Jervis contro il sentito dire
di Francesca Borrelli
Per quanto la formazione di un
intellettuale nato negli anni ‘30 sia tutt’altro che remota nel tempo,
l’eco dei suoi maestri sembra già oggi, e purtroppo, inassimilabile al
senso comune, come fosse un rumore di fondo più che un marcatore di
significato. E’ dunque con una certa avidità che si ripercorrono molte
della pagine dedicate ai ricordi che Giovanni Jervis trasse dal lavoro
di Ernesto De Martino, di Renato Panzieri, di Sebastiano Timpanaro, e
persino di uno psichiatra solo di poco più giovane di lui come Ronald
Laing, figure evocate in una collezione di scritti edita di recente con
il titolo Contro il sentito dire. Psicoanalisi, psichiatria e politica
(a cura di Massimo Marraffa, Bollati Boringhieri, pp. 280, euro 18,00).
Gli anni in cui Jervis terminava gli studi superiori e si orientava
verso la psichiatria furono anni cruciali: nel 1950 lo svizzero Roland
Khün aveva scoperto gli effetti antidepressivi dell’imipramina,
denunciando come fonti della sua fondamentale ricerca non tanto la
medicina quanto la filosofia di Heidegger e la riflessione
psicopatologica di Binswanger. Contemporaneamente alla corsa delle case
farmaceutiche verso i profitti dei rimedi psicotropi, si feceva strada
una concezione dei farmaci come sostanze relazionali, i cui effetti non
sono scindibili dalla funzione terapeutica della parola; ma sul fronte
delle istituzioni psichiatriche in cui Jervis andava maturando la sua
professione si combatteva ancora per restituire ai pazienti la dignità
del loro mondo interiore, negata dalla prassi di quel riduzionismo
medico che sarebbe diventato il bersaglio delle battaglie psichiatriche
più illuminate.
Non c’è dubbio che nella formazione di
Jervis abbia contato di più l’eredità della generazione di Sartre e di
Merleau-Ponty, impegnata in una militante ricerca del senso, che non il
contagio dello strutturalismo applicato da Lévi-Strauss alle società e
da Lacan all’incoscio, quella rottura del pensiero che dimostrò – ha
ricordato Foucault in una intervista del 1966 – come il senso fosse solo
“una specie di effetto di superficie, un luccichio, una schiuma – e che
quello che ci attraversava nel profondo, quello che era prima di noi,
quello che ci sosteneva nel tempo e nello spazio era il sistema… un
insieme di relazioni che si mantengono, si trasformano,
indipendentemente dalle cose che esse legano”.
Presente nel consiglio editoriale della
Einaudi dal 1964 al 1970, Jervis contribuì allo svecchiamento di un
panorama culturale che risentiva ancora dell’ipoteca del fascismo, e fu
anche grazie ai suoi suggerimenti se si pubblicarono autori oggi
classici ma allora sconosciuti in Italia: Eugene Minkowski, tra gli
altri, ma anche Paul Ricoeur, del quale nel 1965 era uscito in Francia De l’interpetation. Essai sur Freud.
A quell’epoca Giovanni Jervis aveva già alle spalle la collaborazione
illuminante con Ernesto De Martino, che aveva richiesto le sue
competenze psichiatriche per gli studi che andava svolgendo nel Salento
sul tarantismo, un rito di possessione al quale si accompagnano vissuti
della fine del mondo che l’antropologo intendeva indagare anche da un
punto di vista psicopatologico. Il contributo di Jervis, tuttavia, si
risolse soprattutto nel distogliere De Martino dal rischio di proiettare
nella mente di persone affette da disturbi psichici quei temi culturali
“che sono nostri e non loro”. Toccava dunque a uno psichiatra ammonire
sulle pretese ermeneutiche di una determinata concezione culturale che
pretendeva di rendere conto anche di alcune forme di disorganizzazioni
psichiche, laddove a suo tempo erano stati antropologi come Boas e
Malinovsky a segnalare le pretese universalizzanti della psicoanalisi
freudiana. Tuttavia, dalla collaborazione con De Martino – da
quell’etnocentrismo critico che rivendicava, sebbene con umiltà, le
proprie ascendenza illuministiche come irrinunciabile punto di partenza
culturale dal quale cercare di capire gli altri – Jervis trasse lezioni
fondamentali, nonché le basi della sua idiosincrasia per il relativismo.
Quel relativismo che suggerisce come i principi dell’etica civile siano
variabili a seconda dei diversi ambienti e delle differenti culture, e
che nella sua versione postmoderna pretende che non esistano vere
conoscenze ma solo punti di vista, e che tutti i giudizi siano niente
altro se non opinioni: un modo di vedere di cui Jervis sottolineava
giustamente il disimpegnato qualunquismo travestito da malintesa
tolleranza, e ben sposato con forme di irrazionalismo, di diffidenza
verso le competenze, di rigetto verso una autorevolezza scambiata per
autoritarismo.
Lo stesso anno, il 1959, in cui Jervis
cominciava la sua collaborazione con De Martino, nasceva in Inghilterra
la prima legge alternativa in campo psichiatrico, che avrebbe portato
alla abolizione dei manicomi: l’ispirazione era antiautoritaria, ma non
antipsichiatrica, diversamente da quanto sarebbe stato diffuso dalle
interpretazioni più ideologiche e meno informate, quelle che
contribuirono, disgraziatamente, al dilagare – su un terreno
praticamente desertificato – di una revanche cognitivista dalla quale
anche l’ultimo Jervis fu conquistato. Aveva collaborato con Basaglia
negli anni in cui era a Gorizia, condividendone la militanza sul fronte
della individuazione del senso nella malattia mentale, e aveva
partecipato – con un calore che le pagine di questo libro restituiscono
intatto – alle migliori avventure di quel clima controculturale. Erano
anni di appuntamenti esaltanti: a Londra, nell’estate del 1967, al
convegno sulla “Dialettica della liberazione” organizzato fra gli altri
da David Cooper e Ronald Laing, si contrapposero due prospettive
entrambe autorevolmente rappresentate: da una parte una linea critica
della razionalità occidentale, fantasiosa e valorizzatrice della
sensibilità poetica, impersonata fra gli altri da Allen Ginsberg e dallo
stesso Laing; e dall’altra un orientamento meno indulgente verso lo
spontaneismo culturalmente disarmato, tra le cui fila militavano il
marxista Paul Sweezy ma anche il già famosissimo Herbert Marcuse; mentre
Gregory Bateson, anche lui tra i partecipanti al convegno, si
incaricava di dare voce all’allarme ecologico che si andava diffondendo
in quegli anni. Come accadeva su altri terreni, per esempio nel campo
delle sperimentazioni letterarie, anche le idee seminate in quella
contingenza – nota Jervis – non si radicarono nel senso comune, e più
che segnare “una consacrazione della controcultura” confermarono “la
difficoltà di trasformarla da movimento in programma.” A distanza di
tempo, i danni della deriva populistica e delle parole d’ordine che
mortificarono la problematicità delle questioni in campo sono evidenti e
ben argomentate dai saggi di questo libro, il cui titolo non a caso si
indirizza contro il sentito dire: la negazione che investì la
psichiatria, per esempio, pretese di esaurire tutte le questioni aperte
dalla sofferenza mentale nella sacrosanta battaglia contro la reclusione
dei malati, tenendosi però al di qua dal proposito di affrontare le
enormi défaillances terapeutiche che si andavano profilando
all’orizzonte, e la loro iscrizione nel più ampio contesto dei
dispositivi di potere. E mentre la spinta ideale che aveva portato alla
chiusura dei manicomi andava dispersa, il credito accordato alla origine
genetica di molti disturbi psichici guadagnava una risonanza che anche
alcune persone avvertite come Jervis mostrarono di condividere.
Tuttavia, la sua reattività – per esempio contro la psicoanalisi di cui
attaccò molto discutibilmente i principali fondamenti teorici – produsse
anche alcune precise sintesi di giudizio che sembrano oggi persino più
calzanti di quanto non lo fossero al tempo in cui vennero pronunciate,
sintesi in qualche modo riassumibili nel giudizio secondo il quale la
società di massa è principalmente “vittima dello squilibrio fra
un’insufficienza di strumenti critici e un eccesso di disponibilità”.
Quel benessere nel quale, tra l’altro, la contrapposizione tra il
permesso e il vietato, che aveva connotato l’epoca di Freud, ha ceduto
il passo al conflitto tra il possibile e l’impossibile, vale a dire tra
ciò che la società dei consumi suggerisce essere alla portata di tutti e
ciò che invece risulta inarrivabile, con i conseguenti vissuti di
inadeguatezza depressiva che tutto questo comporta.
Questo intervento è già uscito su «Alias – il manifesto». Ripreso oggi, 19 giugno 2014,
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