Il Governo Renzi abolisce l'entrata gratuita nei musei degli over 65.
Mentre l'Italia sprofonda per le ruberie di una casta di politicanti
corrotti, si elimina una delle poche cose civili di questo Paese. D'altronde, cosa ci si poteva aspettare da questo Governo?
Tomaso Montanari
Fanfare
Una cosa bisogna
riconoscerla, a Dario Franceschini: ha il miglior ufficio stampa che
si sia mai visto ai Beni Culturali. Già, perché il ministro non si
limita a godere dell’effetto Renzi (quello per cui i massimi
quotidiani italiani si sono autoridotti a scendiletto del governo),
ma dimostra capacità di seduzione mediatica degne di un incantatore
di serpenti. Non si spiega altrimenti il coro unanimamente osannante
che ha annunciato una “rivoluzione nei musei italiani”.
La rivoluzione sarebbe
che è stato abolito l’ingresso gratuito per chi ha più di 65
anni. Come dire ai pensionati: “Rimanete ai giardinetti, per
favore”. La propaganda dice che quelle gratuità sono state ora
concesse ai minori di 18 anni: fosse davvero così si tratterebbe di
una singolare applicazione della rottamazione al diritto alla
cultura.
Ma almeno sarebbe una notizia: che però non esiste, visto i minorenni già entrano gratis in tutti i musei statali. E non è nemmeno vero che con quei soldi si faranno entrare gratis gli insegnanti (qualunque cosa insegnino): che è una cosa sacrosanta, ma già decisa da Maria Chiara Carrozza e Massimo Bray.
E DUNQUE dove vanno i soldi risparmiati con la norma escludi-pensionato? Nell’apertura gratuita della prima domenica del mese e in due “notti al museo” (con ingresso a un euro) all’anno: un po’ pochino per parlare di rivoluzione. Franceschini ha detto che così “si evita l’assurdità che anche facoltosi turisti stranieri over 65 non paghino il biglietto, come avviene oggi”.
Ma francamente togliere
un diritto a un quinto della popolazione nazionale (questi i numeri)
per sbarrare la strada a qualche milionario giapponese o americano
non pare proprio un’idea geniale. Dal 1° luglio chi ha la pensione
minima non potrà più nemmeno consolarsi esercitando davvero la sua
proprietà costituzionale di Michelangelo e Raffaello.
Se proprio Franceschini voleva recuperare soldi sugli ingressi, poteva seguire le indicazioni della Corte dei Conti, e ritirare la concessione ai grandi gruppi privati for profit che oggi intascano le percentuali sui biglietti dei grandi siti italiani.
Un ministro per i Beni culturali (specie se progressista) dovrebbe allargare, e non contrarre, il diritto alla cultura. Il gettito della bigliettazione rappresenta oggi circa il 13% del bilancio del patrimonio culturale pubblico: un bilancio che è stato letteralmente dimezzato da Bondi nel 2008. Se Franceschini facesse ciò che davvero dovrebbe fare, e tornassimo a una quota pre-Bondi (riavvicinandoci alla media europea) potremmo permetterci di non far pagare nessuno: e questa sì che sarebbe una rivoluzione.
Più in generale, la
politica degli annunci dei Beni Culturali meriterebbe un’osservazione
più stretta e severa. Nei corridoi del Mibac si sussurra che l’Art
Bonus sarà un colossale flop (per il primo anno si calcola che
arriveranno 5 milioni di euro: praticamente nulla). E sono interdetti
i direttori dei musei cui Franceschini ha scritto personalmente
annunciando l’accredito dei soldi dei loro biglietti: non hanno
nemmeno un conto in banca, né tantomeno l’autonomia di bilancio
per spenderli.
Se a questo aggiungiamo le recentissime e mediocrissime nomine nei comitati tecnico-scientifici (addirittura oscene quelle per la storia dell’arte) appare chiaro che la rivoluzione sta solo sui giornali. Purtroppo.
il Fatto – 21 giugno
2014
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