16 giugno 2014

FRANCO SCALDATI E PIER PAOLO PASOLINI SULL'ULTIMO NUMERO DI NUOVA BUSAMBRA







Mercoledì 18 giugno alle ore 18 a “Moltivolti” pub ristorante caffetteria in  via G. Mario Puglia, 21 a Palermo (vicino Oratorio S. Chiara all’Albergheria)  si presenta “Il poeta degli ultimi. Omaggio a Franco Scaldati”, numero 6 della rivista NUOVA BUSAMBRA. Intervengono: Dario Enea, Benny Faraci, Antonella Sampino, Cosimo Scordato, Santo Lombino. Letture di Serafina Ignoto. Coordina Antonella Folgheretti.


La rivista ospita trentuno interventi di scrittori, critici, attori, registi sulla figura e l’opera dell’attore/regista/drammaturgo Scaldati scomparso un anno fa. Inoltre si pubblica un saggio inedito sul giovane Pasolini che partecipò attivamente  alle lotte contadine dell'ultimo dopoguerra nel suo Friuli.
Nello stesso numero troverete spunti di riflessione sul consumo critico, sulle lotte popolari contro il MUOS di Niscemi, sui tanti muri che ogni giorno vediamo costruire, ed altro ancora...

Di seguito un'anticipazione del saggio su Pasolini  senza le note che troverete nella rivista.






FRANCESCO VIRGA

POESIA E MONDO CONTADINO  NEL GIOVANE PASOLINI

Fontana di aga dal me pais.
A no è aga pi fres-cia che tal me pais.
Fontana di rustic amour.[1]


Poesie a Casarsa è il titolo del primo libro di Pasolini, pubblicato a sue spese dalla Libreria Antiquaria Landi di Bologna nel luglio 1942. Pier Paolo ha appena vent’anni e studia lettere nell’Università della sua città natale. In quegli anni non poteva aver letto Gramsci, allora ancora inedito; ma a Bologna ha studiato filologia romanza ed ha avuto modo di conoscere gli studi del goriziano Graziadio Isaia Ascoli che, oltre a dare una chiara spiegazione delle ragioni storico-culturali che hanno condotto il fiorentino a diventare lingua nazionale, si era anche soffermato ad analizzare la posizione singolare delle diverse parlate friulane rispetto agli altri idiomi della penisola.[2]

Casarsa è il paese friulano dov’è nata la madre del poeta e dove quest’ultimo trascorreva le vacanze estive. Ma Casarsa e il Friuli, fino a quel momento, sono più un mito che una realtà[3] come riconosce lo stesso Pasolini:

Io scrissi i primi versi in friulano a Bologna senza conoscere neanche un poeta in questa lingua e invece leggendo abbondantemente i provenzali. Allora (nel ‘41-‘42) per me il friulano era un linguaggio che non aveva nessun rapporto che non fosse fantastico con il Friuli.[4]

Eppure questo libretto, che a prima vista sembra fatto a tavolino «col Pirona, dizionario friulano-italiano accanto»,[5] colpì immediatamente l’attenzione di un lettore attento come Gianfranco Contini, allora docente di filologia romanza all’Università di Friburgo. Nella famosa recensione che ne fece, censurata dall’Italia fascista che mal tollerava le realtà regionali con i loro dialetti, il critico oltre a fiutare «l’odore […] della poesia, in una specie inconsueta, per di più in una di quelle non so se dire quasi lingue o lingue minori che era mia passione e professione frequentare», intravedeva profeticamente nell’opera del giovane autore lo «scandalo ch’esso introduce negli annali della letteratura dialettale».[6]

Sarà lo stesso giovane Pasolini, nell’articolo dell’aprile 1944 intitolato Dialet, lenga e stil, a spiegare, col suo tipico stile pedagogico che ritroveremo intatto ancora negli ultimi anni della sua vita,[7] la radicale novità rappresentata dal suo uso inedito della lingua friulana, rispetto alla tradizione dialettale, che nel Friuli aveva avuto come massimo esponente Pietro Zorutti. Ne ripropongo i passi che mostrano, tra l’altro, come egli avesse perfettamente assimilato la lezione dell’Ascoli:

Quando parlate […] adoperate quel dialetto che avete imparato da vostra madre […]. E sono secoli che i bambini di questi posti succhiano dal seno delle loro madri quel dialetto […]. E per impararlo non servono sillabari, libri, grammatiche; lo si parla così, come si mangia o si respira. Nessuno di voi saprebbe scriverlo, questo dialetto, e, quasi quasi, neanche leggerlo. Ma intanto lui è vivo, […] nelle vostre bocche, […], nei petti dei giovanotti […].
Così il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi, è solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo. Ma se a qualcuno venisse […] l’idea di adoperare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? […] con l’ambizione di dire cose più elevate, difficili, magari; se qualcuno, insomma, pensasse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua nazionale imparata nei libri? […] allora quel dialetto diventa “lingua”. La lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore.
Così […] l’Italiano una volta, tanti secoli fa, era anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai servitori, dai braccianti mentre i ricchi e quelli che avevano studiato parlavano e scrivevano in latino […] un dialetto del Latino, come adesso, per noi, l’emiliano, il siciliano, il lombardo… […] In dialetto toscano Dante scrive la sua Divina Commedia, in dialetto toscano Petrarca scrive le sue poesie, e così quel dialetto un poco per volta diventa lingua e sostituisce il Latino. E siccome tutti gli altri dialetti non danno né documenti scritti né poeti, la lingua toscana si impone su tutti e diventa lingua italiana. […]
Purtroppo il Friuli, per tante ragioni, non ha avuto in nessun tempo un gran poeta che cantasse nella sua lingua e che gli desse splendore e rinomanza […] Verrà bene il giorno in cui il Friuli si accorgerà di avere una storia, un passato, una tradizione! […].[8]

Oltre che un’«ottima lezione di filologia romanza»,[9] il testo è uno dei primi documenti in cui Pasolini espone la sua poetica. Da esso trapela, insieme alla fede romantica nella naturale forza educatrice della poesia, la convinzione che il dialetto, usato per esprimere grandi sentimenti, può trasformarsi in lingua e quindi in poesia.[10]

Sul periodo vissuto in Friuli il poeta tornerà più volte negli anni della maturità. Queste sue dirette testimonianze vanno tenute presenti, non tanto per la ricostruzione obiettiva dei fatti, quanto piuttosto per capire il senso e il valore che queste esperienze hanno avuto per lui. Particolarmente significativo appare, da questo punto di vista, quello che dirà, alla fine degli anni ‘60, a Jean Duflot:

Il friulano non è la mia “lingua” materna […]. In effetti, si parlano tre “lingue” in Friuli: il vecchio friulano, che è una lingua completa, autonoma, come può essere il catalano o il bretone; il veneziano, parlato dalla piccola borghesia; e l’italiano. Io mi sono imbevuto del dialetto friulano in mezzo ai contadini, senza mai però parlarlo veramente a mia volta. L’ho studiato da vicino solo dopo aver iniziato a fare tentativi poetici in questa lingua. Qualcosa come una passione mistica, una sorta di felibrismo, mi spingevano ad impadronirmi diquesta vecchia lingua contadina, alla stregua dei poeti provenzali che scrivevano in dialetto, in un paese dove l’unità della lingua ufficiale si era stabilita da tempi immemorabili. Il gusto di una ricerca arcaica… Avevo diciassette anni. Scrivevo queste prime poesie friulane quando era ancora in piena voga l’ermetismo, il cui maestro era Ungaretti […]; in poche parole, tutti i poeti ermetici vivevano nell’idea che il linguaggio poetico fosse un linguaggio assoluto. […]. Presi molto ingenuamente il partito di essere incomprensibile, e scelsi a questo fine il dialetto friulano. Era per me il massimo dell’ermetismo, dell’oscurità, del rifiuto di comunicare. Invece è successo ciò che non mi aspettavo. La frequentazione di questo dialetto mi diede il gusto della vita e del realismo. Per mezzo del friulano, venivo a scoprire che la gente semplice, attraverso il proprio linguaggio, finisce per esistere obiettivamente, con tutto il mistero del carattere contadino. All’inizio ne ebbi una visione troppo estetica, fondavo una specie di piccola accademia di poeti friulani […] Col passare del tempo avrei imparato ad usare il dialetto quale strumento di ricerca obiettiva, realistica.[11]

Questa testimonianza –che conferma l’altra: «I primi anni più importanti della mia vita sono contadini, come lo sono, nel significato letterale della parola, le mie prime prove poetiche nel periodo friulano»[12]– è illuminante anche perché consente di capire meglio come la scoperta del mondo contadino sia in Pasolini mediata dalla lingua e come tale mediazione abbia contribuito a creare il primo nucleo del mito della civiltà contadina nella sua opera.

In questo contesto va inserita la fondazione della Academiuta di lenga furlana nel febbraio del 1945. Nell’atto costitutivo si ritrova l’ennesimo rimando alle teorie linguistiche ascoliane e all’ideologia delle «Piccole Patrie»:


Stabilito filologicamente (cioè con un volontario ritorno alle teorie ascoliane) che il nostro friulano non può essere considerato un dialetto […]. Il Friuli si unisce, con la sua sterile storia e il suo innocente, trepido desiderio di poesia, alla Provenza, alla Catalogna, ai Grigioni, alla Rumania e a tutte le Piccole Patrie di lingua romanza.

Malgrado il nome altisonante dato a questa sua ultima iniziativa, in polemica con il circolo filologico di Udine, Pasolini si proponeva di rompere con la tradizione friulana folcloristica, nel senso deteriore del termine, per favorire la nascita di una nuova coscienza civile e culturale. Lo spirito è, quindi, quello antiaccademico di sempre. Con il cugino Naldini, il pittore Zigaina ed altri, continua a registrare le parlate locali in interminabili uscite in bicicletta, curioso di conoscere culture diverse da quella piccolo borghese in cui è stato educato. Così lo stesso poeta –iniziato «per nascita» al «mistero di quella lingua speciale ch’è la lingua letteraria»,[13] altrove definita «il nuovo latino»[14]– s’impegna attivamente a dare dignità di lingua al dialetto parlato dai contadini di Casarsa fino ad usarlo, come vedremo tra poco, per comunicare e scrivere, anche in manifesti murali, le sue nuove convinzioni politiche.

Il sempre maggiore radicamento nella realtà friulana non impedisce a Pasolini di curare le relazioni con il suo primo recensore, Gianfranco Contini, e con la cultura europea. Così nel giugno del 1947 pubblica il Quaderno romanzo che accoglie una piccola antologia di poesia catalana, inviatagli dal monaco antifranchista Carles Cardó, conosciuto tramite Contini. Si tratta di uno dei documenti che meglio spiegano come la giovanile passione per la filologia avesse in nuce un risvolto politico. Particolarmente eloquente appare la presentazione che ne fa:

La dittatura fascista di Franco ha condannato la lingua catalana al più duro ostracismo, espugnandola non solo dalla scuola e dai tribunali, ma dalla tribuna, dalla radio, dalla stampa, dal libro e perfino dalla Chiesa. Ciò nonostante, gli scrittori catalani seguitano a lavorare nelle catacombe in attesa del giorno […] in cui il sole della libertà splenderà di nuovo su quella lingua, erede della provenzale, che fu la seconda in importanza –dopo l’italiana– nel Medio Evo e che oggi è parlata in Spagna, in Francia […] e in Italia […] da non meno di sei milioni di persone.[15]

Come si vede il giovane Pasolini fonda il diritto all’autonomia politica della Catalogna sulla riconosciuta differenza della lingua catalana rispetto alla castigliana. Con analoghe argomentazioni, un anno prima, lo stesso Pasolini aveva rivendicato il diritto all’autonomia politica del suo Friuli, in diversi articoli pubblicati in giornali e periodici locali. [16]

Il 1947 è l’anno in cui il nostro autore non solo aderisce al PCI, ma diventa segretario della sezione comunista di San Giovanni a Casarsa. Pertanto, in questi primi anni della sua formazione, ci troviamo di fronte a un Pasolini che è insieme un poeta, un filologo e un attivista politico con una fortissima vocazione pedagogica. Anche se le ricostruzioni autobiografiche vanno sempre prese con il beneficio dell’inventario, ci sembra attendibile quello che Pasolini ha scritto di sé a proposito della decisione d’iscriversi al PCI nel 1947, due anni dopo l’uccisione del fratello Guido da parte di un gruppo di partigiani comunisti:[17]

ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del Lodo De Gasperi doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato invece nel 1962 col titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci.[18]







Anche se non conosciamo il modo in cui Pasolini partecipò alle lotte dei braccianti friulani nell’ultimo dopoguerra, rimane un dato di fatto il continuo rimando a questa esperienza che il poeta fa in più luoghi e che costituisce lo sfondo de Il sogno di una cosa.Particolarmente significativo sembra quanto riferito l’8 luglio 1961 suVie Nuove, soprattutto perché rivela il percorso lungo e complicatoseguito dal giovane:

Allora io vivevo in Friuli, che era un po’ un paese ideale, quasi fuori dallo spazio e dal tempo, una specie di sentimentale e poetica Provenza, per me, che scrivevo poesie rimbaudiane o verlainiane o lorchiane in friulano. Quei mesi di lotte contadine, a cui ho fisicamente partecipato, occhi e orecchi ben tesi, hanno trasformato il Friuli in un paese reale, e i suoi abitanti da antichi provenzali in esseri viventi e storici. Sembrerebbe una cosa così semplice: invece è stata lunga e complicata: ho dovuto compiere con la ragione tutto un viaggio di ritorno dal territorio in cui mi ero addentrato con la più folle, turbata e univoca delle fantasie […] è stata la diretta esperienza dei problemi degli altri che ha trasformato radicalmente i miei problemi: e per questo io sento sempre alle origini del comunismo di un borghese una istanza etica, in qualche modo evangelica.[19]

Tra i pochi documenti della breve ma intensa militanza di Pasolini nelle file del PCI ci sono rimasti alcuni manifesti, scritti di suo pugno in friulano, verso la fine degli anni ‘40, per le campagne elettorali condotte dalla sezione che dirigeva.

La maggiore sorpresa leggendoli è constatare come in essi si ritrovi, tra l’altro, la prima espressione di un tema particolarmente caro al Nostro –il rapporto che lega il cristianesimo al comunismo– ripreso lungo tutti gli anni ‘60 fino agli ultimi suoi scritti. A titolo di esempio, ecco di seguito il testo di uno di questi manifesti, intitolato L’anima nera, scritto nella lingua parlata realmente dai contadini di Casarsa, ben lontana da quella concepita in laboratorio per scrivere le sue prime poesie:

Se e sia duta sta pulitica ch’a fan i predis cuntra di nualtris puares? A saressin lour cha varesin da vei il nustri stes penseir; a ni par che i nustri sintimins a sedin abastanza cristians! Sers democristians a si fan di maraveja se i Comunisc a van a Messa quant che i comunisc a podaressin fasì a mondi di pì maraveja par jodi chei democristians ch’a van a Messa cu l’anima nera coma il ciarbon.[20]






In queste parole di denuncia dell’ipocrisia dei preti democristiani del tempo si intravede la stessa motivazione etica della critica serrata che, negli anni successivi, Pasolini condurrà contro l’intera classe dirigente nazionale.

Questi manifesti pare che siano stati particolarmente efficaci se, come ha rilevato Enzo Siciliano, contribuirono a far vincere le elezioni ai comunisti di San Giovanni, in una regione dove la DC aveva la maggioranza assoluta. Al contempo dovettero suscitare invidie e malevole attenzioni. Così il 15 ottobre del 1949 Pasolini viene segnalato ai carabinieri di Cordovado per presunta corruzione di minorenni. Prima ancora della sentenza giudiziaria che lo assolverà, arriva l’espulsione dal partito per indegnità morale con un terribile comunicato pubblicato su l’Unità:


Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese.

Nonostante il grande dolore provato dal giovane Pasolini, decisa e puntuale sarà la sua replica:


Non mi meraviglio della diabolica perfidia democristiana; mi meraviglio invece della vostra disumanità; […] parlare di deviazione ideologica è una cretineria. Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico della parola.[21]

Secondo Roberto Roversi questa dolorosa esperienza va considerata «nodale» nella storia di Pasolini.[22] L’essere stato messo al bando della società civile, l’aver perso il lavoro, l’essere stato espulso dal partito nel quale militava, l’aver sentito su di sé la condanna e l’esclusione dalla sua classe di appartenenza, ha sicuramente contribuito a farlo sentire particolarmente vicino al mondo del sottoproletariato romano negli anni ‘50, al residuo mondo contadino sopravvissuto nel Meridione d’Italia degli anni ‘60, e a tutti i “dannati della terra” fino all’ultimo dei suoi giorni.


Francesco Virga



Nessun commento:

Posta un commento