"Il popolo dell’abisso":
un reportage dello scrittore americano nella Londra di inizio ’900.
Contrariamente a ciò che si legge nell'articolo, il libro ebbe numerose
edizioni italiane e testimonia assieme a “Il tallone di
ferro” dell'impegno militante di Jack London nelle lotte del
Partito Socialista americano allora in pieno sviluppo. E soprattutto non
parla di "barboni", ma di lavoratori poverissimi, antenati degli
odierni precari. Un libro da leggere per capire non l'Inghilterra
vittoriana, ma il presente.
Maurizio Cucchi
Jack London barbone
tra i barboni
Jack London è stato un grande scrittore amato dagli uomini di cultura ma anche, e molto, dal popolo. Un tempo i suoi libri erano ben presenti nelle stesse case degli operai, per la sua capacità di mettere insieme realismo e avventura, osservazione del mondo e vivacità inventiva. D’altra parte la sua curiosità del mondo e delle cose, del modo in cui vivevano gli esseri umani del suo tempo, e in diversi paesi, è ben testimoniata, oltre che dalle vicende della sua breve esistenza (1876-1916), anche da alcune sue opere, come Il popolo dell’abisso, straordinario reportage che ora appare, a cura di Mario Maffi, nei nuovissimi Meridiani paperback di Mondadori (pp. XXVIII-273).
Nel 1902, a ventisei anni, London cominciava ad affermarsi come scrittore, quando ricevette dall’American Press Association la proposta di andare in Inghilterra e visitare i poverissimi quartieri londinesi dell’East End. Partì dalla sua casa di East Oakland, in California, portando con sé una macchina fotografica. Tanto è vero che in questo libro, pressoché sconosciuto in Italia, l’autore di Martin Eden propone alcune foto da lui scattate per meglio illustrare – per farlo in modo più diretto, visivo – l’ambiente miserabile in cui si trovò precipitato. E in una vediamo proprio lui, lo scrittore, accanto a un suo occasionale amico, un povero ciabattino, con il quale si era avventurato nella raccolta del luppolo, per constatare di persona quali fossero le tremende fatiche e i pochissimi spiccioli raccolti dai derelitti dediti a quel misero lavoro.
Immergersi nella realtà della Londra dei derelitti porta Jack London a condividere personalmente e quasi totalmente le loro stesse condizioni e abitudini di vita. Cerca per esempio un alloggio miserabile, va a comperarsi vestiti da autentico straccione, si mette più volte in coda per entrare di notte in un ospizio per disoccupati, vagabondi, lavoratori occasionali poverissimi, dormendo come loro in brande sudice e mangiando la loro stessa «broda», vale a dire un misto di acqua e farina che alle prime cucchiaiate gli provoca un vivissimo senso di schifo.
Questi disgraziati
andavano a mettersi in coda per ore davanti alla porta dell’ospizio,
già nel primissimo pomeriggio, e se i posti disponibili erano
venticinque e gli aspiranti trentacinque, gli ultimi dieci dovevano
rassegnarsi a una notte all’aperto. E cioè a una notte senza
dormire, perché i poliziotti giravano impedendo persino un sonno da
barboni su una panchina o sotto un albero nel parco. In ogni caso,
chi veniva accolto nell’ospizio, doveva poi ripagare, lavorando,
l’ospitalità e il buon cibo offerto. London riuscì anche a
intrufolarsi nel ricovero dell’Esercito della Salvezza,
regalandoci una foto molto eloquente della folla dei poveracci in
attesa di poter entrare.
Ci racconta poi delle donne che la mattina presto si mettevano in strada con sacchi di pane secco, per venderlo agli operai in cammino verso il lavoro; ci presenta un giovanotto anche lui immerso nella miseria dell’East End al quale chiede quale sia lo scopo della sua vita. E questa è la risposta agghiacciante: «Ubriacarmi». La birra è come un fiume che scorre in questi derelitti, per i quali il pub è l’unico autentico rifugio: «Si può dire che le classi lavoratrici inglesi siano immerse fino al collo nella birra. Dalla birra sono rese apatiche e inebetite, la loro capacità lavorativa tragicamente spezzata e indebolita». E quanto mai diffusa era anche la tendenza al suicidio, come solo mezzo definitivo per liberarsi della quotidiana sofferenza, per annullare la disperazione. E chi tentava di darsi la morte senza successo veniva anche processato.
Come ci dice Maffi nel saggio introduttivo, «affiora in questo libro […] quell’ostinata immagine dell’America come contraltare a un Vecchio Mondo ormai incapace di produrre nuova linfa vitale» e il giovane scrittore socialista si mostra «inorridito alla vista dell’abisso dell’East End londinese per sognare i “grandi spazi aperti del West”, il “West vario e luminoso”, e celebrare con nostalgia la giovane razza vigorosa che si moltiplica al di là dell’Atlantico». E conclude però interrogandosi sulla Civiltà, rilevando come abbia «accresciuto di almeno cento volte la capacità produttiva dell’uomo, ma a causa di una cattiva gestione gli uomini che di questa Civiltà fanno parte vivono peggio delle bestie».
Ma in questa perlustrazione fitta e appassionata di una realtà sociale sprofondata nell’abisso della miseria disperata – oltre le illusioni di un mondo nuovo e realmente nuovo, l’America – ci incanta la voce dello scrittore, la sua capacità di oltrepassare i confini del semplice reportage, per darci l’emozione di entrare insieme con lui nell’inferno di una condizione umana che ha spazzato via innumerevoli esseri senza neppure dare loro il privilegio della parola, della testimonianza di un lamento.
La Stampa – 9 giugno
2014
Jack London
Il popolo dell'abisso
Mondadori, 2014
Nessun commento:
Posta un commento