Dopo l'omicidio
Matteotti, Piero Gobetti scrive un profilo (ora riedito) in cui
tratteggia la vittima come guardiano della rettitudine politica e
antifascista intransigente.
Emilio Gentile
Il più
irriducibile degli oppositori
Or sono novanta anni, il
10 giugno alle ore 16.30, a Roma, il deputato socialista riformista
Giacomo Matteotti, uscito di casa per recarsi alla Biblioteca della
Camera, fu rapito da una banda di sicari fascisti, che lo
assassinarono e ne seppellirono il corpo in un bosco nei pressi della
capitale, dove fu ritrovato due mesi dopo, il 16 agosto. La scomparsa
del deputato fu denunciata dalla moglie il giorno dopo, ma subito si
diffuse la convinzione del suo assassinio e iniziarono le indagini
per cercare i colpevoli. I portieri di uno stabile nei pressi della
sua abitazione avevano annotato il numero di targa dell'auto dei
rapitori, che nei giorni prima del sequestro si aggiravano nei
paraggi.
La sera del 12 giugno il
capo della banda, Amerigo Dumini, fu arrestato dalla polizia. Nei
giorni successivi, l'inchiesta giunse a coinvolgere, come mandanti
del delitto, strettissimi collaboratori di Mussolini: Cesare Rossi,
capo dell'ufficio stampa della presidenza del Consiglio, e Giovanni
Marinelli, segretario amministrativo del Partito fascista. Mussolini
aveva appreso la notizia del delitto la sera stessa del 10 giugno, ma
il 12 alla Camera, rispondendo a una interrogazione dei socialisti,
finse di non saperlo e parlò di «misteriosa scomparsa».
Da novanta anni si discute sui mandanti e i moventi del delitto: se fu il duce il mandante principale; se l'uccisione di Matteotti fu premeditata, dopo il suo discorso alla Camera del 20 maggio 1924 per denunciare le violenze fasciste nelle elezioni politiche, oppure fu l'epilogo di una spedizione squadrista concepita inizialmente solo per bastonare e umiliare uno dei più coraggiosi e intransigenti oppositori del fascismo; se il movente del delitto fu politico oppure affaristico, cioè derivato dal timore che Matteotti fosse prossimo a denunciare uno scandalo di tangenti in cui sarebbero stati coinvolti caporioni del fascismo e il fratello del duce. È certo però che il delitto Matteotti fu l'episodio più grave e più clamoroso in una lunga sequela di violenze e di assassini perpetrati dai fascisti prima e dopo l'ascesa al potere.
Dagli oppositori antifascisti, Mussolini fu subito considerato mandante o complice di un delitto premeditato. Come scrisse Piero Gobetti su «La Rivoluzione Liberale» il 17 giugno, l'assassinio di Matteotti era parte «di un piano raffinato che non può non essere dettato dall'alto .... Ci vuol un'intelligenza fredda e calcolatrice per scoprire l'avversario vero in Matteotti, l'oppositore più intelligente e più irriducibile tra i socialisti unitari. ... Nulla di fortuito dunque nel suo assassinio. Col cinismo della guerra civile si è voluto eliminare il capo di uno Stato Maggiore».
Poche settimane dopo, il 1º luglio, Gobetti pubblicò sulla rivista un profilo biografico di Matteotti, subito edito in un libro dalla sua casa editrice, e ora ripubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura. Il deputato assassinato era descritto come un eroe solitario nello stesso Partito socialista unitario, di cui era segretario generale, costituito alla vigilia della conquista fascista del potere dai riformisti che facevano capo a Filippo Turati.
Il giudizio di Gobetti
sui socialisti unitari era molto severo: nel saggio La rivoluzione
liberale Turati era accusato di «parlare attraverso i fiori della
retorica messianica un linguaggio reazionario. Il suo scetticismo
verso ogni organizzazione di forze, la sua fede nella diplomazia
giolittiana riuscirono in un momento storico solenne gravemente
diseducatori» per il proletariato, che «restava ormai inerte e
senza interesse verso l'esperimento riformista».
Invece Matteotti, dopo il suo assassinio, divenne per il giovane antifascista torinese un intransigente del «sovversivismo», un «aristocratico nello stile», «un socialista persecutore di socialisti» perché «guardiano della rettitudine politica e della resistenza dei caratteri», un «nemico delle sagre» perché organizzatore con «l'ossessione della semplicità, della chiarezza, della praticità», e, infine, come «un volontario della morte». Nel suo socialismo di intransigente solitario, Gobetti vedeva la forza morale di «una fede di stampo austero e pessimistico, nei valori di individualismo e di libertà». Lo stesso antifascismo di Matteotti, per Gobetti, era «una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo», che lo indusse, come segretario del partito, a «stroncare non appena se ne parlò ogni ipotesi collaborazionista della Confederazione del Lavoro».
Al di là dei tratti di carattere, si può discutere, come osserva giustamente Marco Scavino nella postfazione del Matteotti gobettiano, se il deputato socialista fosse stato come lo descriveva Gobetti «o se non si trattasse piuttosto dell'abile costruzione di un personaggio ad usum Gobetti, dotato di tutte le prerogative politiche e morali più care al giovane intellettuale torinese». In effetti, prima dell'assassinio, Gobetti aveva dedicato a Matteotti un accenno tutt'altro che elogiativo, in un articolo dell'8 marzo 1923, dove aveva scritto che come economista socialista, Matteotti, non aveva «più importanza che un articolista di giornale». Matteotti non era neppure menzionato nel saggio di Gobetti La rivoluzione liberale pubblicato nel marzo 1924.
Nel numero del 17 giugno de «La Rivoluzione Liberale», dove comparve il primo elogiativo commento gobettiano su Matteotti assassinato, Giovanni Ansaldo affermava che il discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio «non fu, a grammaticalmente parlare, un discorso eloquente, e del resto, l'on. Matteotti non pretende di essere un oratore. Ma esso fece effetto di un discorso eloquentissimo: le stesse interruzioni avversarie, l'accanimento della stampa ministeriale, tutto confermò questa impressione».
Dopo l'assassinio, Matteotti divenne per Gobetti la figura del martire che egli vagheggiava come modello per il suo antifascismo intransigente: «la generazione che noi dobbiamo creare», scriveva alla fine del suo profilo, «è proprio questa, dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta». Nel ritratto di Matteotti, in fondo Gobetti descriveva se stesso.
il Sole24ore – 8 giugno
2014
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