Dal blog di un mio carissimo amico, Fabrizio Trabona collaboratore di NUOVA BUSAMBRA, riprendo questo bel ritratto di un grande scrittore:
Isaac B. Singer: uno scrittore non una macchina da scrivere.
Chiunque abbia deciso, nel lontano 1978, di
dare il Nobel per la letteratura a Isaac Bashevis Singer ha compiuto un
atto di giustizia e vorrei spiegare il perché.
Sto
leggendo, in digitale, una ricca raccolta di racconti (oltre settecento
pagine) pubblicata nel 2013 da Corbaccio che ne ha selezionati
quarantasei da una vasta produzione di circa centocinquanta racconti
provenienti da varie raccolte pubblicate negli USA.
Scrivo adesso,
proprio mentre ne sto leggendo, per non perdere, una volta chiuso il
libro (o meglio: spento il dispositivo), quella sensazione di visitare
un mondo perduto da testimone silenzioso. Quasi fosse la realizzazione
del comune sogno infantile di diventare invisibili per potere visitare,
nascostamente, le case altrui, le vite altrui.
Tutta la produzione di Singer, un lavoro svolto nell’arco dei suoi ottantasette anni di vita, è in lingua yiddish[1].
La raccolta di cui parlo è una traduzione dall’americano in italiano; è
questo il caso, quindi, di un duplice tradimento della lingua
originaria dell’autore. Non è poco.
Va registrata, a tale proposito, nel
panorama italiano, una eccezione consolatoria, ed è il caso di Erri De
Luca, notoriamente studioso di ebraico, che ha pubblicato per
Feltrinelli, traducendolo direttamente dall’yiddish, “L’ultimo capitolo inedito de La famiglia Mushkat. La stazione di Bakhmatch”[2]. Si tratta, come da titolo, dell’ultimo capitolo di un romanzo di Isaac B. Singer mai pubblicato, nemmeno in americano, “per
volere dell’autore stesso, che lo riteneva adatto soltanto a un
pubblico yiddish e lo aveva fatto omettere dall’edizione principale in
inglese e da tutte le successive edizioni”, come si legge in quarta di copertina. Il secondo titolo, “La stazione di Bakhmatch”, è, invece, un racconto del fratello di Isaac, Israel J. Singer, anch’egli scrittore, che come dice De Luca “lo precedette nella nascita, nella carriera letteraria e nella morte”.
Comunque, a noi, non tocca bere
alla fonte e se di traduzione , o di tradimento, si tratta, ne godiamo
di nascosto, all’ombra, nei pomeriggi estivi.
Ci basti sapere che Singer, nato in Polonia
nel 1904, ed emigrato negli USA nel 1935, scampando allo sterminio messo
in atto dai nazisti a partire dal 1939 e che distrusse, insieme a
quegli uomini, la loro secolare cultura, non scrisse mai una riga in
americano pur essendo vissuto negli USA oltre cinquant’anni.
Fernanda Pivano dà testimonianza della grande popolarità di I.B. Singer nonostante lo yiddish (o forse grazie a quello): “Continuò
a scrivere in yiddish anche a New York, sia su un giornale locale sia
nei romanzi, che venivano tradotti in inglese recandogli un’enorme
doppia popolarità, quella tra i lettori in lingua inglese e quella tra i
tradizionalisti ebrei: una popolarità basata su contenuti etnici tali
da suscitare le nostalgie di molti e anche su un taglio tradizionale
tale da reincarnare gli ideali letterari dell’Ottocento”[3]
Uno degli strani racconti di Singer è, a mio avviso, una parabola di quell’ostinato attaccamento alla lingua-dialetto yiddish. “I piccoli ciabattini”
(è questo il titolo) è il racconto esemplificativo dell’ascesa e della
caduta di una famiglia di ciabattini proveniente da un piccolo centro
nel cuore della Polonia, Frampol. La lunga storia della famiglia,
saltando qualche generazione, giunge alla fase finale con la distruzione
del villaggio da parte della Lutwaffe, l’aviazione nazista, durante la
Seconda Guerra mondiale. La distruzione di Frampol avvenne, come di
fatto, nel 1939. Il capo famiglia, Abba, spinto dagli eventi tragici,
sarà l’ultimo ad emigrare verso gli USA. Lì i suoi figli avevano fatto
fortuna: erano diventati proprietari di un calzaturificio. Abba venne
accolto con affetto filiale, una grande festa venne data in suo onore,
lo sistemarono in un accogliente alloggio, insomma tutto il meglio ma il
povero vecchio andava indebolendosi a vista d’occhio. Nulla era come il
suo villaggio. Nemmeno le pratiche ortodosse della sua religione erano
assimilabili. Un giorno, al colmo della sua malattia, trovò in un
armadio i suoi vecchi attrezzi da ciabattino. Dedicandosi, come poté, a
riparare un vecchio paio di scarpe tornò lentamente alla vita.
Gli strumenti del lavoro, l’antico mestiere
praticato dalla famiglia lungo secoli, diventa così il simbolo
dell’origine remota, la zolla di terra ideale che cammina sotto i nostri
piedi, una terra che produce semi ovunque si vada, se solo la si
coltiva. Come l’antica lingua yiddish che Singer ha trasformato in un
albero dalle lunghe radici, un luogo con un’ombra antica, magari tradito
e tradotto, che emana ancora un profumo inconfondibile.
L’effetto delle rievocazioni di Singer ha
sul lettore un effetto immediato. Come è possibile, mi chiedo,
nonostante le storie raccontate il più delle volte parlino di una
cultura che mi è del tutto estranea (riti talmudici, cabbala,
demoni, finanche folklore), che quel profumo lì riesca a sentirlo
anch’io, ad una cosi profonda distanza temporale, climatica e culturale ?
E’ il segreto eterno della scrittura. Singer
stesso cerca di darne una chiave di lettura, sicuramente insufficiente,
per comprendere:
“In generale, la narrativa
non dovrebbe mai diventare analitica. Difatti, chi la scrive non
dovrebbe neppure provare a infilarsi nella psicologia e nei suoi vari
«ismi». La letteratura vera informa mentre intrattiene. Riesce a essere
al contempo chiara e profonda. Ha il magico potere di mescolare causa e
scopo, dubbio e fede, le passioni della carne con gli struggimenti
dell’anima.” [4]
La letteratura, mentre narra, non
spiega se stessa, il racconto è il fine, non il mezzo. Taglia corto
Singer, si potrà anche non essere d’accordo ma i risultati parlano da
soli : “La troppa ansia di trasmettere
messaggi ha fatto dimenticare a molti scrittori che è il raccontare la
raison d’être della prosa artistica.”
Qual è
dunque il segreto che ci fa amare quella scrittura? Va trovato in quelle
storie in cui non c’è una separazione tra terreno e ultraterreno, in
cui uomini e demoni convivono in una stessa dimensione, in cui la
ricerca filosofica si intreccia con una prostata sofferente, in cui la
tenerezza salvifica convive con l’inspiegabilità della follia. Un
fattore, quest’ultimo, che sembra contraddistinguere, però, soltanto i
racconti di ambientazione americana. I racconti di Singer sono infatti
ripartiti tra la Polonia e gli USA ed è qui che gli uomini vivono da
alienati, in senso clinico.
Singer segna così, mi pare, la
distanza di una scrittura non assorbita dal contesto profondo
dell’ambiente in cui si sviluppa e alla domanda “(…) in che consiste l’<<l’americanità>> dello scrittore americano ebreo?”[5] l’autore della domanda che ha analizzato a lungo i vari aspetti dell’ebraicità risponde: “E’ minima, è quasi inesistente nel caso di Singer, sarei tentato di dire : un’<<l’americanità>> di grado zero (…)”
Non lo
sapevo, ma adesso so che anche questo elemento, inconsapevolmente
avvertito, è probabilmente una delle ragioni per cui sto amando Singer.
Fabrizio Trabona
http://rosso-malpelo0.blog.kataweb.it/
[1] Ricordiamo
a noi stessi che tipo di lingua sia l’yiddish. Informandoci su
Treccani.it completiamo il quadro delle scarse informazioni in nostro
possesso: “Lingua degli Ebrei ashkenaziti, nata intorno al 10° sec., quando Ebrei provenienti dallaFrancia e dall’Italia settentrionale si stabilirono in Renania. Il termine deriva dal ted. jiddish, alterazione dell’aggettivo jüdisch «giudeo». Si diffuse in vaste aree dell’Europa centrale e orientale. Prima della Seconda guerra mondiale,
era parlato in Europa, negli USA, nell’America Meridionale, da una
popolazione di circa 11 milioni di individui. In seguito alla Shoah e
poi all’assimilazione, sia volontaria (in Israele o negli USA), sia forzata (come è stata in URSS), lo y. è minacciato di estinzione.
[2] Isaac B. Singer, L’ultimo capitolo inedito della famiglia Mushkat, (Introduzione e traduzione di Erri De Luca), Feltrinelli, 2013.
[3] Fernanda Pivano, Viaggio americano, (“La mitologia ebraica d’America: Issac Bashevis Singer” - Corriere della Sera 26/07/1991), Bompiani, 2010.
Sull'ultimo numero della rivista NUOVA BUSAMBRA potete leggere un bel pezzo dello stesso Fabrizio sui tanti muri che ancora ci sono da abbattere nel "migliore dei mondi possibili"!
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