18 giugno 2014

L' INFERNO SONO GLI ALTRI...





La banalità del male. Mai concetto fu più appropriato. Basta accendere il televisore (o girare per le strade di una qualunque città) per rendersi conto di vivere in una società che mette in scena ossessivamente lo spettacolo della felicità per coprire un vuoto esistenziale assoluto. La famiglia felice del Mulino bianco come fabbrica di mostri.

Daniela Ranieri

L’inverosimile vero del male assoluto.
Da quando la cronaca nera ha scoperto lo storytelling, di ogni fatto di sangue che trapela dalle questure veniamo a sapere protagonisti, dettagli, progressione nelle indagini, svolte. Si scatena la sociologia, i telefoni degli psichiatri bollono, moventi e alibi fanno man bassa delle sottili disquisizioni tra garantisti e giustizialisti.

Così domenica mattina apprendiamo che a Motta Visconti (toponimo che non potremo più ignorare, come Cogne), un uomo, tornato a casa nella notte dopo la partita (la stessa che noi abbiamo guardato fino a tardi), vi ha trovato moglie e figli sgozzati.

La scena del delitto è descritta come “angosciosa”. La nostra attenzione spossata dal caldo e dalla nevrosi politica si allerta. Si promettono “foto”, ma sono immagini di macabra normalità edilizia. Andiamo in cerca di dettagli, presto confezionati per quel voyeurismo in cui il kitsch si mischia al sentimentalismo di Facebook, da cui peraltro provengono le foto della famiglia, bambini compresi. Lunedì arriva, puntuale, la svolta: il marito e padre confessa l’orribile delitto. Il tema del mistero estivo si complica, si fa shakespeariano.

La sete di cronaca tradisce un bisogno un tempo coperto dalla letteratura, che oggi non si fa più carico di sondare gli abissi del male; la spietatezza calata in un ambiente domestico e familiare rinfocola in noi quella vocazione ad essere contemporaneamente “carnefici e spettatori”, come dal saggio omonimo di Alessandro Dal Lago. I media accelerano quel mix di insensibilità e moralismo che ci fa consumare moduli di orrore quotidiano nelle forme previste dallo spirito del tempo.

Nell’800 il feuilleton si incaricò di romanzare il male sui quotidiani cittadini; correndo verso il Grand Guignol, fece un’epica a puntate del sangue versato nelle strade di Londra e Parigi, finché non si seccava e una nuova ferita veniva aperta su un altro corpo innocente. Ciò che colpiva, allora come ora, era la commistione tra l’elemento sensuale e quello familiare, che generava la sensazione del perturbante.

Ma se oggi la letteratura è un levigato racconto della decenza, dei buoni sentimenti, del narcisismo banale del bene, e sui social media avvampano stimoli da un minuto, il pubblico ha nondimeno diritto ad essere divertito. Non è vero che la vita è più piatta e non romanzesca. Al posto dei romanzi di Dickens abbiamo i plastici delle villette; invece del tragico e del lombrosiano, gli appostamenti in paese delle tv del pomeriggio.

L’infanticidio reitera una figura mitologica e letteraria che ci chiama in causa: come scrive Pietro Citati ne Il Male Assoluto, Dickens e Dostoevskij sapevano che la “tetra furia sadica” racchiusa nel cuore degli uomini si scatena soprattutto contro i bambini, “come se il mondo volesse colpire la propria parte più tenera e indifesa, e così offendere meglio sé stesso”.

Qui il “comportamento lineare” tenuto dal padre “a delitto scoperto” sposta tutto verso l’ossessivo, lo psicologico. Sotto interrogatorio, l’uomo avrebbe trasmesso agli inquirenti la sensazione di "un’enorme stanchezza" per la vita familiare. Si allude a un’altra donna: l’elemento sessuale si insinua nel mostruoso, a sua aggravante.

Il sospetto di una vita alternativa a quella appena annientata apparenta l’uomo al protagonista del romanzo di Emmanuel Carrére L’avversario, basato sulla vicenda di Jean-Claude Romand, che nel ’93 uccise la moglie, i due figli e il giorno dopo i genitori: per 18 anni aveva finto di essere medico e ricercatore dell’OMS a Ginevra, e temendo di essere scoperto decise di annientare quella vita simulata che per lui era la sola vivibile.

Anche l’abisso umano toccato a Motta Visconti poggia su un quadro di normale patologia quotidiana, ottima base per quel genere che un tempo appassionava le donne isteriche. Il dettaglio banale della partita, tramite incredibile tra lo sgozzamento di moglie e figli e la confessione, dice che l’omicidio non è frutto di un raptus ma è stato premeditato da tempo, “magari quando sono usciti i calendari delle partite in Brasile”. Così per un attimo i pensieri dell’omicida si sono incrociati coi nostri, che hanno preso tutt’altra direzione per poi essere catapultati dallo storytelling nell’inverosimile vero del male assoluto.
il Fatto – 17 giugno 2014

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