Diceva Brecht: “Sventurata la terra che ha bisogno di
eroi”. Noi oggi traduciamo così: Poveraccio il
paese che ha bisogno di bulli.
Alessandro
Robecchi
Renzi, il
bulletto che fa il premier
Chissà cos’hanno
pensato i dirigenti del più grande Partito Comunista del mondo
quando hanno visto Matteo Renzi occuparsi di Corradino Mineo.
Abituati a leader occidentali che vanno lì a parlare dei dissidenti
loro, vederne uno che da Pechino si occupa dei dissidenti suoi li
avrà divertiti un bel po’. Poi, appena tornato in patria, il
premier ha fatto tutta la classifica delle sue proprietà. Mio il
41%, miei i voti delle europee, mio il partito, e mio anche il paese,
che “non si può lasciare in mano a Corradino Mineo” (che è un
po’ come sparare alle zanzare con un lanciamissili, diciamo).
Tipica sindrome del possesso: è tutto suo, ce ne sarebbe
abbastanza per uno studio sul bullismo. Studio già fatto, peraltro,
perché pare che il paese proceda di bulletto in bulletto. Prima
quello là, il Bettino degli “intellettuali dei miei stivali”,
che Renzi ha voluto rivisitare con i “professoroni”, con contorno
di gufi e rosiconi (al cicca-cicca manca pochissimo, prepariamoci).
Poi quell’altro, Silvio nostro, parlandone da vivo, che rombava smarmittato dicendo che “dieci milioni di voti” lo mettevano al riparo dalla giustizia.
Poi quell’altro, Silvio nostro, parlandone da vivo, che rombava smarmittato dicendo che “dieci milioni di voti” lo mettevano al riparo dalla giustizia.
Non diversissimo dal
nuovo venuto, secondo cui “dodici milioni di voti” (suoi, ça va
sans dire) sono un’investitura per fare quello che vuole senza se e
senza ma. Insomma, che le elezioni europee fossero un voto per la
riforma del Senato era meglio dirlo prima, non dopo.
Ora, si trema all’idea di cosa, ex-post, tutti quei voti possano giustificare, dallo scudetto alla Fiorentina alla riforma della giustizia, dalla rimozione dei senatori scomodi alla renzizzazione selvaggia del partito. Come sempre quando si va di fretta, non mancano i testacoda.
Il “lo cambieremo al Senato” (il voto della Camera sulla responsabilità dei giudici), detto da uno che il Senato lo vuole abolire. Oppure il famoso lodo “Daspo e calci nel sedere” ai politici corrotti, che si è tramutato in silenzio di tomba quando il sindaco di Venezia è tornato, dopo un patteggiamento, al suo posto. Se n’è andato lui, Orsoni, e sbattendo la porta, senza nessun Daspo e nessun calcio nel sedere (pare che intenda tirarne lui qualcuno al Pd, piuttosto).
Ora, forgiata una falange
di fedelissimi (persino i giornali amici e compiacenti ormai li
chiamano “i colonnelli”) è bene dire che nessuno si sente al
sicuro. Ne sa qualcosa Luca Lotti che per zelo ebbe a dire che
Orsoni non era del Pd: Renzi lo sbugiardò a stretto giro, come
dire, va bene essere più realisti del re, ragazzi, ma ricordiamoci
chi è il re.
Tanto, che uno sia del Pd oppure no è irrilevante: quel che conta è si è di Renzi oppure no. Perché Giggi er bullo vince sempre . Se il Pd va bene è il suo Pd. Se va male è quello vecchio e mogio di Bersani. Un po’ come il Berlusconi padrone del Milan, che si intestava le vittorie e scaricava le sconfitte sugli allenatori. Lo stile è quello.
L’avesse fatto Bersani, di levare da una commissione un senatore sgradito (magari renziano, toh) avremmo sentito gemiti e lezioncine di democrazia fino al cielo, perché anche nel “chiagni e fotti” le similitudini non mancano. E qui c’è un po’ di nemesi, a volerla dire tutta. Perché se fino a qualche tempo fa si poteva sghignazzare sulla gesta di Renzi, “Ah, l’avesse fatto Silvio”, ora siamo arrivati al punto di dire: “Ah, l’avesse fatto Pierluigi!”.
Che è poi la
storia di come procede a passi rapidi l’uomo solo al comando: si
teorizzava qualche mese fa da parte renziana che come alleato
Berlusconi fosse meglio di Grillo. Oggi si teorizza (anche coi fatti)
che come socio per le riforme Berlusconi è meglio di alcuni senatori
Pd, eletti per il Pd da elettori del Pd.
Quanto ai soldatini, ai pasdaran e ai guardiani della rivoluzione renziana, che sgomitano per farsi notare dal capo, devono per ora limitarsi all’arte sublime del benaltrismo. Ad ogni nota stonata del loro conducator sono costretti ad argomentare: e allora Grillo? Come se davanti a una bronchite un medico intervenisse dicendo: e la polmonite, allora? Nel merito, niente. Poveretti, come s’offrono.
il Fatto – 14 giugno
2014
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