennio[1], e le Indicazioni nazionali attuali ne sono l’esito. Non solo in Italia, per la verità, dato che da tempo la Commissione Europea ha individuato la funzione del patrimonio nella promozione di senso di identità, memoria collettiva e comprensione reciproca all’interno e tra le comunità e ha favorito l’affermazione di un tale approccio nelle politiche educative dei paesi dell’Unione.
Così, una didattica di tipo esplorativo permette (permetterebbe) ai più piccoli di capire il mutamento osservandone le tracce, e al contempo di scoprire le proprie città, le proprie comunità e sentirsene parte. Si potrebbe dire, di costruire la propria identità di cittadini, se, in Italia, la nozione di identità non fosse così carica di implicazioni proprio nella tormentata vicenda dell’insegnamento della storie. Le indicazioni nazionali del 2007 e del 2012, infatti, sono anche il risultato di un opportuno correttivo all’impianto fortemente ideologico introdotto pochi anni prima dalla cosiddetta riforma Moratti, secondo il quale la funzione identitario della storia era enfatizzata in chiave occidentale, cristiana, nazionale e regionalistica tanto da sollevare la viva reazione degli storici[2]. Si è dunque sostituita la nozione di identità con quella di appartenenza, postulando però così l’intrinseca pericolosità della prima e, dunque, mettendo di fatto in secondo piano il problema della cittadinanza interculturale.
La domanda è sempre la stessa: cosa definisce una comunità, la comunità della quale si vuole/deve sentire parte e tutelarne l’eredità, quando questa comunità cambia molto rapidamente?
Montanari dice da storico dell’arte: il patrimonio che si trova nel nostro paese parla una lingua che tutti possono imparare a parlare. In un certo senso ha gioco facile perché può sostenere la coincidenza tra territorio politico e tradizione culturale, perché il patrimonio è quello che fisicamente si trova in Italia e che la rende inconfondibile. Uno ius soli sui generis, insomma.
Ma che storia raccontiamo di questi monumenti e attraverso questo patrimonio? La storia può svolgere una funzione identitaria al plurale e farlo attraverso il patrimonio? Per dirla brutalmente, se è per scoprire l’innato genio italiano di fronte a Leonardo, o le radici cattoliche della nostra società di fronte a una pala d’altare, meglio stare in classe.
Il problema, preciso, non si pone davvero per la storiografia scientifica. Per quanto la ricerca nostrana si concentri di preferenza sulla storia italiana, e non abbia una gran tradizione di storia interconnessa, transnazionale o globale, negli ultimi decenni, come altrove, si è impegnata a restituire la pluralità di intrecci, gli scambi, i meticciamenti della storia ‘nazionale’, nonché la violenza reale e simbolica dispiegata nel tempo per occultarli o impedirli. Ed è anche vero che la riflessione pedagogica degli storici non evita di interrogarsi sulle sfide della società multietnica e del mondo globalizzato, almeno come orizzonte problematico.
Nondimeno, la lista degli ostacoli che si frappongono a un tale progetto culturale e civile è lunga, a partire dalla tanto banale quanto micidiale riduzione delle ore d’istruzione e ritorno al maestro unico della Gelmini. È bene elencarne alcuni, perché il diavolo si nasconde nei dettagli, e in Italia ciò prende abitualmente la forma di iato tra enunciazioni e realtà.
Intanto, l’insistenza delle Indicazioni nazionali su un approccio universalistico piuttosto che interconnesso; in secondo luogo, una scansione cronologico-sequenziale inefficace (dalla III classe elementare alla V: dall’ominazione alla caduta dell’impero romano) che lascia poco spazio per una tal riflessione sulla storia plurale d’Italia attraverso la scoperta delle tracce materiali del passato. Soprattutto, i docenti dovrebbero essere in grado di fare quel che si chiede loro. E purtroppo si può legittimamente dubitare che le università forniscano la preparazione storica iniziale che si presuppone nella Indicazioni nazionali. Tralasciamo che nella stragrande maggioranza dei corsi di Scienze della formazione primaria non è prevista neanche un’ora di storia dell’arte, e ancora, si dovrebbe chiedersi di che storia dell’arte parliamo. Ha ragione Montanari quando dice che la scuola primaria riesce a trasmettere conoscenze e curiosità per la lettura contestuale delle opere del passato, poi dilapidato alle superiori. Ma temo che sia un po’ ottimista, nonostante le eccellenze (fanno autorità l’Emilia Romagna con il Centro internazionale di didattica della storia, e la Lombardia con l’associazione Clio92 e la Storiainrete).
Mancano poi strumenti didattici alla portata di tutti. A parte alcuni interessanti contributi[3], la manualistica finisce per essere ben tradizionale nell’organizzazione dei contenuti. La progettazione di curricoli di storia originali e ricchi è un’operazione molto complessa, come sanno tutti gli insegnanti che si sforzano di fare al meglio il proprio lavoro. Né mi pare esistano ancora pubblicazioni che guidino con facilità e concretezza la scoperta del patrimonio in chiave interculturale, fatta salva l’attività dei servizi didattici museali più dinamici e delle associazioni più attente ma molto disparatamente presenti sul territorio.
Temo quindi che fino a che la ricerca storica e storico-artistica non accetta di ‘sporcarsi le mani’ e fare della riscrittura della storia del patrimonio una priorità, un tema esplicito e collettivo a tutti i livelli del confronto specialistico e pubblico, non si potrà farne la leva di una storia plurale e condivisa. È un invito che una storica come rivolge a uno storico dell’arte come lui, e non solo a lui.
[1] A. Bortolotti, M. Calidoni, S. Mascheroni, I. Mattozzi, Per l’educazione al patrimonio culturale. 22 tesi, Milano, Franco Angeli, 2008; B. Borghi, C. Venturoli (a cura di). Patrimoni culturali tra storia e futuro, Bologna, Patron, 2009.
[2] A. Brusa, L. Cajani (a cura di), La storia è di tutti, Roma, Carocci, 2008.
[3] Per esempio L. Landi, Di chi è questa storia? Proposte didattiche per le classi multiculturali, Roma, Carocci, 2010; E. Perillo, Le storie d’Italia nel curricolo verticale. Dal paleolitico ad oggi, Castel Guelfo, Cenacchi, 2011.
da minima&moralia venerdì, 27 giugno 2014
da minima&moralia venerdì, 27 giugno 2014
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