Il cinema classico in frammenti. Vizio di forma (Inherent Vice) di Paul Thomas Anderson
di Pietro Bianchi
Ogni volta che si deve parlare di un
film di Paul Thomas Anderson è quasi inevitabile sentir accostare il suo
cinema a quello di altri grandi americani contemporanei: Robert Altman,
Martin Scorsese, i fratelli Coen, Gus Van Sant e così via. Al pari di
questi e di pochi altri, il suo cinema è come se fosse già stato assurto
al livello di classico contemporaneo della storiografia cinematografica
a venire. La ragione è presto detta: a fronte di un’industria
dell’intrattenimento, come quella di Hollywood, che a partire dagli anni
Ottanta ha sostanzialmente annientato ogni tipo di riflessione
esplicita sulla forma (pochi ormai quelli che riescono a sfruttare un
“blockbuster” per un proprio percorso estetico autonomo, come
Christopher Nolan o Michael Mann), è come se questi pochi registi
fossero davvero rimasti gli ultimi a porsi ancora delle domande sulle
ragioni profonde della messa in immagini della realtà.
Se è vero, come pensa Fredric Jameson, che la postmodernità si caratterizzi soprattutto per un processo di naturalizzazione
del capitalismo – proprio perché il capitalismo ha nella sua natura
quella di dissimulare se stesso e apparire in una forma invertita –
risulta allora evidente come il cinema della più grande industria
dell’intrattenimento mondiale abbia da sempre adempiuto in modo efficace
a questo compito. Tuttavia, come sa chiunque abbia imparato ad amare il
cinema di Hollywood, le ciambelle raramente escono col buco, e molto
spesso la messa in forma di un’ideologia dice sempre qualcosa di più o
qualcosa di meno di quello che il suo ruolo sociale o economico gli
prescriverebbe. I registi sopra citati (l’elenco sarebbe evidentemente
molto più lungo e discorso a parte andrebbe fatto per il cinema
francese, dell’Estremo Oriente o di altre zone del mondo) sono allora
tra i pochi che ad Hollywood riescono ancora ad abitare in modo
problematico questo spazio di libertà formale sempre più angusto.
Tuttavia qui sarebbe interessante
prendere nota delle differenze. I Coen ad esempio, hanno da sempre
deciso di abbracciare la molteplicità in frammenti del mondo che ci
circonda. Con uno sguardo ironico e cinico allo stesso tempo,
compiaciuto nel mettersi a distanza dalla realtà, hanno fatto del loro
cinema un cantico del mondo come pura combinatoria casuale, dove
qualunque tipo di evento è solo il frutto dell’incontro insensato di
mille frammenti marginali. Apologeti dell’assenza di un centro, il loro è
un cinema che ha perso non solo ogni possibilità di enunciazione di una
verità (sempre casuale, contingente e di fatto mai da prendere sul
serio), ma anche ogni possibilità di tragedia e di conflitto di forze
oppositive (significativa la totale assenza del peso simbolico della
morte nei loro film). Gus Van Sant invece ha cercato di cogliere nei
margini esclusi di un mondo in frammenti delle possibilità, seppur
fugaci e limitate, di ri-sublimazione della realtà (Paranoid Park e Will Hunting,
commercialmente così diversi, condividono questo stesso spirito).
Mentre Scorsese ha sostituito alla pretesa di totalizzazione formale del
cinema classico, il rapporto singolare che alcuni protagonisti del suo
cinema hanno intrattenuto con la paradossalità perversa e carnale della
Legge: come se a fronte di un mondo ridotto in frammenti egoisti,
esistesse comunque la possibilità unificatrice del peccato (e della sua
redenzione).
Quello che però manca a tutti è l’idea
propriamente modernista di pensare alla forma cinematografica come
annuncio di una possibile totalizzazione del mondo in frammenti del
capitalismo (come nella comunità di My Darling Clementine di
John Ford). È questa una delle contraddizioni fondamentali che ha
attraversato la storia del cinema del ventesimo secolo: è la forma
cinematografica la prefigurazione di un superamento della frammentazione
del mondo moderno, o è invece la sua dissimulazione ideologica? Il
cinema mette in forma d’immagine i contrasti e i conflitti del nostro
mondo, o è invece ciò che ci impedisce di vederli? È una visione delle
contraddizioni o è invece ciò che il sabato sera per un paio d’ore ci
permette finalmente di non vederle?
Se è vero che il progetto modernista in
questa fase storica pare essere stato messo definitivamente in scacco,
non è detto che lo sia anche la domanda sulla sua possibilità. Nessuno
oggi potrebbe fare un film come lo faceva John Ford nel suo periodo
rooseveltiano, eppure non è detto che la memoria di quello sguardo debba
essere completamente perduta.
È a partire da questo problema che
possiamo misurare l’eccentricità che occupa il cinema di Paul Thomas
Anderson, quanto meno a partire da The Master, il film in cui
il regista di Los Angeles ha smesso definitivamente di essere l’ “Altman
del futuro”, o il “nuovo Scorsese”, e ha raffinato il percorso di
maturazione stilistico iniziato con le sue prime opere degli anni
Novanta per portarlo in una direzione inedita e originale. Anderson
infatti ha poco o niente a che spartire con chi si compiace della
mancanza di un centro o della proliferazione di frammenti. Il suo
potrebbe essere definito un cinema dove lo sguardo del classicismo
hollywoodiano si posa sul mondo molteplice, centrifugo e caotico della
postmodernità.
Lo vediamo già dal trattamento del romanzo Inherent Vice:
nonostante la sceneggiatura sia di fatto composta da vere e proprie
sezioni del libro di Pynchon, è significativo vedere quali siano gli
interventi formali di P.T. Anderson, a partire dalle splendida sequenza
d’apertura in cui Shasta piomba a casa di Doc Sportello a Gordita Beach
dopo di anni d’assenza. Nel libro il dialogo è serrato, Pynchon usa un
lessico su filo del grottesco, con molti neologismi e modi di dire
insoliti anche per l’inglese colloquiale che viene usato nel racconto.
Inoltre le osservazioni del narratore sono “doppiate” da Shasta stessa
che commenta ironicamente le reazioni di Doc quasi come se fosse un
secondo narratore, dando un ulteriore elemento di assurdità alla scena.
Anderson mantenendo intatta la struttura del dialogo decide però di guardarlo a modo suo: rallenta la sequenza, la avvolge in una luce bluastra irreale con una ballad
quasi indistinguibile in lontananza, e soprattutto sceglie di
inquadrare i personaggi con dei piani per lo più stretti, spesso dei
veri e propri primi piani. Vale lo stesso discorso qui che fece Roberto
Manassero riguardo all’utilizzo del formato panoramico in The Master in una splendida recensione di
qualche anno fa: “Anderson non è uno sprovveduto, e come Minnelli usava
il formato panoramico per i melodrammi familiari, trasformando case
borghesi anni cinquanta in praterie di solitudini, decide di sfruttare
il grande formato non per allargarsi, ma per andare in profondità, per
scavare nella testa dei personaggi”. Anche qui lo sguardo della macchina
da presa entra in profondità, isola i personaggi dal contesto, li
singolarizza. L’effetto è straniante, a maggior ragione in un film che
fa della coralità dei molti personaggi coinvolti e della comicità ai
limiti dell’assurdo uno dei suoi tratti caratteristici. Ma proprio per
non fare di Inherent Vice una specie di Paura e delirio a Las Vegas,
il registro grottesco e ironico è continuamente contrappuntato da
momenti drammatici, sentimentali, finanche erotici. Il film è insomma
attraversato da vistosi cambi di registro che sembrano vivere di una
propria singolare intensità e coesistere gli uni accanto agli altri.
Inherent Vice è costruito attorno a una vicenda che ricorda la più classica delle detective story. Tuttavia il plot
è così arzigogolato da far smarrire anche lo spettatore più attento
(c’è bisogno di 2 o 3 visioni per riuscire a ricostruire anche solo i
tratti essenziali della vicenda). Questo però non è un limite, ma è
semplicemente l’approccio che il film chiede di assumere allo
spettatore: non la ricostruzione della totalità della vicenda per
riuscire ad illuminarne il senso generale, ma il passaggio da un
particolare a un altro, da un frammento a un altro. Paul Thomas Anderson
lo spiegava a proposito di Intrigo internazionale di Hitchcok: “Intrigo Internazionale?
Spiegami com’è che è finito in mezzo a quel campo con un aereo che lo
insegue? Non me lo ricordo. Com’è che è finito sul monte Rushmore? Non
lo so, ma rimane bellissimo”.
Così allo stesso modo in Inherent Vice è
come se passassimo continuamente da un film a un altro, che coesistono
così nella loro singolarità: dall’ironia grottesca e leggera della prima
mezz’ora, al dramma della sequenza dell’uccisione di Puck Beaverton e
Adrian Prussia. Ma viviamo anche con un’intensità fugace e malinconica i
ricordi della storia d’amore di Shasta e Doc quando li vediamo in
flashback correre sotto la pioggia di Sunset Boulevard sulle note di Journey Through the Past
di Neil Young, così come entriamo improvvisamente in un film erotico
quando Shasta si fa trovare a casa di Doc completamente nuda in una
delle più intense scene di seduzione di recente memoria. Inherent Vice
è insomma apparentemente un film frammentato, e tuttavia lo è in una
modalità assolutamente inedita. Non c’è qui nulla del compiacimento di
chi vede i frammenti del nostro mondo dal punto di vista
dell’esaurimento della forma modernista e della sua crisi (dove vi sono
dei frammenti che si espongono in quanto frammenti). Inherent Vice
ci mostra semmai dei frammenti come se fossero visti con lo sguardo del
cinema classico, che riesce a inquadrarli nel paradigma del dramma,
dell’epopea sentimentale, del racconto erotico. Ed in questo senso è un
film capace nello stesso tempo di mostrare il massimo della
disorganizzazione caotica, accanto al “ricordo” della forma totalizzante
del cinema classico.
Quando la totalità come principio di
organizzazione del molteplice del mondo non riesce più a darsi nel
contemporaneo, è tuttavia possibile almeno questo: vedere i frammenti
del nostro mondo senza alcun compiacimento, come se li guardassimo con
gli occhi di una totalità oltre la sua stessa sparizione. Vuol dire che
oltre la crisi della forma cinematografica classica, non esiste solo
l’apologia della molteplice disordinato. È come se Paul Thomas Anderson
riuscisse a conservare lo sguardo del cinema classico oltre la sua
stessa morte. E in questo riesce a essere uno dei pochi oggi (forse
l’unico) a saperlo davvero reinventare.
Da: http://www.leparoleelecose.it/ 1 marzo 2015
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