17 giugno 2014

HOLLYWOOD NON FA PIU' SOGNARE?



Se Hollywood non riesce più a farci sognare

di Emiliano Morreale

Più stelle che in cielo, «More stars then there are in heaven », era il celebre motto della Metro Goldwyn Mayer negli anni ‘30. Si riferiva al parterre di divi che la Casa aveva sotto contratto, da Greta Garbo a Clark Gable. Ma potrebbe essere un motto di tutta Hollywood. Gli studios, i generi, le star: questi erano i pilastri di un sistema che procedeva correggendosi ed evolvendo insieme al proprio pubblico di massa. Hollywood era le sue star. E certo, fin da subito si è parlato delle illusioni, delle zone d’ombra del mito. I canti su miserie&splendori; del divismo ci sono sempre stati, nel cinema e nella pubblicistica. Ma era, appunto, l’altra faccia del mito. Il Divo o la Diva potevano fallire, autodistruggersi, invecchiare, ma rimanevano (e forse diventavano ancora di più) Divi. Oggi, in film come il recentissimo Maps to the stars di David Cronenberg o, prima ancora, The Canyons di Paul Schrader scritto da Bret Easton Ellis, c’è qualcosa d’altro. C’è l’ormai raggiunta consapevolezza che il cinema non è più la fabbrica dei sogni e delle star. Nessuno dei personaggi del film ottiene davvero il successo; l’incanto è spezzato, e divi e registi si aggirano per le loro ville californiane come spettri.
Se ci guardiamo intorno, in effetti, quanti sono i film che portano la gente al cinema sulla base del richiamo delle star? Pochissimi. E addirittura, in certi casi, non sembra esserci legame diretto tra la popolarità di un attore e gli incassi dei suoi film (George Clooney è famoso, ma i suoi film quasi mai sono dei blockbuster). L’ultima grande infornata di divi, a ben vedere, risale a 15-20 anni fa, nella prima metà degli anni ‘90: con gli oggi cinquantenni Johnny Depp o Brad Pitt, o i quasi quarantenni Leonardo Di Caprio e Angelina Jolie. La classifica delle celebrità di Forbes del 2013, tra vari presentatori, cantanti pop e sportivi, vedeva ai primi 20 posti solo tre attori: due interpreti di film di supereroi (Hugh Jackman all’11mo posto e Robert Downey jr. al 20mo), e Jennifer Lopez, attrice/cantante, al 12mo.
Forse, a ripensarci, Stanley Kubrick aveva messo la pietra tombale con Eyes Wide Shut, anatomia di una coppia di divi dentro e fuori la scena. Ma, prima ancora, il film simbolo di un passaggio è stato davvero, nel 1998, l’Oscar a Titanic . Film di effetti speciali, ma anche mélo di perfetta tradizione, concepito anche per lanciare Leonardo Di Caprio e Kate Winslet. Come la nave che gli dà il titolo, il film di James Cameron sembra un titolo che chiude un’epoca. La fine delle star è infatti, anche, la fine di Hollywood. Un tempo gli Oscar premiavano il film che era anche, nell’ottica di una Hollywood compatta, simbolo di un intero progetto spettacolare. Si chiamasse West Side Story o Il padrino, Voglia di tenerezza o La mia Africa.
Oggi invece il premio è piuttosto l’immagine di ciò che Hollywood vorrebbe essere: un cinema di storie, di attori, magari di grandi temi. Ma il core business è altrove. L’Academy Award premia 12 anni schiavo, Argo, The Artist, Il discorso del re, The Hurt Locker, ma i migliori incassi negli stessi anni sono Hunger Games: la ragazza di fuoco, The Avengers, Harry Potter e i doni della morte, Toy Story 3. Al cinema americano di oggi non servono il richiamo e il fascino di una star insieme prossima e fiabesca, che faccia immedesimare e sembri nello stesso tempo irraggiungibile. Certo, il cinema indipendente continua a produrre attori di grande livello, che poi magari ascendono fino al mainstream. Ma rimangono, se può esistere un ossimoro del genere, «divi d’élite». Dall’altro lato, stranamente, nemmeno il mondo delle serie tv ha prodotto un divismo paragonabile a quello cinematografico, e anzi spesso le serie, anche di grande livello, sono il luogo di riciclaggio di attori in disarmo. La morte tragica di un attore come Philip Seymour Hoffman, forse il migliore della sua generazione, non ha certo avuto l’impatto di quella di John Garfield o di James Dean.
Oggi è forse soprattutto la musica a produrre divi, ma dilagano anche nuove forme di fama, come quelle figlie dei reality show. E la differenza tra queste forme di popolarità e i divi cinematografici di un tempo sta anche nel fatto che il divismo cinematografico si basava sulla dialettica tra persona reale e personaggio. John Wayne era i personaggi che interpretava, ma era anche il personaggio John Wayne. E così Marilyn Monroe, o Gary Cooper, o Marlene. Oggi Paris Hilton è solo Paris Hilton (qualunque cosa questo significhi), e in fondo anche per Lindsay Lohan la carriera di attrice è solo una minima parte di quello di «balorda pubblica» — e in questa veste, infatti, l’ha usata Paul Schrader in The Canyons.
Inoltre, una delle grandezze del cinema hollywoodiano è stata di saper essere, già nel dopoguerra, non solo una fabbrica di divi, ma anche di anti-divi. Se ci pensiamo bene, dai tempi dell’Actor’s Studio il divo classico comincia a essere un divo «maggiorenne», potremmo dire, tridimensionale. James Dean, Marlon Brando, Montgomery Clift sono una generazione di star maschili che condurrà rapidamente all’ultima, grande fioritura di attori ormai fuori dagli schemi canonici, eppure capaci davvero di essere star e modelli in senso pieno: Dustin Hoffman, Robert De Niro, Al Pacino, Meryl Streep. Attori che magari sostituivano, alla lontananza del fascino divistico e della bellezza, un altro superpotere, quello del virtuosismo recitativo. Non i più belli o i più affascinanti, ma i più bravi.
Oggi, i superpoteri ce li ha tutti la tecnologia, e dunque cosa può aggiungere un povero divo a queste macchine spettacolari? Il simbolo di questa mutazione può essere allora l’immagine del corpo dell’attore incapsulato nelle immagini digitali del motion capture. Nel prossimo Apes revolution rivedremo Andy Serkis, già modello del Gollum del Signore degli anelli, nel ruolo del capo delle scimmie. C’è già chi studia le nuove tecniche necessarie alla recitazione nel post- cinema; c’è chi ci vede la fine di un cinema comunque umano, e del quale comunque le star, così lontane e così vicine allo spettatore, erano la quintessenza.

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