Storia
di un quadro di Guido Reni.
Melania G. Mazzucco
Guido Reni e quel
dipinto realizzato nel 1637: tra storia e metafora
La fortuna è una donna.
Anzi, una fanciulla bellissima. E' una convenzione che i pittori non
discutono. Anche se vivono in un'epoca in cui il fato si è arreso
alla Provvidenza, e nel cielo regna solo Dio. Le allegorie
classiche sono un repertorio di figure, il pretesto dei collezionisti
che bramano contemplare nelle loro stanze nudità muliebri senza
commettere peccato.
Così, bionda e bella
come una dea pagana, un roseo pudico drappo a coprirne la nudità, la
dipinse Guido Reni. Intorno al 1639 Luca Assarino, avventuriero della
penna e romanziere pronto a tutto, anche a farsi tromba della gloria
dell’eminentissimo cardinal Sacchetti, la vide sul cavalletto del
pittore, a Bologna. Il cugino del cardinale gliela aveva
commissionata quell’anno, l’anno prima, o prima ancora: Reni
aveva preso l’abitudine di incassare la caparra, abbozzare subito
l’opera richiesta, e poi dimenticarla. Le tele incompiute si
ammucchiavano nello studio, a centinaia. La Fortuna, però, era quasi
pronta.
Il cardinal Sacchetti,
per la seconda volta legato pontificio a Bologna, era un ammiratore
di Reni. I due si frequentavano dalla giovinezza, ormai remota per
entrambi. Nel 1639, il pittore aveva sessantacinque anni, e gliene
restavano solo tre da vivere. Il cardinale ne aveva quarantasei, ma
il meglio dell’esistenza lo aveva già alle spalle.
Il cardinale Sacchetti |
Sacchetti amava
presentarsi all’improvviso nello studio del pittore. Reni si
concedeva volentieri. Ambasciatori e principi di passaggio gli
facevano visita - come fosse, di Bologna, il monumento più illustre.
Col mantello poggiato con noncuranza sul braccio sinistro, si
lasciava guardare mentre intingeva il pennello nella tavolozza che
l’assistente di turno gli porgeva, gongolando per essere stato
preferito agli altri duecento allievi del maestro. Reni offriva al
pubblico l’artista, per proteggere l’uomo. Quello lo conosceva
solo Dio - e i suoi servitori.
Forse la Fortuna che
Assarino vide nello studio - volante sul globo, arbitra del destino
dei mortali - era proprio quella destinata al Sacchetti. O forse no.
Quando un’idea gli piaceva, o piaceva al committente, Guido la
replicava, o la faceva replicare ai suoi scolari, ancor prima che il
quadro lasciasse la bottega. Il cugino regalava al parente una
Fortuna per un motivo assai ovvio. Il cardinale ne aveva bisogno.
Non per guadagnar denaro,
come la maggior parte degli stolti che la invocano. Il cardinale era
già ricchissimo e infatti nel quadro la Fortuna non ha per attributo
una volgare borsa per le monete. La Fortuna tiene fra le dita una
corona. È lei che assegna capricciosamente il potere a questo o
quello: senza la Fortuna, nessuno salirà sul trono. E il cardinale
sognava di diventare papa alla morte di Urbano VIII. Guido serviva i
cardinali della corte, ma non ne aveva soggezione. Per fare un
cardinale basta un papa, diceva. Per fare uno come me, ci vuole
Iddio.
Tuttavia col tempo fra il
cardinale e il pittore si era creata un’insolita familiarità. Una
volta che Sacchetti si presentò senza preavviso nello studio
dell’artista, ci trovò il barbiere, intento a rasargli il mento.
Reni fece per alzarsi in piedi, ma il cardinale lo prevenne e afferrò
il rasoio. Mortificato, il pittore tentò di riprenderselo. Sacchetti
gli ordinò di rimettersi seduto, altrimenti avrebbe continuato a
tenere in mano il rasoio. Ai servitori di entrambi, il comportamento
del cardinale parve eccessivamente deferente. Non a Guido. In fondo
l’imperatore Carlo V si era chinato a raccogliere il pennello di
Tiziano, quando gli era caduto.
Reni dipinse dunque la
Fortuna in volo. Coi capelli al vento e la pelle di seta. Era famoso
in tutta Europa per la bellezza delle sue madonne, sante ed eroine.
Le sue femmine piene di grazia e tenerezza apparivano sublimi. Ma i
suoi ammiratori sarebbero rimasti delusi se avessero saputo il nome
della modella che posava per lui. Immaginavano una costumata
fanciulla, o una gentildonna. Invece si chiamava Pierino, era il
ragazzaccio col ceffo da criminale che gli macinava i colori. La
bellezza bisogna averla in testa, e non sotto gli occhi.
Non entravano donne,
nello studio di Bologna. Né in casa. Se vecchie e brutte, Reni le
aborriva. E le temeva, reputandole tutte streghe. Se giovani e belle,
lo lasciavano di marmo. La Fortuna però la rispettava. Era la vera
padrona della sua vita. Non perché gli aveva donato il talento, o il
successo. Quello lo aveva sviluppato con lo studio, e questo
guadagnato col lavoro e la fatica.
Simone Cantarini, Ritratto di Guido Reni (1635) |
Tutte le sere, dopo l’Ave
Maria, il pittore si inabissava nei vicoli tenebrosi di Bologna.
Solo. Oppure scortato dal fido Marchino, l’ambiguo tuttofare che
gli faceva da maggiordomo, governante, cuoco, copista e mediatore.
Reni andava al ridotto - e giocava a carte fino all’alba. Il
rischio leniva l’ansia e la malinconia che lo divoravano. Il gioco
era la sua malattia, il suo vizio, e il suo peccato. Puntava cifre
sbalorditive, e quasi sempre perdeva. Arrivò a perdere in una notte
l’equivalente di cinque mesi di lavoro, e in due notti 8500 scudi:
una somma che un altro pittore avrebbe impiegato dieci anni a
guadagnare.
Era sfortunato al gioco,
ma non perché fortunato in amore. L’amore non faceva parte del
repertorio della sua vita. Nessuno lo aveva mai visto con una donna.
Era vergine. Molti lo paragonavano a un angelo. Amore per lui era
solo un puttino biondo. Grazioso e perfetto come chi esiste solo nei
sogni. Se era sfortunato, è perché doveva continuare a dipingere.
Infatti, se avesse vinto
ogni sera, non avrebbe più avuto bisogno della pittura. Alla lunga
l’opulenza spegne la sete. Avrebbe dipinto per diletto, o per
compiacere qualcuno. E poi si sarebbe goduto la ricchezza, come gli
suggerivano i borghesi suoi amici, che gli consigliavano di investire
il capitale acquistando case e terreni. Invece lui preferiva
abbandonarsi senza ritegno al piacere dello sperpero. A un amico
aveva confessato: «godo solo quando spendo». Così perdeva. Perdeva
i denari che aveva portato con sé, quelli che teneva a casa o in
banca, quelli che non aveva ancora guadagnato.
Un altro si sarebbe
sparato, o disperato. Lui si buttava sul letto, e si addormentava di
schianto, sereno come un cherubino. Il giorno dopo il fido Marchino
fronteggiava legioni di avidi creditori, e poi pellegrinava per la
città, chiedendo prestiti per pagare i debiti. A medici, cavalieri,
speziali, preti, devoti e delinquenti. Tutti erano pronti ad aprire
la borsa per il divino Guido. Ma in cambio volevano quadri. E quadri
ricevevano - come caparra. Così lui dipingeva per giocare, e giocava
per dipingere, e le carte lo illudevano e poi lo tradivano, e la
fortuna sfuggiva alla presa dell’amore, un sorriso ineffabile sulle
labbra.
La Fortuna non si lasciò
sedurre né dal pittore né dal cardinale. Reni, che aveva guadagnato
come Rubens, e avrebbe potuto essere ricco come un principe, morì
povero di tutto. Tranne che di quadri e disegni: ne aveva fatti
talmente tanti che centinaia di persone si mantennero per anni
vendendoli uno a uno. Il cardinale fu sfiorato dalla Fortuna, che gli
mostrò la corona d’oro, e passò oltre. Al Conclave del 1644
Sacchetti era il candidato papa favorito - e gradito dai romani e
dagli artisti che lo sapevano munifico. Ma gli Spagnoli misero il
veto sul suo nome.
Reni non poté vantarsi
di aver avuto per barbiere un papa. Non lo avrebbe fatto per
superbia, ma per umiltà. Sarebbe stata, per la pittura, la più
grande vittoria. Sul denaro, sul potere, sul privilegio del sangue.
La Fortuna, però, non glielo concesse.Donna, bellissima: Reni non
l’aveva amata abbastanza.
"l’Unità",
22 giugno 2014
Nessun commento:
Posta un commento