Armando Torno
Gli ebrei
tra ragione e rivelazione
Giuseppe Laras, rabbino
capo emerito di Milano, è tra gli studiosi più autorevoli del
pensiero ebraico medievale. È presidente del Tribunale rabbinico del
Centro-Nord Italia, nonché uno dei massimi specialisti di Mosè
Maimonide (Mosheh ben Maimòn). Di questo filosofo ha, tra l’altro,
curato dei testi: Gli otto capitoli. La dottrina etica (Giuntina
2001) e Immortalità e resurrezione (Morcelliana 2006).
Sta ora uscendo il primo
volume — il secondo a fine estate — di un’opera di sintesi che
rispecchia i suoi studi, i mille percorsi: «Ricordati dei giorni del
mondo». Storia del pensiero ebraico dalle origini all’età moderna
(Edb, pp. 272, e 16.50). Nel successivo volume verrà esaminato il
periodo dall’Illuminismo al mondo contemporaneo. Non si tratta
semplicemente di una storia della filosofia ebraica, ma di una
sintesi dell’inesausto pensare che testi biblici, talmudici,
intuizioni mistiche della Qabbalah e produzioni vastissime della
normativa rabbinica, la Halakhah, hanno accumulato accanto alle
congetture filosofiche.
Rav Laras prende il lettore per mano guidandolo dallo shock che il pensiero talmudico sperimentò entrando in contatto con la razionalità greca fino alla grande sintesi scolastica medievale. È un’epoca in cui emergono due figure colossali: Sa’adyah ben Yoséph ha-Gaòn (882-942), primo traduttore della Bibbia in arabo, secondo il quale «per ben credere bisogna ben ragionare»; e Mosè Maimonide (1135-1204), giurista, medico, rabbino, pensatore innamorato di Aristotele, ma che — sottolinea Laras — «sul tema della creazione erige un netto steccato fra la speculazione aristotelica e il dato della Rivelazione».
Ecco inoltre l’autore
offrire preziose indicazioni sull’epoca successiva all’espulsione
degli ebrei dalla Spagna da parte di Isabella e Ferdinando (1492). Da
quel momento il loro pensiero anziché interrogarsi su Dio si pose la
questione riguardante il popolo d’Israele e il suo destino. Nacque
una «identità marranica» che si manifestò attraverso «un’intima
e straziante contraddizione all’interno dell’animo e della psiche
degli ebrei».
È un aspetto della
modernità. Laras sintetizza quel che letteratura e filosofia
registreranno nei secoli successivi attraverso le opere di eminenti
protagonisti: «Essere e non-essere, essere “fuori” ed essere
“dentro”, volere e rifiutare, a cavallo tra ebraismo e
cristianesimo, tra appartenenza al popolo di Israele e formale
adesione al cattolicesimo, tra fedeltà sincera e tenace all’ebraismo
e paura del peccato di apostasia: queste le caratteristiche di un
vero e proprio sdoppiamento della personalità, che talvolta
raggiunse una sorta di para-schizofrenia».
Si pensi a Spinoza e al
suo maestro, il qabbalista Menasheh ben Israel, che ebbe tra l’altro
un ruolo rilevante nelle trattative con il governo di Oliver Cromwell
per la riammissione nei territori inglesi degli ebrei, espulsi nel
1290.
In entrambi i volumi (il secondo abbiamo avuto il permesso di vederlo in bozze) si nota il grande contributo dell’ebraismo italiano in seno alla più generale storia del pensiero ebraico e della normativa rabbinica. Lo provano figure quali Elia Delmedigo, maestro di Qabbalah di Pico della Mirandola e prezioso traduttore di Averroè, o Abravanel padre (uomo di Stato e commentatore dei testi biblici) o suo figlio, l’umanista noto come Leone Ebreo, autore dei Dialoghi d’amore (Roma 1535) in cui si fondono in una luce neoplatonica teorie ermetiche, orfismo, mistica ebraica e araba. Per aggiungere un altro protagonista: Leon da Modena, morto a Venezia nel 1648. Anche se fu tormentato dal vizio del gioco d’azzardo, lasciò scritti dottrinali e apologetici di notevole valore, tra i quali Arì Nohèm (Il leone ruggente ), in cui confutava la Qabbalah e i suoi sostenitori.
Il secondo volume si occupa della contrastata penetrazione del pensiero illuminista in seno alla tradizione dei figli d’Israele, dello scontro tra l’ortodossia rabbinica e la riforma ebraica (oggi coincidente con la maggioranza dell’ebraismo nord americano) e della nascita del sionismo. Laras sottolinea che il Novecento presenta una «difficile mappatura», giacché resta il secolo dei Protocolli dei savi anziani di Sion , della Shoah, della nascita dello Stato d’Israele (1948) e della «disfatta della filosofia» (così definisce l’adesione di Heidegger al nazismo).
La prefazione del libro è del cardinale Carlo Maria Martini. Fu scritta a suo tempo per la collana che ospita l’opera, «Cristiani ed ebrei», ma qui assume un particolare significato per l’amicizia che ci fu tra Laras e il porporato. I due, oltre ad avviare il dialogo ebraico-cristiano, si incontrarono poche settimane prima della scomparsa del cardinale. E reciprocamente si benedirono.
Il Corriere della sera –
20 giugno 2014
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