13 giugno 2014

MARIA PIANGE DAVVERO...


Una mostra a Brera ripercorre la prima carriera di Giovanni Bellini, grande protagonista dell’arte rinascimentale italiana, attraverso il particolare angolo di visuale offerto dal suo modo di affrontare il tema del Cristo in pietà, che ricorre con frequenza nella produzione dell’artista e della sua efficientissima bottega. Fil rouge delle opere in mostra è il legame dell'artista con gli ambienti umanistici veneziani, attraverso i quali egli conobbe e sviluppò gradualmente la sua propensione per la rappresentazione degli affetti, della natura, del sentimento, della devozione e della commozione.

Armando Besio

Maria piange davvero e il tempo si ferma nella Pietà più bella 
La disperazione calma di Maria, che accosta la guancia a quella del figlio, in un estremo gesto di tenerezza. Lo sgomento di Giovanni, che volge verso l’immaginario spettatore il viso incorniciato da riccioli bellissimi e gli grida lo strazio per la morte dell’amico. In mezzo a loro Gesù, appena deposto dalla croce, non ancora collocato nel sepolcro. Il capo reclinato, le braccia abbandonate, le ferite dei chiodi dipinte non spietata nitidezza iperrealista. Avvolge la scena la morbida luce di un malinconico tramonto (è l’ora liturgica della Compieta) che «attenua e armonizza ogni tinta» (Longhi).

«È il più bello dei Cristi in Pietà» sosteneva nel 1908 il grande storico dell’arte francese Emile Male. Cent’anni dopo, 2008, il maestro americano della videoarte Bill Viola, commosso dalla mostra di Giovanni Bellini (1432-1516) alle Scuderie del Quirinale, affidava al quaderno dei visitatori queste parole: «Come sei riuscito a rappresentare il mondo fisico in un modo tanto preciso e realistico, e allo stesso tempo a inondarlo di tale forza spirituale? Sarei curioso di sapere se hai pianto mentre instillavi di lacrime gli occhi di Maria e di Giovanni».

La risposta è scritta in latino nel cartiglio dipinto sul bordo di marmo del sarcofago, sotto la mano di Gesù. È un distico ispirato alle Elegie di Properzio. Il soggetto della poesia originale (in mostra nel manoscritto veneziano nel 1453 aperto su questa pagina) è il lamento di un soldato per la morte di un compagno. La versione dettata a Bellini da un amico umanista (forse il triestino Raffaele Zovenzoni), tradotta dice (più o meno) così: «Mentre gli occhi gonfi di pianto quasi emettevano gemiti, quest’opera di Giovanni Bellini poteva piangere».

Intorno alla Pietà del Giambellino (il suo soprannome, popolare come il quartiere milanese cantato da Gaber), capolavoro della Pinacoteca di Brera, donato nel 1811 dal viceré francese Eugenio de Beauharnais (erano gli anni in cui Napoleone trasformava il piccolo museo nato nel ‘700 al servizio dell’Accademia nel “Louvre italiano”), la soprintendente Sandrina Bandera ha costruito una piccola, ma raffinata esposizione che ripercorre la storia del dipinto, ne indaga le fonti iconografiche, documenta il recente restauro e ricostruisce il contesto figurativo e culturale in cui sbocciò. ( Giovanni Bellini. La nascita della pittura devozionale umanistica, fino al 13 luglio, catalogo Skira).

Una mostra dalla genesi sofferta come il quadro. Neanche uno sponsor ha risposto al bando della Soprintendenza, che chiedeva solo 200mila euro. Intossicati dalle overdose di Kandinsky, Warhol e altri divi di facile consumo e sicuro incasso, i moderni mecenati hanno perso di vista la pittura antica. Ma all’antivigilia è intervenuta la Fondazione Cariplo evitando brutte figure coi prestatori.

Il percorso inizia con una Imago Pietatis greco-bizantina. Lo stile è ancora quello astratto geometrico delle icone che approdavano in Laguna dall’Oriente. Ma nel rigido prototipo si riconosce già uno slancio di affetto, il guancia a guancia tra madre e figlio che sarà ripreso da Bellini.

Altre “Pietà” del Rinascimento preparano l’epifania del capolavoro. Opere di Antonio Vivarini (occhio allo schema delle tre figure, lo stesso che sarà adottato da Bellini), Michele Giambono, Marco Zoppo, Carlo Crivelli. E Andrea Mantegna, che di Giovanni è cognato. Il confronto tra i parenti portenti del Rinascimento veneto è affascinante. C’è un periodo in cui i loro quadri quasi si somigliano. Tra Venezia e Padova, assorbono un sofisticato melting pot di culture: la pittura fiamminga, la letteratura umanistica, la passione per l’archeologia, la scultura di Donatello nell’Altare del Santo. Ma qui risaltano con nitidezza anche le differenze. Il tratto di Andrea è più solido, scultoreo, intellettuale. Quello di Giovanni più morbido, dolce, emotivo. «Più riposato, meno nervoso» (ancora Longhi, sempre efficacissimo).

Giovanni dipinge molte varianti della “Pietà”. Eccone alcune in mostra. Arrivano dal Palazzo Ducale di Venezia (l’espressionismo delle figure evoca i ferraresi), dal Correr (il modello è uno dei bassorilievi padovani di Donatello), da Rimini (sorreggono Gesù i quattro più simpatici angioletti della storia dell’arte), dalla Carrara di Bergamo (la smorfia di Maria ricorda quella dell’ Ecce Homo di Antonello), dai Musei Vaticani (strepitoso il gioco di mani tra Gesù e Maddalena che lo cosparge di unguento).

E finalmente, la “Pietà” più bella, la versione definitiva. «Una poesia silenziosa» secondo l’umanista Bartolomeo Faccio. Fu dipinta a tempera su doppia tavola di pioppo, non si sa per chi, né destinata a quale spazio: le misure relativamente abbondanti (87 x 109 cm) fanno pensare a una cappella piuttosto che alla devozione privata da camera. Prima di approdare a Brera, nel ‘700 era nella collezione bolognese Sampieri. La datazione è controversa, tra 1460 e 1470, quando Bellini, figlio e fratello di pittori (Jacopo e Gentile), inizia a imporre il suo talento a Venezia e diventa «famosissimo in orbe». Dürer, che lo incontrerà nel 1506 tra le calli, riconoscerà che sebbene «molto vecchio, è ancora il migliore di tutti».

Qualche notizia sul restauro, effettuato a Brera da Mariolina Olivari. L’ultimo che aveva messo mano sul dipinto era stato, nel 1864, Giuseppe Molteni, ottimo pittore milanese. Il quale, in un eccesso di zelo, non si era proibito di ritoccare l’originale. Liberato il quadro dalle vecchie vernici ingiallite, la Olivari ha ritrovato i piccoli tocchi di pennello di Molteni sulle spalle e perfino sui capezzoli di Gesù. Dopo la mostra, la “Pietà” di Bellini tornerà nella sua nuova collocazione nella Pinacoteca, dove chiude il corridoio dei pittori veneti del Rinascimento e introduce la sala allestita da Ermanno Olmi per il Cristo morto del Mantegna.

La Repubblica – 1 giugno 2014

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