Gli
esami come rito di passaggio. Ma a differenza del mondo tribale, oggi
si vive soli, senza il supporto del gruppo. Da qui il riemergere
ciclico dell'insicurezza e dell'angoscia, sintomi di una mancanza di
senso che il “primitivo” aveva esorcizzato una volta per tutte
con il rito.
Massimo Recalcati
L’incubo della
maturità l’esame che non finisce mai
La febbrile attesa della
vigilia, il sonno agitato, l’angoscia di prestazione, l’attesa
opprimente dei genitori, il volto severo dei commissari, la
ripetizione dei programmi a voce alta recitata come un mantra, la
febbrile attesa della vigilia, le fantasie di annebbiamenti e
smarrimenti clamorosi durante il colloquio, la sfrontatezza temeraria
del bluff o la memorizzazione disciplinata e compulsiva, il calcolo
ansioso dei giorni, la liberazione finale.
L’esame di maturità e
il suo corteo di ricordi continua a riapparire per molti nei sogni,
spesso nella forma dell’incubo. Esso tende a diventare la matrice
di tutte le prove, di tutte le verifiche, di tutti i giudizi,
assumendo l’aura epica dell’esame degli esami. L’esame di
maturità ha delle gambe e ci insegue. Perché avviene? Perché è un
uscio che si apre su di una terra ignota, perché sancisce la fine
del mondo del figlio-studente e l’inizio del tempo delle scelte che
faranno il nostro destino.
Il problema è che questa apertura non è mai automatica: esige una prova soggettiva. Dobbiamo prendere la parola in prima persona di fronte all’Altro. Si tratta di prendere la parola in prima persona di fronte a un Altro che esprimerà su di noi un giudizio definitivo immodificabile. In numeri che si scolpiranno nei nostri curriculum vitae e nella nostra memoria. In questo esame si è tenuti a parlare rompendo lo specchio dell’uno a uno a cui si era abituati nelle verifiche in classe. Si parla per la prima volta a una Commissione in una sessione aperta al pubblico. Si prende la parola pubblicamente.
Ecco la prova più
difficile: sono davvero autorizzato (e da chi?) a parlare a mio nome?
Sappiamo come i bambini nelle scuole si prodighino per compiacere (o
deludere) le attese dei loro genitori e delle loro maestre. Non
parlano mai in prima persona, non parlano per sostenere un proprio
discorso, ma innanzitutto per rispondere al discorso dell’Altro.
Con l’avvento
dell’adolescenza questo schema si rompe clamorosamente perché la
giovinezza separa il soggetto dal recinto familiare e lo spalanca al
mondo. La mia soddisfazione non coincide più con quella dell’Altro,
ma esige una sua misura singolare. Nell’esame di maturità si
conclude allora un primo tempo della formazione: la certezza della
terra dell’infanzia finisce e inizia l’instabilità avventurosa
del mare.
Gli psicoanalisti conoscono bene l’importanza talvolta drammatica di questo passaggio. Lacan lo ha teorizzato con rigore: ogni qualvolta il soggetto è chiamato a rispondere con la propria parola a un appello simbolico dell’Altro — accade anche con la chiamata alle armi, con un matrimonio, con il parto, con una nomina professionalmente rilevante — c’è sempre il rischio di cadere, di frantumarsi come avviene nel caso delle scompensazioni psicotiche. Il soggetto chiamato a parlare in prima persona non sopporta il peso della prova e crolla.
Ecco perché tutti coloro
che non sono crollati, restano tuttavia sempre un po’ legati a
quella esperienza riproducendola nei propri sogni. Questo significa
che in ogni prova c’è sempre il rischio de crollo, come
dell’ebbrezza della libertà. Senza l’appoggio dell’Altro la
nostra parola è, insieme, una esperienza di angoscia e di libertà.
Questa è la vera posta in gioco dell’esame degli esami. La prova
non consiste nel parlare di fronte ad una commissione, ma nel fare
esperienza che nessuno può sostituirci, che, nel momento in cui ci
assumiamo la responsabilità della parola, nessuno potrà prendere il
nostro posto.
Ricordo il volto disorientato di un’allieva che chiamata alla cattedra dalla commissione per sostenere il colloquio d’esame volse il suo sguardo all’amica del cuore chiedendole teneramente: «Vieni anche tu?». Impossibile: la prova della maturità ci separa dai nostri appoggi abituali e ci espone al rischio del fallimento. Nessuno può parlare al nostro posto, nessuno può venire al nostro fianco a tenerci a mano.
Ecco un’altra verità
palesarsi: non siamo forse tutti sempre insufficienti, impreparati,
immaturi, per affrontare la prova della vita? Com’è possibile
allora farcela, “passare”, essere promossi, superare l’esame?
Ogni volta che nei nostri sogni ripetiamo l’angoscia della
“maturità” ritorniamo su questa insufficienza,
sull’impossibilità di superare una volta per sempre,
definitivamente, la prova della vita. Niente e nessuno potrà mai
garantire l’esito della mia parola. riuscirò a dire quello che so,
sarò convincente, credibile, capace di trasmettere qualcosa della
mia vita?
Non esiste alcuna
commissione in grido di giudicare la nostra maturità. Perché se
davvero esistesse saremmo in realtà tutti più tranquilli e meno
angosciati. La vera angoscia è sempre nei confronti della nostra
libertà e del nostro desiderio.
È l’inesistenza di questa commissione, non la sua esistenza, che ci angoscia profondamente e che ci sospinge ogni volta a farla esistere nuovamente nei nostri incubi! Il mistero più profondo di ogni processo e di ogni giudizio — come ha mostrato in modo insuperabile Kafka — è che non esiste alcun tribunale in grado di assolverci o condannarci.
È per questo che gli
esseri umani non cessano di proiettare in cielo e in terra tribunali
di ogni genere capaci di emettere un verdetto definitivo sul senso
della loro esistenza. Anche il timore (anti-cristiano) di Dio sorge
da questa proiezione. Eppure questo timore — come il timore di ogni
giudizio emesso dall’Altro — è in realtà un rifugio di fronte
alla ben più cruda e difficile constatazione che siamo, come diceva
Sartre, «soli e senza scuse».
La Repubblica 17.06.14
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