Walter Siti
La nostalgia
di Goethe per l’Italia immaginata
La terra dove fioriscono i limoni è l’Italia, e Goethe fece due viaggi in Italia - il primo durato quasi due anni, il secondo più breve. Ma i viaggi sono successivi alla prima redazione di questa poesia, qui il paesaggio è tutto sognato e filtrato, per dir così, da una nostalgia preventiva. Suo padre c’era andato e gli aveva parlato della Riviera ligure, nel 1775 lui stesso dal Gottardo era stato tentato di scendere ma s’era limitato a lanciare verso l’Italia uno “sguardo d’addio”.
La prima strofa fa
dell’Italia un paradiso terrestre, in cui fiori e frutti
coesistono nello stesso momento (la precisione botanica lo
spingerà poi a controllare questa particolarità degli agrumi),
in cui crescono la pianta sacra all’amore (il mirto) e quella
della gloria poetica (l’alloro); i colori sono accesi, “glûhn”
significa “splendono, brillano” ma il verbo riporta al senso
dell’ardere, del bruciare (“Glut” è la brace), come se
l’oro fiammeggiasse a contrasto col cupo delle foglie.
La seconda strofa
esalta l’Italia come patria dell’eleganza architettonica,
quando andrà a Vicenza sarà colpito dalla Rotonda di Palladio e
probabilmente aveva già visto dei disegni; per lui
l’architettura è il suggello di un felice equilibrio tra
natura e società.
La terza strofa
risale dal paradiso alla fatica necessaria per arrivarci,
attraverso la barriera delle Alpi; quelle le conosceva
personalmente, aveva visto nebbie e cascate. Se la pianura è il
simbolo dell’agognata armonia classica, la montagna è ancora
il luogo delle passioni disordinate, dell’orrido sublime che
dev’essere superato come una prova.
Se grandezza
significa infondere vita originale agli stereotipi, Goethe in
queste tre semplici strofe di ballata (ognuna di sei versi su
cinque accenti a rime baciate) ha drammatizzato, sotto il cliché
del desiderio per un luogo ameno, il proprio percorso culturale
di quegli anni - dallo slancio ribelle e disperato del
Werther e dello Sturm und Drang all’esigenza costruttiva e
matura di un’arte che sappia mediare tra sogno e realtà, tra
autorità e trasgressione.
Chi parla in prima persona nella poesia, domandando ansiosamente, non è Goethe: è la ragazzina nominata nel titolo, Mignon. Questa ballata apparve per la prima volta all’inizio del quarto capitolo della Vocazione teatrale di Wilhelm Meister, il romanzo composto da Goethe tra il 1777 e il 1785 e rimasto incompiuto; nel romanzo Mignon è una dodicenne che il protagonista compra da una compagnia di saltimbanchi italiani, che si veste da ragazzo e non conosce le proprie origini - strana, lunatica, a tratti infantile e a tratti pericolosamente seduttiva.
Parla a stento un
miscuglio di lingue, solo quando canta o danza è veramente
libera; questa ballata è la prima che lei canta
accompagnandosi con la cetra, in una lingua incerta tra italiano
e francese, e noi la leggiamo come Wilhelm l’ha tradotta. Certe
audacie linguistiche e una certa elementarità della struttura
(senza enjambements, un quadro per ogni strofa) sono mimetiche
dell’ingenuità selvaggia di Mignon.
Anche la domanda
posta con diffidente fiducia, e la credenza nei draghi, e l’idea
che le statue le rivolgano parole di compassione, tutto
appartiene alla ragazzina- personaggio. Che vede in Wilhelm il
suo rifugio, il suo padre ideale ma anche, ambiguamente, il suo
amato. Colei che sogna la classicità italiana è,
contraddittoriamente, il personaggio più torbido e misterioso
del romanzo - a testimonianza che in Goethe le opposizioni e le
vie d’uscita sono sempre complesse.
La ballata ritorna con lievi varianti negli Anni d’apprendistato , il romanzo che nel 1796 compie (ristrutturandolo e cambiandolo di segno) il primo Meister; in mezzo, oltre al viaggio in Italia, c’è stata la rivoluzione francese. Il bisogno d’ordine si è fatto più forte, il ritratto realistico e scapigliato d’una compagnia d’attori è diventato un romanzo iniziatico e massonico; Goethe rinnega l’ambiguità di Mignon: con una serie di agnizioni al limite del ridicolo apprendiamo che la bambina è figlia di un incesto e per di più il padre era un marchese fattosi monaco.
La famiglia viveva
sul lago Maggiore e la bambina abbandonata a se stessa si
rifugiava in una villa, da cui i saltimbanchi l’hanno rapita:
dunque la visione ha tutto lo strazio di un ricordo rimosso. Ma
si tratta di una razionalizzazione successiva, come è
perbenistica la morte di Mignon con la sua androginia trasformata
in asessualità angelica. La ballata ha una bellezza autonoma,
così l’hanno sentita i giganti che l’hanno musicata: da
Beethoven a Schumann a Schubert.
C’è la malinconia
di un paradiso perduto prima di conoscerlo, ma unita alla forza
di chi si appresta a conoscerlo e attraversarlo. Goethe è
maggiore di Wilhelm (e le sottili variazioni al refrain non sono
certo di una bambina). Negli Anni di peregrinazione , dove un
Goethe vecchio e deluso conclude la storia del suo antico
protagonista, questa ballata ritornerà a suscitare lacrime di
commozione, ormai nostalgia di una nostalgia.
La Repubblica – 15
giugno 2014
Nessun commento:
Posta un commento