16 giugno 2014

PRIMO LEVI MORTO DUE VOLTE



  Un italiano poco “italiano”.
Martin Amis

Primo Levi lo scrittore morto due volte  
La prosa di Primo Levi, uno dei più illustri figli di Torino, esemplifica le virtù della moderazione, della finezza di intuito e della temperanza intrinseche dell’animo piemontese; possiede «una qualità tesa, rigorosa, distillata», per citare le parole dello storico Tony Judt, che prosegue: «In contrasto con lo stile sintatticamente involuto, sperimentale, florido di alcuni dei suoi contemporanei e commentatori, [quello di Primo Levi] ha il fascino di un cantofermo medievale».
E come uomo fu sempre fedele ai sobri principi della vostra bellissima città: mai cedere, il dovere fino alla morte e, più familiarmente, non fare il passo più lungo della gamba . Cito qui un altro detto torinese: Esageruma nen.

Non esageriamo ? Non mi pare un motto tipicamente italiano; ma, pur con una certa cautela, si potrebbe affermare che i torinesi siano i Protestanti, perfino i Puritani, d’Italia; sono misurati, laconici, onesti e succinti. Nel suo libro Il sistema periodico Levi dipinse così i suoi antenati: «Le vicende che loro vengono attribuite, per quanto assai varie, hanno in comune un qualcosa di statico, un atteggiamento di dignitosa astensione, di volontaria (o accettata) relegazione al margine del gran fiume della vita ».

Tuttavia, malgrado il suo riserbo Levi rimane un narratore insolitamente intimo. La sua è un’intimità che si tiene a una certa distanza; è decorosa; è giusta. Come si sa, Primo Levi aderì alla resistenza partigiana antifascista durante la guerra; fu catturato nel dicembre del 1943 e, due mesi più tardi, fu deportato a Auschwitz. Dei 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo, solo 20 fecero ritorno alle loro case. Ricordiamo anche che Levi intitolò la sua ultima meditazione sui campi di sterminio I sommersi e i salvati . E così non possiamo che porci domande inevitabili e spiacevoli. Quale fu la differenza, la differenza come esseri umani, tra coloro che furono sommersi e coloro che non lo furono? Cosa bisognava avere per sopravvivere?

Ciò che era necessario avere si può riassumere succintamente così: fortuna, un’abilità ad adattarsi immediatamente e in modo assoluto; il dono di passare inosservati; solidarietà nei confronti di un altro individuo o di un gruppo; la salvaguardia del decoro (come disse un prigioniero, «coloro che non avevano saldi principi cui attenersi generalmente soccombevano», malgrado avessero lottato spietatamente per la sopravvivenza); il nutrire costantemente la convinzione della propria innocenza (requisito essenziale e ripetuto con enfasi da Solgenitsyn in Arcipelago Gulag ); l’essere immune alla disperazione; e, di nuovo, fortuna, grande, grandissima fortuna.

Dopo aver fatto nostre le opere di Primo Levi e le testimonianze di molti altri sopravvissuti, con il loro stoicismo e la loro eloquenza, con la loro saggezza gnomica, il loro umorismo, la poesia e quel livello di percezione sempre costantemente alto, si può ancora suggerire un desideratum. In una condanna definitiva dell’idea nazista, questi “subumani” si rivelano essere il fior fiore del genere umano. E quella ricca, delicata, sensibilità percettiva (quanto ci sorprende questo fatto?) non costituì un ostacolo ma bensì una forza.

Assieme a un rifiuto quasi unanime della vendetta (e a un rifiuto completamente unanime del perdono), i testimoni hanno qualcosa d’altro in comune. Una corrente subliminale di colpevolezza, la sensazione che, mentre loro si sono salvati, qualcun altro più degno, qualcuno “migliore” sia stato tragicamente sommerso. Ma è una magnanima illusione: con il dovuto rispetto per tutti, nessuno avrebbe potuto essere migliore. E questo si riferisce in particolare a Primo Levi.

È anche risaputo che Levi non sopravvisse fino alla fine. Nel 1987, a tre mesi dal suo sessantottesimo compleanno, si uccise gettandosi nella tromba delle scale della sua abitazione di Torino. Per me, e penso per molte persone, certamente in Inghilterra e in America, questo fu un momento in cui il suicidio, ciò che i Romani chiamavano felo de se (“fellonia su se stessi”), si staccò da ogni censura morale in modo netto e decisivo.

Forse è stato, ed è, diverso qui in Italia. Forse qualcuno di voi avrà già sentito quanto sostenuto un secolo fa dal saggista e romanziere inglese G. K. Chesterton: il suicidio è un’impresa ben più ardua dell’omicidio; l’uomo che uccide un uomo, uccide un uomo, mentre l’uomo che uccide se stesso uccide tutti gli uomini.

Anche Vladimir Nabokov fece la stessa considerazione in modo molto più artistico nel suo romanzo breve L’Occhio (1930). Qui Smurov, il narratore umiliato oltre ogni speranza, sistema le proprie faccende: «Ho visto ora quanto fossero convenzionali le mie vecchie idee sui preparativi pre-suicidio; un uomo che ha optato per l’autodistruzione è ben lungi dalle faccende banali e sedersi a scrivere il proprio testamento sarebbe, in quel momento, un atto equiparabile in assurdità a quello di caricare l’orologio, poiché, insieme all’uomo, l’intero mondo viene distrutto; l’ultima lettera si riduce istantaneamente in polvere e, con essa, tutti i postini; e come il fumo, svanisce tutto ciò che era destinato a una progenie inesistente».
“Tutti i postini”: questo è il genio. Ma penso che Nabokov avrebbe ammesso che il suicidio può in qualche modo sottrarsi al nostro giudizio. Le punizioni e gli anatemi del passato si stanno estinguendo - i cumuli di pietra ad indicare le tombe in terra sconsacrata, i cadaveri profanati. Perché trafiggerli con un palo nel cuore quando, come ben sapeva James Joyce, i loro cuori sono già stati spezzati?

«Primo Levi era morto ad Auschwitz quarant’anni prima», ha affermato Eli Wiesel, anch’egli scrittore e sopravvissuto all’Olocausto. Bene, i commentatori sono discordi sulla questione. Come disse Cesare Pavese, un altro figlio di Torino (un altro genio, un altro autodistruttore), «non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi »; e la situazione in cui si trovava Levi non mancava certo di buone ragioni, tra le quali una profonda depressione. «Sto peggio di quando ero ad Auschwitz », disse a un amico; come sappiamo, i piemontesi non esagerano mai, e penso che possiamo prenderlo in parola.

Lasciatemi aggiungere questo pensiero, o questa speranza. Durante gli anni trascorsi ad Auschwitz- Birkenau-Monowitz, Levi avrebbe potuto morire in qualsiasi momento; la sua vita non valeva proprio nulla. Forse nel suo atto di autodistruzione, Levi volle affermare qualche cosa. Qualcosa come: La vita è mia, e spetta solo a me il diritto di togliermela. Nella morte di Primo Levi percepisco una sfida, e io lo onoro.

Ecco un’altra ragione per trarre conforto. Mi pare che la moderna scienza medica abbia gettato una sorta di maledizione sulla vocazione letteraria. Charles Dickens morì a cinquantotto anni, Shakespeare a cinquantré, Jane Austen a quarantadue, Charlotte Brontë a trentanove, Percy Shelley a trenta, John Keats a ventisei. Tuttavia ai giorni nostri gli scrittori tirano avanti fino a ottant’anni e oltrepassano anche i novanta. Il risultato è che muoiono due volte: muoiono quando muore il loro talento (come più o meno inevitabilmente accade), e muoiono ancora quando anche il loro corpo muore.

Come tutti gli scrittori che si avvicinano ai settant’anni, Levi non pensava certo che le sue opere migliori dovessero ancora arrivare. Forse anche questa fu una buona e pressante ragione. Muoiono due volte. Fortunatamente, però, l’estinzione non è sempre definitiva. Nel Ghetto di Varsavia c’era un dottore che condusse uno studio scientifico sul processo che porta alla morte per inedia: si trovava nel posto ideale per farlo. Nascose le sue scoperte in un thermos e, dopo aver ripiegato il manoscritto, scrisse cinque parole: cinque parole che dovrebbero essere incise sulla lapide di tutti gli scrittori. Non tutto di me morirà . I libri rimangono, continuano a vivere. Nel caso di Primo Levi, il corpo fisico può essersene andato, ma il corpus dello scrittore è pronto per l’immortalità.

(Traduzione Giuliana Dorrity)

La Repubblica – 13 giugno 2014


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