29 giugno 2014

L'OPERA E LA VITA DI CARLA LONZI

Carla Lonzi




Un saggio di Maria Luisa Boccia invita a fare i conti con l’eredità della teorica femminista e il possibile uso della sua elaborazione per «inventare» nuove forme della politica. Le pratiche femministe in una realtà dove è frequente l’olocausto della propria vita sull’altare del profitto.

Laura Fortini

La potenza delle relazioni

Fare della pro­pria vita la pro­pria opera è cosa com­plessa e mera­vi­gliosa, tanto più quando ciò assume il carat­tere di un taglio impre­vi­sto al punto di dive­nire poli­tica: è quanto accadde negli anni Set­tanta con il movi­mento fem­mi­ni­sta che mise al cen­tro della sfera pub­blica altre moda­lità di fare poli­tica, è quanto mise a fuoco con lucida auto­na­lisi Carla Lonzi, insieme al gruppo di «Rivolta fem­mi­nile»: a Carla Lonzi Maria Luisa Boc­cia dedica un libro che non vuole costi­tuire un ritorno alle ori­gini del pen­siero e delle pra­ti­che fem­mi­ni­ste, ma un col­lo­quiare con lei a par­tire dal pre­sente (Con Carla Lonzi. La mia opera è la mia vita, Ediesse, pp. 149, euro 12).

Dalla cri­tica d’arte mili­tante, infatti, al nodo ses­sua­lità e poli­tica, dall’ancora scan­da­loso «spu­tiamo su Hegel» alla donna cli­to­ri­dea, al «taci anzi parla» del dia­rio di una fem­mi­ni­sta, le que­stioni che Carla Lonzi affrontò nella sua scrit­tura sono tante e tali che ci si volge a lei oggi in cerca di ele­menti utili per tro­vare radi­ca­lità effi­caci per que­sto pre­sente in cerca di nomi­na­zione. Radi­ca­lità che sono anche radici di una crisi delle pra­ti­che poli­ti­che: si potrebbe osser­vare che que­sto libro è rivolto al senso della fine di un’esperienza per riba­dirne il con­ti­nuo ini­zio.

Maria Luisa Boc­cia volge infatti il pro­prio sguardo alla fine degli anni Set­tanta e con loro a Carla Lonzi per riba­dire la radice prima della poli­tica , che riguarda donne e uomini: lo aveva già fatto con il libro dedi­cato a Carla Lonzi nel 1990, L’io in rivolta (pub­bli­cato da Tar­ta­ruga e ripro­po­sto dalla stessa casa edi­trice nel 2011 con una nuova pre­fa­zione), e il libro allora aveva il sapore tes­suto e medi­tato di un ragio­na­mento che anti­ci­pava que­stioni che sareb­bero poi dive­nute nodali, come quello della cri­tica alle forme dell’agire poli­tico e quello dell’autocoscienza, su cui si torna in modo rin­no­vato come emerge dagli inter­venti dedi­cati a ciò dall’ultimo numero di Alfa­beta, che la rein­ter­roga attra­verso la nar­ra­zione di Daniela Pel­le­grini.

Più forte oggi la neces­sità di spez­zare la com­pli­cità fem­mi­nile con il potere, anche quando essa si palesa in ter­mini di com­pe­tenza e merito, parole molto usate nell’attuale dibat­tito pub­blico senza che ciò fac­cia la dif­fe­renza, anche quando si esprime sotto l’aspetto ingan­ne­vole dell’emancipazione.

Un dispe­rante eterno presente

Cen­trale la ten­sione alla libertà e al come farla pro­pria in un eser­ci­zio di pen­siero e di espe­rienza che rie­sca ad avere un carat­tere sim­bo­lico effi­cace per que­sto pre­sente: cosa niente affatto facile, se non si riper­corre come fa Maria Luisa Boc­cia, passo passo e con mano lieve ma assai ferma e deter­mi­nata, quanto allora venuto alla luce con Carla Lonzi.

Ovvero la neces­sità di mutare «vita in radice», insieme ad una pra­tica di scrit­tura come agire comu­ni­ca­tivo, inter­ro­ga­zione e osser­va­zione di sé e delle altre aperta all’interlocuzione sem­pre in dive­nire, forma essa stessa del pen­sare.

Il che signi­fica qual­cosa di dia­me­tral­mente oppo­sto all’astratto lin­guag­gio pub­blico, asser­tivo e pre­de­ter­mi­nato per come si pre­senta ancora attual­mente in una sorta di eterno pre­sente sto­rico dispe­rante, pure quando risulta vin­cente, tanto più quando appa­ren­te­mente lo è. All’astrattezza del lin­guag­gio poli­tico si con­trap­pone infatti, almeno super­fi­cial­mente, una poli­tica del fare che con­se­gna nelle mani di uomini e donne dell’apparato poli­tico isti­tu­zio­nale il fare della poli­tica. Rispetto la sover­chiante mate­ria­lità delle vite di donne e uomini il fare diviene mac­china di potere appa­ren­te­mente neu­tra e ogget­tiva: che cosa con­trap­porre alla crisi, alla reces­sione, alla man­canza di lavoro?

In realtà que­sti sono ter­mini appar­te­nenti a un ordine discor­sivo intriso di quell’olocausto di sé di cui scrive Rosa Luxem­burg in una let­tera a Leo Jogi­ches, fatta pro­pria poi effi­ca­ce­mente da Carla Lonzi nel corso della sua rifles­sione. Di fronte a un mer­cato capi­ta­li­stico che in maniera sem­pre più sel­vag­gia fa olo­cau­sto delle nostre vite, che cosa ci dicono Carla Lonzi e Maria Luisa Boc­cia che aiuti a tro­vare modi per vivere il pre­sente utili per deco­struirlo, cam­biarlo, modi­fi­carlo in modo radi­cale?

Se il cri­te­rio prin­cipe del potere è quello dell’efficacia dei fatti – e l’attuale governo, come per altro quelli pre­ce­denti, si ammanta in con­ti­nua­zione di ciò – cosa opporre ad un prin­ci­pio appa­ren­te­mente ogget­tivo e uni­ver­sale? La dif­fe­renza fem­mi­nile è taglio che sma­schera innan­zi­tutto l’universalità pre­sunta e ogget­tiva pro­prio a par­tire dalla fini­tezza della sin­go­la­rità di ognuno.

Il discorso pub­blico che agita l’oggettività dei fatti fa sì che ogni dif­fe­renza diviene mar­gi­na­lità da soc­cor­rere e quindi da con­te­nere col­lo­can­dola nel ruolo di vit­tima, ruolo che con­ferma l’astrattezza uni­ver­sale ed ogget­tiva del discorso pub­blico invece che rimet­terla in discus­sione.

Scom­porre l’identità ses­suale come fa Carla Lonzi, in altri ter­mini scom­porre il genere invece di farne cate­go­ria super­fi­cial­mente utile a ogni eve­nienza, per­mette di scar­di­nare e di far venire alla luce l’atto di cura fem­mi­nile, e anche maschile per­ché ormai attra­versa tutti i generi e le gene­ra­zioni, che sta sup­plendo in modo inno­mi­nato alla man­canza di cura pubblica.

L’obbligo alla cura

Se infatti pren­dersi cura delle vite è atto pro­pria­mente fem­mi­nile, occorre «ripu­lire lo spa­zio» – sono parole di Carla Lonzi – dall’atto di sacri­fi­cio di sé richie­sto in modo non poi tanto impli­cito a donne e uomini in Ita­lia come in Europa: rispetto a ciò varrà ripren­dere e discu­tere quanto scritto al pro­po­sito dal «Gruppo del mer­co­ledì di Roma su un’altra Europa» della cura, quando osserva che pen­sare alla «cura» è una pra­tica che ria­pre il con­flitto tra capi­tale e vita e che occorre sve­lare la dico­to­mia patriar­cale tra il buon padre che si prende cura di tutta la fami­glia e facendo ciò eser­cita potere e le donne il cui lavoro di cura diventa mero dato bio­lo­gico.

E come arti­co­lare ciò in un momento sto­rico in cui la dico­to­mia patriar­cale si rap­pre­senta come uomini e donne di governo che eser­ci­tano potere sulle vite di tutti in nome del buon padre di fami­glia e donne e uomini che si pren­dono cura della vita indi­vi­duale in vario modo, senza che ciò diventi pri­va­tiz­za­zione delle vite mate­riali?

Maria Luisa Boc­cia osserva come «pen­sare e nomi­nare, quindi pra­ti­care e vivere, altri­menti la realtà – è il primo, impre­scin­di­bile gesto di libertà. Si tratta insomma di andare non solo oltre i limiti di una con­di­zione impo­sta alle donne, ma anche oltre i limiti di una società, di una cul­tura, di una sto­ria domi­nate da uomini»: que­sto lo sguardo lucido, il taglio di Carla Lonzi e si può dire con cer­tezza che a que­sto sono stati dedi­cati il pen­siero e le rifles­sioni del fem­mi­ni­smo della dif­fe­renza, certo non essen­zia­li­sta se non nella misura in cui la donna – volu­ta­mente sin­go­lare nella scrit­tura di Maria Luisa Boc­cia così come in quella di Lonzi – diviene figura sim­bo­lica di un eser­ci­zio con­flit­tuale radi­cale che di fatto si è con­ge­dato da quanto ci ha por­tato fino a qui, ovvero il patriar­cato, le sue leggi astratte, il suo potere, il suo dover essere, appa­ren­te­mente ogget­tivo e indi­scu­ti­bile.

Ancora intatto nella sua capa­cità di signi­fi­care il pre­sente quanto scritto a pro­po­sito del lavoro nel Mani­fe­sto di Rivolta fem­mi­nile nel 1970: «Dete­stiamo i mec­ca­ni­smi della com­pe­ti­ti­vità e il ricatto che viene eser­ci­tato nel mondo dell’egemonia dell’efficienza. Noi vogliamo met­tere la nostra capa­cità lavo­ra­tiva a dispo­si­zione di una società che ne sia immu­niz­zata. La parità di retri­bu­zione è un nostro diritto, ma la nostra oppres­sione è un’altra cosa. Ci basta la parità sala­riale quando abbiamo già ore di lavoro dome­stico alle spalle? Rie­sa­mi­niamo gli apporti crea­tivi della donna alla comu­nità e sfa­tiamo il mito della sua labo­rio­sità sus­si­dia­ria. Dare alto valore ai momenti “impro­dut­tivi” è un’estensione di vita pro­po­sta dalla donna».

Sono ter­mini che rie­scono con pro­prietà ancora oggi a ribal­tare la for­bice schia­vi­stica del lavoro/non lavoro e che met­tono al cen­tro modi di pen­sare come stare al mondo e di pen­sarsi che scar­di­nano i ter­mini con cui si pre­senta la que­stione nell’opinione pub­blica: cosa signi­fica pre­ca­rietà eco­no­mica ed esi­sten­ziale per donne e uomini di tutte le età e come farne qual­cosa di diverso dal ruolo della vit­tima o del mar­gi­nale neces­si­tante di pub­blico soc­corso, un’emergenza sociale si usa definirla?

L’ordine del potere

Cosa signi­fica, alla luce delle parole del Mani­fe­sto di Rivolta fem­mi­nile, essere in cas­sa in­te­gra­zione, i con­tratti di soli­da­rietà, l’abbandono della forma iden­ti­ta­ria del lavoro per donne e uomini? Altre le moda­lità di fare poli­tica nell’esperienza fem­mi­ni­sta indi­vi­duate e per­se­guite da allora, indu­bi­ta­bil­mente diverse da quelle dei par­titi e della rap­pre­sen­tanza: quelle che appro­fit­tano della dif­fe­renza per farne atto crea­tivo, per «coniu­gare prin­ci­pio di pia­cere e prin­ci­pio di realtà», osserva Maria Luisa Boc­cia, notando come in assenza di auto­rità il «potere può fare male, molto male, ma non fa ordine»: que­sto si è potuto notare in mol­te­plici occa­sioni in que­sti anni e sta a noi fare ordine, per ripar­tire da un prin­ci­pio discor­sivo desi­de­rante che nell’emergenza della mise­ria mate­riale delle vite pare essersi smar­rito.

Ma vi è una forza che ha ori­gine dal pia­cere delle rela­zioni che hanno vita nelle occu­pa­zioni delle case abban­do­nate, nelle pro­te­ste in difesa del posto del lavoro con­di­vise, nella messa a tema di scac­chi anche ragio­nati ma non rimossi, gra­zie alla quale è pos­si­bile non smar­rire il senso d’un fare poli­tica che è tutto nelle nostre mani e che dalla dif­fe­renza fem­mi­nile può trarre solo che gua­da­gno e sostanza.


Il Manifesto – 28 giugno 2014



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