17 giugno 2014

GLI ESAMI NON FINISCONO MAI







Gli esami come rito di passaggio. Ma a differenza del mondo tribale, oggi si vive soli, senza il supporto del gruppo. Da qui il riemergere ciclico dell'insicurezza e dell'angoscia, sintomi di una mancanza di senso che il “primitivo” aveva esorcizzato una volta per tutte con il rito.

Massimo Recalcati
L’incubo della maturità l’esame che non finisce mai

La febbrile attesa della vigilia, il sonno agitato, l’angoscia di prestazione, l’attesa opprimente dei genitori, il volto severo dei commissari, la ripetizione dei programmi a voce alta recitata come un mantra, la febbrile attesa della vigilia, le fantasie di annebbiamenti e smarrimenti clamorosi durante il colloquio, la sfrontatezza temeraria del bluff o la memorizzazione disciplinata e compulsiva, il calcolo ansioso dei giorni, la liberazione finale.

L’esame di maturità e il suo corteo di ricordi continua a riapparire per molti nei sogni, spesso nella forma dell’incubo. Esso tende a diventare la matrice di tutte le prove, di tutte le verifiche, di tutti i giudizi, assumendo l’aura epica dell’esame degli esami. L’esame di maturità ha delle gambe e ci insegue. Perché avviene? Perché è un uscio che si apre su di una terra ignota, perché sancisce la fine del mondo del figlio-studente e l’inizio del tempo delle scelte che faranno il nostro destino.

Il problema è che questa apertura non è mai automatica: esige una prova soggettiva. Dobbiamo prendere la parola in prima persona di fronte all’Altro. Si tratta di prendere la parola in prima persona di fronte a un Altro che esprimerà su di noi un giudizio definitivo immodificabile. In numeri che si scolpiranno nei nostri curriculum vitae e nella nostra memoria. In questo esame si è tenuti a parlare rompendo lo specchio dell’uno a uno a cui si era abituati nelle verifiche in classe. Si parla per la prima volta a una Commissione in una sessione aperta al pubblico. Si prende la parola pubblicamente.

Ecco la prova più difficile: sono davvero autorizzato (e da chi?) a parlare a mio nome? Sappiamo come i bambini nelle scuole si prodighino per compiacere (o deludere) le attese dei loro genitori e delle loro maestre. Non parlano mai in prima persona, non parlano per sostenere un proprio discorso, ma innanzitutto per rispondere al discorso dell’Altro.

Con l’avvento dell’adolescenza questo schema si rompe clamorosamente perché la giovinezza separa il soggetto dal recinto familiare e lo spalanca al mondo. La mia soddisfazione non coincide più con quella dell’Altro, ma esige una sua misura singolare. Nell’esame di maturità si conclude allora un primo tempo della formazione: la certezza della terra dell’infanzia finisce e inizia l’instabilità avventurosa del mare.

Gli psicoanalisti conoscono bene l’importanza talvolta drammatica di questo passaggio. Lacan lo ha teorizzato con rigore: ogni qualvolta il soggetto è chiamato a rispondere con la propria parola a un appello simbolico dell’Altro — accade anche con la chiamata alle armi, con un matrimonio, con il parto, con una nomina professionalmente rilevante — c’è sempre il rischio di cadere, di frantumarsi come avviene nel caso delle scompensazioni psicotiche. Il soggetto chiamato a parlare in prima persona non sopporta il peso della prova e crolla.

Ecco perché tutti coloro che non sono crollati, restano tuttavia sempre un po’ legati a quella esperienza riproducendola nei propri sogni. Questo significa che in ogni prova c’è sempre il rischio de crollo, come dell’ebbrezza della libertà. Senza l’appoggio dell’Altro la nostra parola è, insieme, una esperienza di angoscia e di libertà. Questa è la vera posta in gioco dell’esame degli esami. La prova non consiste nel parlare di fronte ad una commissione, ma nel fare esperienza che nessuno può sostituirci, che, nel momento in cui ci assumiamo la responsabilità della parola, nessuno potrà prendere il nostro posto.

Ricordo il volto disorientato di un’allieva che chiamata alla cattedra dalla commissione per sostenere il colloquio d’esame volse il suo sguardo all’amica del cuore chiedendole teneramente: «Vieni anche tu?». Impossibile: la prova della maturità ci separa dai nostri appoggi abituali e ci espone al rischio del fallimento. Nessuno può parlare al nostro posto, nessuno può venire al nostro fianco a tenerci a mano.

Ecco un’altra verità palesarsi: non siamo forse tutti sempre insufficienti, impreparati, immaturi, per affrontare la prova della vita? Com’è possibile allora farcela, “passare”, essere promossi, superare l’esame? Ogni volta che nei nostri sogni ripetiamo l’angoscia della “maturità” ritorniamo su questa insufficienza, sull’impossibilità di superare una volta per sempre, definitivamente, la prova della vita. Niente e nessuno potrà mai garantire l’esito della mia parola. riuscirò a dire quello che so, sarò convincente, credibile, capace di trasmettere qualcosa della mia vita?

Non esiste alcuna commissione in grido di giudicare la nostra maturità. Perché se davvero esistesse saremmo in realtà tutti più tranquilli e meno angosciati. La vera angoscia è sempre nei confronti della nostra libertà e del nostro desiderio.

È l’inesistenza di questa commissione, non la sua esistenza, che ci angoscia profondamente e che ci sospinge ogni volta a farla esistere nuovamente nei nostri incubi! Il mistero più profondo di ogni processo e di ogni giudizio — come ha mostrato in modo insuperabile Kafka — è che non esiste alcun tribunale in grado di assolverci o condannarci.

È per questo che gli esseri umani non cessano di proiettare in cielo e in terra tribunali di ogni genere capaci di emettere un verdetto definitivo sul senso della loro esistenza. Anche il timore (anti-cristiano) di Dio sorge da questa proiezione. Eppure questo timore — come il timore di ogni giudizio emesso dall’Altro — è in realtà un rifugio di fronte alla ben più cruda e difficile constatazione che siamo, come diceva Sartre, «soli e senza scuse».

La Repubblica 17.06.14

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