13 giugno 2014

I MONDIALI E IL TEMPO CHE PASSA...







Pubblichiamo un articolo di Andrea De Benedetti uscito sul portale Treccani.

I Mondiali e il tempo che passa

di Andrea De Benedetti

«Mondiali»: basta la parola, e ne basta una sola. Troppo lungo, troppo inutilmente pleonastico «campionati mondiali» per spiegare un concetto che sta tutto dentro un aggettivo sostantivato.
Un aggettivo sostantivato e soprattutto un’antonomasia. Perché quando si parla di «Mondiali» si intendono solo ed esclusivamente quei Mondiali: quelli che si disputano negli anni pari non bisestili, quelli che per un mese scaraventano qualunque problema, anche il più serio, alla periferia della nostre preoccupazioni, quelli che l’Italia ha vinto quattro volte e che se Baggio, in un lontano pomeriggio americano del ‘94, non avesse sbagliato un certo rigore, allora chissà.
Per chi segue il calcio, il Mondiale (declinato al singolare suona ancora più solenne) è innanzitutto la principale unità di misura del tempo che passa. Un anno è spazio troppo breve per cogliere il dipanarsi delle cose, per intuire i sommovimenti della storia. Quattro, invece, scandiscono con implacabile esattezza i passaggi chiave della vita. Suppondendo di nascere in un anno mondiale, quattro anni dopo ci si ritrova all’asilo, a otto si frequentano le elementari, a dodici le medie, a sedici le superiori, a venti si è universitari, a ventiquattro laureati, a ventotto precari, a trentadue padri di famiglia. E così fino alla dipartita, una quindicina di mondiali dopo. Tra un’edizione e l’altra c’è tempo per sposarsi e separarsi, diventare ricchi e finire in miseria, perdere l’innocenza o la verginità, essere governati dalla sinistra o dalla destra.
Durante il mese di competizione, in compenso, il tempo si paralizza. Anzi, regredisce a quello stato di infanzia perenne che è la nostra autobiografia di calciofili e di italiani. Per una partita della Nazionale abbiamo chiuso negozi, sprangato sportelli pubblici, messo in stand-by interi comparti, a partire dalla politica. E continueremo a farlo: ci si può scommettere.
Sul campionato, sulle coppe europee, sullo straripante palinsesto settimanale di partite trasmesse in tivù a ogni ora si può discutere, negoziare, fare compromessi e rinunce. Sul Mondiale giammai. Nella graduatoria degli eventi più visti nella storia della televisione italiana i primi trentanove posti sono occupati da altrettante partite di calcio, trentasei delle quali con la Nazionale in campo. E naturalmente non è un caso.
Il paradosso è che in un paese come il nostro in cui persino il Parlamento sospende le sedute durante le partite degli azzurri, non tutti fanno il tifo per la Nazionale. C’è infatti una minoranza non così sparuta di connazionali che aspettano il Mondiale per tifare apertamente contro: perché ci sono troppi juventini, perché non ce ne sono abbastanza, perché ci sono troppi neri, perché sono ragazzi viziati, perché siamo un paese già abbastanza degradato, perché se vince l’Italia si fa un favore al governo in carica, perché se perde possiamo finalmente fare la secessione.
Nel 1994, all’indomani delle prime elezioni vinte da Forza Italia, ci fu chi si illuse che perdere contro il Brasile avrebbe accelerato la caduta del berlusconismo, che invece è durato vent’anni. E anche fuori dal nostro Paese non è sempre stata così diretta e trasparente la correlazione tra trionfi calcistici e consenso politico, sul quale pesano ormai molto più il prestigio di vederseli assegnati e la promessa di conseguente benessere che non il successo sportivo in sé.
Ognuno ha il suo Mondiale del cuore, archetipo emotivo e implicito termine di paragone di tutti quelli posteriori. Chi, adolescente, ha fatto le ore piccole per vedere Italia-Germania 4-3 o ha esultato per la vittoria a Spagna ’82, mezz’ora dopo ne aveva già nostalgia, perché intuiva che dopo una gioia così perfetta la vita non avrebbe potuto far altro che peggiorare. E anche se poi ci siamo ritrovati tutti a urlare come ossessi al rigore di Grosso contro la Francia, c’era qualcuno, da qualche parte, che quella sera del 2006 rimpiangeva Chinaglia e il suo «Vaffa» al citì Valcareggi, perché il «suo» mondiale, ancorché disgraziato, era quello del ‘74.
Corollario di questa nostalgia – una nostalgia che ha nei quattro anni tra un’edizione e l’altra il suo ideale tempo di incubazione e il suo relativo decorso – è il rimpianto del calcio di una volta, la convinzione che i Mondiali veri non esistono più da un pezzo e che quelli che ci ostiniamo ad aspettare non siano che un surrogato commerciale di una nobile idea ormai estinta.
L’ultimo e definitivo passaggio di questo processo sarebbero i Mondiali in Brasile, una volta consumati i quali consegneremo definitivamente il calcio nelle mani di oligarchi russi e petrolieri qatarioti, che ne faranno un’ulteriore provincia – la più grande – del loro impero. E c’è un che di altamente simbolico e straordinariamente malinconico nell’idea che questo passaggio possa avvenire proprio in Brasile, dove il rude gioco del pallone è assurto al rango di arte e magia e dove tutti gli amanti del calcio si sentono in qualche modo a casa.
A meno che si tratti dell’ennesima proiezione emotiva della nostra caducità e di una nostalgia mai elaborata. Nel qual caso bisognerebbe dare ragione a chi invece sostiene che il calcio non sia mai stato così universale e forse nemmeno così pulito, perché con due miliardi di occhi addosso non potrebbe permettersi il benché minimo alone di sospetto.
Di sicuro in Brasile ci saranno più controlli di sempre, più televisioni di sempre, più soldi di sempre e forse anche più campioni di sempre. Soprattutto, ci saranno più «stranieri» di sempre: svizzeri nati in Kosovo, ivoriani con passaporto belga, italiani di origine ghanese, francesi di ogni dove e tantissimi brasiliani che giocheranno con una maglia diversa da quella del Brasile. Il che farà forse inorridire un’altra categoria di nostalgici, quelli della purezza della razza e delle identità senza sfumature. Ma stiamo parlando di una minoranza. A dimostrazione del fatto che il passato non merita sempre tutto questo rimpianto.

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