18 giugno 2014

NATURAL BORN KILLERS...



Tramontato il tempo dei malvagi titanici di Shakespeare, Dostoevskij e Melville e quello della banalità burocratica dei carnefici di Stato, che cosa rimane della rappresentazione letteraria del nostro lato oscuro? Un articolo di qualche giorno fa, utilissimo per comprendere meglio i fatti degli ultimi giorni.
Benedetta Tobagi

L’estetica del male



NEI dettagli ingigantiti dall’obiettivo macro, i normali rituali di un risveglio casalingo si trasformano in carneficina, dall’arancia rossa spolpata dallo spremiagrumi alla goccia di sangue che cade da un taglietto di rasoio sul mento: così si presentava agli spettatori, attraverso la sigla, la serie americana Dexter (2006-2013), che marca un punto-limite nella rappresentazione contemporanea del male: un anatomopatologo serial killer è star assoluta e voce narrante.

Si va ben oltre il provocatorio capovolgimento dell’etica ordinaria di un’altra serie di culto come Breaking Bad ( 2008-2013), il cui protagonista è un chimico che, colpito dal cancro, si trasforma in produttore di metanfetamine per assicurare alla propria famiglia di che vivere. E’ una forma di manipolazione perversa indurre lo spettatore a empatizzare, volente o nolente, con un assassino seriale psicopatico?

L’arte si è assunta da secoli il compito di raccontare il male. Il male si trasforma, e con esso le sue rappresentazioni, dal teatro alle serie tv. I grandi “cattivi” della tradizione letteraria, il Riccardo III o lo Iago di Shakespeare, il Lucifero di Milton, fino alla grandiosa follia di Achab, contaminato dal male con cui lotta senza quartiere, sono personaggi grandiosi, dotati d’intelligenza e motivazioni complesse, e vanno incontro a un destino tragico.

Il Padrino di Coppola si colloca ancora in questo solco. In più, Michael Corleone, come tanti altri gangster o eroi negativi di Scorsese, fino ai criminali di Educazione siberiana di Lilin, esercitano un fascino durevole sul pubblico perché incarnano un sistema valoriale fatto di vendetta e onore, arcaico e tribale quanto si vuole, ma granitico e dunque non privo di seduzione, in una società sempre più anodina.



Tra le qualità più dirompenti del romanzo Gomorra c’è stata proprio la capacità di raccontare come molti boss del Sistema si pascessero di quest’immaginario (fino a copiare la villa di Scarface), mettendo a nudo, in contrasto, la disumanità degradante connaturata alla nuova criminalità ibridata col turbocapitalismo. Molti critici hanno apprezzato che il protagonista della recente trasposizione televisiva sia un giovane la cui affiliazione al clan è spogliata di epica, mera scelta di sopravvivenza in un inferno. Come incontrò grande successo la scelta innovativa di raccontare la depressione del boss dei Sopranos (1999- 2007).

Tramontata l’epoca dei malvagi grandiosi, il Novecento, complice la disumanizzazione indotta da tecnica e burocrazia, è stato il secolo del male grigio, senza volto e “senza radici”, dunque apparentemente impossibile da sradicare, come scrisse Hannah Arendt. E oggi? Il male della società tardocapitalista ci sgomenta perché risuona vuoto. Il genio di Dostoevskij intuì per primo questa linea d’evoluzione: i personaggi de I demoni ( 1873) gravitano intorno al nucleo freddo e vuoto dell’anima di Stavrogin, di cui alla fine si svela la segreta perversione. Il nichilismo, come notò Lukacs, «non è una convinzione ma un’esperienza vissuta».

Viviamo circondati da crimini orrendi con motivazioni risibili, se non, addirittura, senza movente né ragione apparente, crudeltà gratuita, male fine a se stesso. Il mondo che ritroviamo nei romanzi di Roberto Bolaño, il labirinto di intrighi e delitti insoluti di 2-666 , per esempio, in cui, osserva Arturo Mazzarella nel saggio Il male necessario, a muovere la girandola degli eventi è un male “puntualmente immotivato”, oltre che impunito.

Oppure, crudeltà come forma di affermazione di sé o fonte di eccitazione, morte per “sentirsi vivi”. Accanto al fantasma grigio di Eichmann, riapparso nelle prigioni di Abu Ghraib, si fa avanti quello di Patrick Bateman, protagonista del romanzo American Psycho di Bret Easton Ellis (1991): un giovane yuppie di Wall Steet superficiale, salutista e danaroso, ossessionato dalle griffe d’alta moda e dal film Omicidio a luci rosse , che si trasforma con sconcertante naturalezza in un efferato torturatore e omicida seriale.



Cinema e letteratura, insomma, hanno saputo cogliere tempestivamente l’evoluzione del male, da Arancia meccanica di Burgess e Kubrik fino a L’avversario di Carrère, ai giochi crudeli degli adolescenti abbandonati a se stessi del romanzo Niente di Jane Teller, al vuoto pneumatico dei ladri d’appartamento modaioli del Bling Ring di Sophia Coppola. Opere diversissime compongono l’articolata fenomenologia di un male agito da uomini e donne “senza inconscio”, secondo la definizione di Recalcati, emanazione del dilagare di nuove e diverse patologie psichiche, perversioni narcisistiche in testa, analizzato in modo eccellente in alcuni saggi recenti come La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà di Simon Baron-Cohen, o L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? di Philip Zimbardo.

Il minimo comune denominatore è la totale assenza di empatia: «Avevo tutte le caratteristiche dell’essere umano», faceva dire Ellis al suo Bateman, «ma la mia spersonalizzazione era andata così a fondo che […] ero la rozza caricatura di un essere umano». Ma nella rappresentazione della crudeltà di questi “fratelli umani” nonostante tutto, per citare l’apostrofe con cui si rivolge ai lettori il protagonista e io narrante (un SS omosessuale matricida coprofago con relazione incestuosa con la sorella gemella: bingo) dell’assai discusso Le benevole di Jonathan Littel, tacciato, come Ellis, di «pornografia della violenza», fino a che punto di dettaglio è lecito spingersi? Ineludibili le riflessioni del premio Nobel Coetzee nella Lezione quarta di Elizabeth Costello.

Senza chiudere gli occhi davanti al male, vi sono tuttavia luoghi e pratiche d’orrore che meritano ancora la qualifica di “osceno”, riflette la protagonista. Il limite va ritrovato ogni volta. La bussola sta proprio nell’empatia che manca al malvagio. La pietas e il rispetto dell’umana dignità fanno sentire se qualcosa è “osceno” in quanto inutile alla comprensione e alla compassione, e come tale non dovrebbe essere messo in scena, tanto meno spettacolarizzato.

Letteratura e grande cinema (penso, in anni recenti, a Michael Haneke, Lars von Trier, GusVan Sant) disegnano una fenomenologia del male indispensabile per orientarsi, e, soprattutto, per simbolizzare (cioè dare forma, immagini e parole, ritessendole in un racconto) emozioni che altrimenti, slegate e irriflesse, restano prive di significato, e potenzialmente molto pericolose. Esiste una nuova estetica del male che sa penetrare l’abisso dell’assenza di empatia, metterlo a nudo e smascherarlo, possibile solo perché l’autore e l’artista sanno pensare e sentire, e aiutano gli altri a pensare i pensieri più difficili, a sondare le emozioni insopportabili.



Tutto il contrario della televisione, che si limita a mettere in scena, senza mediazione simbolica, la «tragedia senza il tragico» (felice definizione coniata dal criminologo Adolfo Ceretti per il delitto di Novi Ligure). Non per niente è un rutilante blob televisivo ad avere preso il posto del pensiero dei due Natural Born Killers di Oliver Stone.

Illuminante per molti versi l’evoluzione di Quentin Tarantino. Si è lasciato alle spalle la violenza gratuita e quasi insopportabile, a dispetto dell’ironia, della scena di tortura delle Iene. Dalla Sposa di Kill Bill, al rogo purificatore in cui culmina Bastardi senza gloria, fino a Django Unchained, la violenza stilizzata e ironica ha assunto sempre più una dimensione simbolica: fantasie di vendetta e riscatto per chi ha subito violenze e umiliazioni. Decisamente liberatorie, e a tratti addirittura catartiche.

La Repubblica – 1 giugno 2014

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