Una grande esposizione
dedicata ai riti dei popoli subsahariani inaugura il Mudec, il Museo
delle Culture di Milano.
Marino Niola
Alle origini dell’arte
nera che incantò l’Occidente
Senza l’Africa, l’arte moderna non sarebbe stata la stessa. E con ogni probabilità non avremmo capolavori come le “Demoiselles d’Avignon” di Pablo Picasso, la “Testa d’uccello” di Max Ernst. E nemmeno “L’uomo che cammina di Giacometti”.
In realtà il Continente
Nero, dalla seconda metà dell’Ottocento è il grande serbatoio
dell’immaginario europeo in cerca di nuove chiavi per decifrare il
mistero dell’uomo. Quelle chiavi che la cultura occidentali sente
di aver smarrito. Ed è allora che l’arte africana diventa un
anticorpo creativo, il potente vaccino esotico da iniettare nelle
vene esauste del vecchio mondo.
All’influenza africana nell’estetica della modernità il Mudec di Milano dedica la bellissima mostra “Africa. La terra degli spiriti”, curata da Ezio Bassani, Lorenz Homberger, Gigi Pezzoli e Claudia Zevi, aperta da oggi al 30 agosto.
All’influenza africana nell’estetica della modernità il Mudec di Milano dedica la bellissima mostra “Africa. La terra degli spiriti”, curata da Ezio Bassani, Lorenz Homberger, Gigi Pezzoli e Claudia Zevi, aperta da oggi al 30 agosto.
Artefici di questa storica trasfusione artistica sono, non per nulla, gli esponenti delle avanguardie. Cubisti, dadaisti e, soprattutto, surrealisti. La cui missione è smontare l’uomo in mille pezzi per capire com’è fatto veramente, quali sono gli spiriti e le potenze sconosciute che si agitano sotto la superficie rassicurante della ragione e dell’apparenza. Facendo affiorare un’estraneità spaesante dietro la familiarità del sembiante.
Così il volto stesso
diventa un inganno, una maschera illusoria. Proprio come l’idea di
persona. Che la psicanalisi mette a nudo calandosi nelle profondità
del sé. Mentre l’antropologia va a cercare fuori di sé, in mondi
lontani. Come scriveva André Breton, nel suo Manifesto del
surrealismo , il nuovo compito dell’artista è quello di discernere
sempre più chiaramente ciò che si trama all’insaputa dell’uomo
nel profondo del suo spirito.
Insomma le avanguardie rimettono in questione i fondamenti eurocentrici della società e dell’umanità stessa. E scelgono l’Africa come paradigma. Non a caso lo studio di Breton, ora ricostruito al Centre Pompidou di Parigi, è un’autentica wunderkammer esotica in cui i pezzi africani fanno la parte del leone.
Maschere, copricapi,
feticci, scudi, pali totemici, teste di antenati. La presenza
dominante di opere primitive materializza letteralmente l’immaginario
dell’artista, rende esplicite le fonti della sua ispirazione. E al
tempo stesso mostra il suo rifiuto della cultura e dell’estetica
tradizionali.
Anche perché per queste
avanguardie, le opere dell’art nègre non sono mere cose, materiali
a disposizione di una contemplazione inerte e compiaciuta. Ma
repertori di forme e di strumenti vivi, dialoganti con l’osservatore.
E indispensabili per
costruire un nuovo profilo dell’uomo, anche attraverso lo studio
delle funzioni e del significato che quei manufatti hanno nelle
culture d’origine. Istanza ben presente ai curatori della mostra
milanese che hanno avuto la sensibilità di ricondurre ogni oggetto
entro il suo contesto sociale, culturale, spirituale.
Ogni opera diventa così
la traccia significante di una storia e di una civiltà. Ma anche un
modo per specchiarci in quella umanità, nella speranza di cogliere
una diversa immagine di noi stessi. Di scorgere nel mistero degli
altri qualcosa del nostro mistero che ci sfugge.
Come diceva Picasso,
quando raccontava ad André Malraux di aver visitato il Musée de
l’Homme, allora al Palais du Trocadéro, e di essere stato
letteralmente catturato dalle maschere africane, come immobilizzato
da una forza ignota. «Le maschere non erano come le altre sculture:
erano qualcosa di magico, si ergevano contro tutto, contro gli
spiriti ignoti e minacciosi. E io continuavo ad ammirare quei
feticci... E capii. Anch’io mi ergo contro tutto. Anch’io credo
che tutto è sconosciuto, tutto è nemico».
Forse è per questo che
due delle sue demoiselles hanno come volto delle maschere africane.
Che negli anni in cui il pittore malagueño concepisce l’opera
stanno per diventare un caso artistico. Grazie anche alla spedizione
di ricerca Dakar-Gibuti, cui partecipano personaggi come lo scrittore
e antropologo Michel Leiris, l’etnologo africanista Marcel Griaule,
il musicologo André Schäffner — che regala a Georges Braque una
splendida arpa antropomorfa dei Mangbetu del Congo — Georges Henry
Rivière, il museologo che ha il coraggio di mettere in vetrina al
Musée de l’Homme un’opera d’arte in carne ed ossa, come la
Venere nera Josephine Baker. Non perché la ritenga una
donna-oggetto, ma perché considera la sua danza un autentico
capolavoro.
La memoria di quella missione gloriosa è consegnata ad un celebre numero di Minotaure, rivista simbolo del surrealismo, in cui i due editori, Albert Skira e Tériade, al secolo Stratis Eleftheriadis, originario di un luogo ultrapoetico come Lesbo, scrivono che l’etnografia è indispensabile al rinnovamento dell’arte occidentale, proprio in quanto svela altri mondi sociali ed estetici.
E così fa riaffiorare
anche il fondo dimenticato dei nostri. È quel che fa Pablo Picasso
nelle sue teste di toro, mescolando il selvaggio con l’antico,
perché il primo serva da filo d’Arianna per ritrovare il senso del
secondo. Ed è quel che fa Pasolini, in “Edipo Re” e nella
“Orestiade africana”, dove la Madre Nera diventa la grande
matrice visiva del nostro immaginario sommerso.
Un continente perduto dei
nostri sensi. Riaffiorante all’improvviso in certe statue di ebano
Dogon, che ci fissano nella penombra, con i loro occhi esorbitati
come quelli dei bronzi ellenistici. Così l’Africa presta i suoi
feticci ad un Occidente in cerca dei suoi spiriti.
La Repubblica – 27 marzo 2015
Settemila opere tra
monili, armi maschere: è il “deposito” a cielo aperto dell’ex
acciaieria Ansaldo che ospita il Museo delle Culture.
Chiara Gatti
Nell’hangar
universale dell’etnologia
Sono settemila opere e potreste (volendo) vederle anche tutte. Allineate in vetrine, teche e cassettiere stipate di oggetti tribali, monili, armi, tessuti, maschere e reliquiari. Sembra un archivio della cultura universale, un fondaco delle arti primigenie.
È così che si
presentano i depositi a cuore aperto del neonato Mudec, acronimo di
Museo delle Culture, che inaugura oggi la sua vita, dopo quindici
anni dal concorso che, nel 2000, affidò alle mani dell’architetto
inglese David Chipperfield il cantiere dell’ex acciaieria Ansaldo,
da trasformare in un hangar dell’etnologia.
Nei suoi 17mila metri
quadrati di spazio, il Comune di Milano decise, allora, di riversare
un patrimonio vasto e prezioso: le raccolte delle civiltà
extraeuropee, sparse nei sotterranei del Castello Sforzesco, per le
quali si sognava una collocazione definitiva.
Che arriva ora, giusto in
tempo con la svolta antropologica imboccata dal sistema delle visual
arts, complici i saggi del critico americano Hal Foster sulle
connessioni fra arte e storia dell’uomo, il taglio (non a caso,
antropologico) dell’ultima Biennale di Venezia e di quella che
verrà, segnata già nel titolo — Tutti i futuri del mondo — da
un approccio globale.
Guardando a Parigi e alla riorganizzazione del Musée du quai Branly, nel nuovo spazio di Jean Nouvel sul lungosenna, modello straordinario di un viaggio nel ventre caldo della terra, il Mudec segue la scia e rilancia con un format affascinante, scelto della direttrice Marina Pugliese, decisa a mixare etnografia e contemporaneità. «Le affinità fra arte contemporanea e arte primitiva sono moltissime.
L’idea è quella di
metterle in contatto». L’uso dei materiale organici, le tracce
sonore, i riti e i miti sono elementi che ritornano come un mantra
dal primitivismo degli anni Sessanta alle performance più recenti.
Il culto per i filati, l’artigianalità, i motivi tessili hanno
ispirato il design d’ultima generazione.
Lo spirito del magico, i temi eterni dell’identità, del cammino, della morte, sono condivisi da artisti di ogni epoca e latitudine. «Un laboratorio di restauro per specialisti ospiterà workshop con ospiti internazionali e avremo corsi di etnologia e approfondimenti sulle tecniche, dalle lacche orientali con esperti giapponesi alle conservazioni delle piume con una studiosa in arrivo dal Getty di Los Angeles. Sarà come avere il mondo dentro al museo».
Per fare questo, accanto
alle esposizioni temporanee, come Africa e Mondi a Milano —
affidate alla produzione del gruppo 24ore Cultura, partner privato
vincitore del bando per la gestione degli eventi — il Mudec
adotterà un principio autarchico: quello che c’è in collezione
basta e avanza per fare ricerca, inventare percorsi, costruire
dialoghi. E il bacino a cui attingere sono proprio i depositi,
corridoi algidi di scaffali rigorosi, fin da adesso visitabili (su
prenotazione) come un museo dentro il museo.
Le opere d’art nègre, precolombiana, orientale, le insegne indigene, i tessuti andini, i reperti della Nuova Guinea lanciano messaggi su sentimenti assoluti, comuni ai popoli di tutte le geografie, confermando il motto che tutta l’arte è contemporanea.
Perciò, chiusi i due big
show in corso e terminata la maratona di Expo, molti pezzi usciti dai
caveau nutriranno, in autunno, un percorso dedicato alla nascita del
collezionismo esotico con la ricostruzione della celebre
wunderkammer, la camera delle meraviglie di Manfredo Settala,
canonico del Seicento, globetrotter dagli interessi scientifici,
creatore di un museo personale specchio dell’ansia dell’uomo
moderno di esplorare il mondo (s) conosciuto e portarsene a casa un
pezzetto. Tutto questo sotto un logo (grafico) studiato dello studio
FM: una M con le corna cambia i connotati evocando maschere
misteriose, artefatti dal fascino potente, tribale e mistico.
La Repubblica - 27 marzo
2015
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