19 giugno 2014

GIOVANNI JERVIS CONTRO IL SENTITO DIRE


Jervis contro il sentito dire

di Francesca Borrelli



Per quanto la formazione di un intellettuale nato negli anni ‘30 sia tutt’altro che remota nel tempo, l’eco dei suoi maestri sembra già oggi, e purtroppo, inassimilabile al senso comune, come fosse un rumore di fondo più che un marcatore di significato. E’ dunque con una certa avidità che si ripercorrono molte della pagine dedicate ai ricordi che Giovanni Jervis trasse dal lavoro di Ernesto De Martino, di Renato Panzieri, di Sebastiano Timpanaro, e persino di uno psichiatra solo di poco più giovane di lui come Ronald Laing, figure evocate in una collezione di scritti edita di recente con il titolo Contro il sentito dire. Psicoanalisi, psichiatria e politica (a cura di Massimo Marraffa, Bollati Boringhieri, pp. 280, euro 18,00). Gli anni in cui Jervis terminava gli studi superiori e si orientava verso la psichiatria furono anni cruciali: nel 1950 lo svizzero Roland Khün aveva scoperto gli effetti antidepressivi dell’imipramina, denunciando come fonti della sua fondamentale ricerca non tanto la medicina quanto la filosofia di Heidegger e la riflessione psicopatologica di Binswanger. Contemporaneamente alla corsa delle case farmaceutiche verso i profitti dei rimedi psicotropi, si feceva strada una concezione dei farmaci come sostanze relazionali, i cui effetti non sono scindibili dalla funzione terapeutica della parola; ma sul fronte delle istituzioni psichiatriche in cui Jervis andava maturando la sua professione si combatteva ancora per restituire ai pazienti la dignità del loro mondo interiore, negata dalla prassi di quel riduzionismo medico che sarebbe diventato il bersaglio delle battaglie psichiatriche più illuminate.
Non c’è dubbio che nella formazione di Jervis abbia contato di più l’eredità della generazione di Sartre e di Merleau-Ponty, impegnata in una militante ricerca del senso, che non il contagio dello strutturalismo applicato da Lévi-Strauss alle società e da Lacan all’incoscio, quella rottura del pensiero che dimostrò – ha ricordato Foucault in una intervista del 1966 – come il senso fosse solo “una specie di effetto di superficie, un luccichio, una schiuma – e che quello che ci attraversava nel profondo, quello che era prima di noi, quello che ci sosteneva nel tempo e nello spazio era il sistema… un insieme di relazioni che si mantengono, si trasformano, indipendentemente dalle cose che esse legano”.
Presente nel consiglio editoriale della Einaudi dal 1964 al 1970, Jervis contribuì allo svecchiamento di un panorama culturale che risentiva ancora dell’ipoteca del fascismo, e fu anche grazie ai suoi suggerimenti se si pubblicarono autori oggi classici ma allora sconosciuti in Italia: Eugene Minkowski, tra gli altri, ma anche Paul Ricoeur, del quale nel 1965 era uscito in Francia De l’interpetation. Essai sur Freud. A quell’epoca Giovanni Jervis aveva già alle spalle la collaborazione illuminante con Ernesto De Martino, che aveva richiesto le sue competenze psichiatriche per gli studi che andava svolgendo nel Salento sul tarantismo, un rito di possessione al quale si accompagnano vissuti della fine del mondo che l’antropologo intendeva indagare anche da un punto di vista psicopatologico. Il contributo di Jervis, tuttavia, si risolse soprattutto nel distogliere De Martino dal rischio di proiettare nella mente di persone affette da disturbi psichici quei temi culturali “che sono nostri e non loro”. Toccava dunque a uno psichiatra ammonire sulle pretese ermeneutiche di una determinata concezione culturale che pretendeva di rendere conto anche di alcune forme di disorganizzazioni psichiche, laddove a suo tempo erano stati antropologi come Boas e Malinovsky a segnalare le pretese universalizzanti della psicoanalisi freudiana. Tuttavia, dalla collaborazione con De Martino – da quell’etnocentrismo critico che rivendicava, sebbene con umiltà, le proprie ascendenza illuministiche come irrinunciabile punto di partenza culturale dal quale cercare di capire gli altri – Jervis trasse lezioni fondamentali, nonché le basi della sua idiosincrasia per il relativismo. Quel relativismo che suggerisce come i principi dell’etica civile siano variabili a seconda dei diversi ambienti e delle differenti culture, e che nella sua versione postmoderna pretende che non esistano vere conoscenze ma solo punti di vista, e che tutti i giudizi siano niente altro se non opinioni: un modo di vedere di cui Jervis sottolineava giustamente il disimpegnato qualunquismo travestito da malintesa tolleranza, e ben sposato con forme di irrazionalismo, di diffidenza verso le competenze, di rigetto verso una autorevolezza scambiata per autoritarismo.
Lo stesso anno, il 1959, in cui Jervis cominciava la sua collaborazione con De Martino, nasceva in Inghilterra la prima legge alternativa in campo psichiatrico, che avrebbe portato alla abolizione dei manicomi: l’ispirazione era antiautoritaria, ma non antipsichiatrica, diversamente da quanto sarebbe stato diffuso dalle interpretazioni più ideologiche e meno informate, quelle che contribuirono, disgraziatamente, al dilagare – su un terreno praticamente desertificato – di una revanche cognitivista dalla quale anche l’ultimo Jervis fu conquistato. Aveva collaborato con Basaglia negli anni in cui era a Gorizia, condividendone la militanza sul fronte della individuazione del senso nella malattia mentale, e aveva partecipato – con un calore che le pagine di questo libro restituiscono intatto – alle migliori avventure di quel clima controculturale. Erano anni di appuntamenti esaltanti: a Londra, nell’estate del 1967, al convegno sulla “Dialettica della liberazione” organizzato fra gli altri da David Cooper e Ronald Laing, si contrapposero due prospettive entrambe autorevolmente rappresentate: da una parte una linea critica della razionalità occidentale, fantasiosa e valorizzatrice della sensibilità poetica, impersonata fra gli altri da Allen Ginsberg e dallo stesso Laing; e dall’altra un orientamento meno indulgente verso lo spontaneismo culturalmente disarmato, tra le cui fila militavano il marxista Paul Sweezy ma anche il già famosissimo Herbert Marcuse; mentre Gregory Bateson, anche lui tra i partecipanti al convegno, si incaricava di dare voce all’allarme ecologico che si andava diffondendo in quegli anni. Come accadeva su altri terreni, per esempio nel campo delle sperimentazioni letterarie, anche le idee seminate in quella contingenza – nota Jervis – non si radicarono nel senso comune, e più che segnare “una consacrazione della controcultura” confermarono “la difficoltà di trasformarla da movimento in programma.” A distanza di tempo, i danni della deriva populistica e delle parole d’ordine che mortificarono la problematicità delle questioni in campo sono evidenti e ben argomentate dai saggi di questo libro, il cui titolo non a caso si indirizza contro il sentito dire: la negazione che investì la psichiatria, per esempio, pretese di esaurire tutte le questioni aperte dalla sofferenza mentale nella sacrosanta battaglia contro la reclusione dei malati, tenendosi però al di qua dal proposito di affrontare le enormi défaillances terapeutiche che si andavano profilando all’orizzonte, e la loro iscrizione nel più ampio contesto dei dispositivi di potere. E mentre la spinta ideale che aveva portato alla chiusura dei manicomi andava dispersa, il credito accordato alla origine genetica di molti disturbi psichici guadagnava una risonanza che anche alcune persone avvertite come Jervis mostrarono di condividere. Tuttavia, la sua reattività – per esempio contro la psicoanalisi di cui attaccò molto discutibilmente i principali fondamenti teorici – produsse anche alcune precise sintesi di giudizio che sembrano oggi persino più calzanti di quanto non lo fossero al tempo in cui vennero pronunciate, sintesi in qualche modo riassumibili nel giudizio secondo il quale la società di massa è principalmente “vittima dello squilibrio fra un’insufficienza di strumenti critici e un eccesso di disponibilità”. Quel benessere nel quale, tra l’altro, la contrapposizione tra il permesso e il vietato, che aveva connotato l’epoca di Freud, ha ceduto il passo al conflitto tra il possibile e l’impossibile, vale a dire tra ciò che la società dei consumi suggerisce essere alla portata di tutti e ciò che invece risulta inarrivabile, con i conseguenti vissuti di inadeguatezza depressiva che tutto questo comporta.

Questo intervento è già uscito su «Alias – il manifesto». Ripreso oggi, ,

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