Eleanor Marx
Il comunismo, il
rapporto con Engels, gli amori sfortunati, la militanza e il
suicidio. In una biografia uscita in Inghilterra la storia di Eleanor
Marx, detta “Tussy”
Siegmund Ginzberg
Mio padre si
chiamava Karl Marx
Poco prima delle 10 del
31 marzo 1898, Eleanor Marx, allora poco più che quarantenne, inviò
la fedele cameriera Gertrude in farmacia a comprare del cloroformio e
una piccola quantità di acido di cianuro. “Per un cane”, aveva
scritto nel bigliettino indirizzato al farmacista. La trovarono
morta, vestita con un abito tutto bianco fuori stagione. Sulla
scrivania dello studio c’erano i giornali con deprimenti notizie
sugli scandali di corruzione in tutta Europa, che lambivano anche la
sinistra, la corrispondenza con il sindacato dei minatori e
altri esponenti socialisti.
C’erano poi le bozze di Valore, prezzo e profitto , l’opuscolo del padre che lei aveva scoperto e si accingeva a pubblicare con una propria prefazione (“da Sonnenschein, che è un ladro, ma tutti gli altri editori con cui ho provato non l’hanno voluto”), e i lavori preparatori per una biografia del padre che non era mai riuscita a completare. “Tutto sommato Marx il politico (Politiker) e il pensatore (Denker) possono andare, ma dal punto di vista umano forse un po’ meno” aveva scritto alla sorella maggiore Laura. Era stato durissimo per lei scoprire che Freddy, il figlio della cameriera di sua madre, Helene Demuth, era invece figlio di Karl Marx.
“Eleanor, non sposata, suicidio per ingestione di cianuro, sotto stress mentale”, scrisse il medico legale. In realtà non era “single” ma aveva convissuto per quasi vent’anni con Edward Aveling, mantenendo la sua vita dispendiosa e tollerando le sue continue scappatelle. Lui era già sposato, ma non le aveva mai detto che la prima moglie era deceduta da tempo e lui aveva incassato e sperperato l’eredità. Solo il giorno prima del suicidio lui le aveva confermato quello che già tutti gli altri sapevano, che si era risposato un’altra volta ancora, in segreto, con un’attricetta. Lei finalmente lo aveva diseredato in extremis, ma il codicillo era stato fatto sparire. Si disse dallo stesso Aveling, che aveva frugato tra le sue carte in presenza del cadavere. Anzi, corse voce che addirittura fosse stato lui ad assassinarla. Lui morì l’anno seguente, dopo aver sperperato in pochi mesi anche l’ingente patrimonio che lei aveva ereditato dal suo “secondo padre”, il “vecchio generale” come lo chiamavano in famiglia, Friedrich Engels.
La stampa si buttò a pesce sulla notizia. Scrissero che era la dimostrazione del fallimento morale dello stile di vita del “libero amore” socialista. Scrissero che lei si era suicidata perché lui aveva deciso di tornare a vivere con la prima moglie e i figli e voleva imporle un mènage a tre. Questo era pura invenzione, la prima moglie era morta da tempo. A prendere le difese del “buon nome” del socialismo fu Eduard Bernstein, il leader riformista e “revisionista” della socialdemocrazia tedesca. Scrisse un opuscolo sull’“enigma psicologico” di una donna in preda ad un “malessere morale”, simile a quello di “ Frau Alving”, la protagonista degli Spettri di Ibsen.
Quello della figlia più piccola e preferita (“Tussy - questo il nomignolo di Eleanor - è me” soleva dire il vecchio Karl) non fu l’unico suicidio in casa Marx. Anni dopo, nel 1911, si sarebbero uccisi anche Laura e il marito parlamentare Paul Lafargue, iniettandosi cianuro nelle vene. Ma erano ormai vecchi (si avvicinavano alla settantina) e malati, è un caso diverso, la si potrebbe definire auto-eutanasia. Quella volta, a difendere la loro scelta, al posto di Bernstein, fu Lenin. In modo alquanto agghiacciante: “Comprensibile quando si sente di non poter più lavorare per la rivoluzione”.
Ma certo i grandi
padri spesso sono ingombranti. Sigmund Freud non era stato un modello
di padre, anche se 4 delle sue 5 sorelle non morirono suicide ma nei
campi nazisti. Gandhi era stato un pessimo padre e marito. Il figlio
di Einstein, Eduard, morì in manicomio. Per non parlare dei
figli che Mao abbandonò durante la Lunga marcia e di Svetlana,
figlia di madre suicida, che per sottrarsi al padre Stalin dovette
scappare in America.
Eppure Eleanor non era affatto una donna sprovveduta. Era la più intellettuale e politicamente attiva della sorelle Marx. Era una femminista combattiva in un’epoca in cui le donne non avevano accesso né al voto né agli studi. È sua la prima traduzione in inglese di Madame Bovary e la messa in scena di diversi dei drammi di Ibsen (fu lei a recitare Nora alla prima londinese di Casa di bambola ). Come il padre adorava Shakespeare e Balzac. Ancora adolescente scriveva lunghe lettere di “consigli politici” ad Abraham Lincoln (che Marx naturalmente si guardava bene dallo spedire).
Assieme ad Aveling aveva
scritto un libro sul “Socialismo di Shelley” e partecipava a
tutte le iniziative sindacali e politiche in tutta Europa. Aveva
fatto da segretaria e assistente di ricerca del padre. Alla morte di
Engels fu lei a tentare di trascrivere il Quarto libro del Capitale e
mettere insieme il suo carteggio. Fu lei a recuperare l’ebraismo
con cui il padre aveva chiuso con la giovanile Questione ebraica
rivendicando con orgoglio le proprie origini e mettendosi addirittura
a studiare lo yiddish: “Mio padre era ebreo …la lingua degli
ebrei ce l’ho nel sangue… in famiglia dicono che assomiglio a mia
nonna paterna, che era figlia di un dotto rabbino”. Lasciando
perdere il fatto che la nonna si era arrabbiata moltissimo quando
Karl aveva deciso di sposare l’aristocratica prussiana Jenny Von
Westphalen, anziché una brava ragazza ebrea.
È fresco di stampa Eleanor Marx. A Life di Rachel Holmes (già autrice di successo di una biografia della Venere Ottentotta), pubblicata per i tipi di Bloomsbury. Mi sono chiesto anch’io se servisse un nuovo libro sull’argomento dopo The Life of Eleanor Marx: A Socialist Tragedy di Chusichi Tsuzuki (1967) e il monumentale lavoro di Yvonne Kapp (1972). Ebbene, è diverso. Un’interpretazione più “moderna”, se così si può dire, più rispondente forse ai gusti dell’epoca dei pettegolezzi da tabloid, dei sitcom, reality e teleromanzi, anche se fondati su ricerche meticolose nelle lettere, nei diari e nei “sentiti dire” dei protagonisti.
L’autrice confessa di
sperare che possa essere trascinato dal successo editoriale del
Capitale nel X-XI secolo di Piketty (80.000 copie solo nelle prime
settimane, mentre il primo libro di Das Kapital nel 1867 aveva
trovato pochissimi lettori). Glielo auguriamo. Anche Il Capitale di
Marx era, a modo suo, un romanzo. La struggente telenovela su Eleanor
tocca tasti ancora più universalmente umani.
La Repubblica – 14
giugno 2014
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