25 marzo 2015

IL PESO DELLA MAFIA NELLA STORIA DI BOLOGNETTA








 Ci siamo già occupati in questo blog dell’ultimo lavoro dell’amico Santo Lombino (cfr. http://cesim-marineo.blogspot.it/2015/02/santo-lombino-il-grano-lulivo-e.html). Torniamo volentieri a farlo anche per invitare i nostri lettori a partecipare alla presentazione del libro che si terrà sabato prossimo a Palermo.
Oggi ci soffermiamo brevemente a parlare di uno dei temi centrali analizzati con acribia dal libro.
Giovanna Fiume e Pasquale Marchese trent’anni fa, nell’introdurre un prezioso libretto che parlava di Marineo ( G. Cirillo Rampolla, Suicidio per mafia. Ricorso al Ministro dell’Interno (1887), La Luna, Palermo 1986) notavano giustamente come i mafiosi che hanno occupato la scena della Sicilia Occidentale ( dai piccoli centri a Palermo) nel XIX secolo non erano dei briganti emarginati dalla “società civile” ma esponenti delle stesse classi dirigenti del tempo, insediati “legalmente” nei Municipi con a capo, spesso,  gli stessi sindaci: “Qui, come altrove, la mafia rappresenta il modo degenerato di gestire le risorse locali, detenendo saldamente le leve del potere politico nei municipi” (pp.16-17).
La storia di Bolognetta di Santo Lombino , tra i tanti altri suoi meriti, ha quello di fornire ulteriori documentate prove di quanto sopra affermato. Pubblichiamo anche per questo alcune pagine del libro, che ci ha gentilmente concesso l’autore. (fv)

L’assassinio di Giorgio Verdura (1879)
Un delitto politico-mafioso nell’Ottocento    
 
1. La denuncia del sindaco.
Dopo il rifiuto di diversi “notabili” di Ogliastro ad assumere la carica di sindaco del paese, il prefetto di Palermo punta sull’ex-brigadiere Giorgio Verdura, nominandolo sindaco per il triennio 1876-78.
Verdura, a giudizio del questore di Palermo, gode della pubblica stima, ha una buona posizione economica e sociale e ha fatto parte del corpo dei Reali Carabinieri per tredici anni. Sempre secondo la questura, pur essendo originario di Messina, egli ha in Ogliastro “una parentela stimata e piuttosto estesa”, avendo sposato tale Maria Lo Faso fu Carmelo. Inoltre – elemento nient’affatto trascurabile – Verdura viene considerato estraneo alle fazioni in lotta ed allineato su posizioni filo-governative, il che non dispiace alla questura palermitana.
Tuttavia l’amministrazione Verdura entra in crisi dopo la campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale. Vengono rivolte pesanti accuse al sindaco, che “per smania di potere” si è circondato persino di individui “ammoniti e pregiudicati”. A partire dal 24 luglio 1878 il sindaco Verdura invia alle autorità del mandamento, della provincia e del circondario una circostanziata denuncia contro il notaio Vincenzo Benanti, che i carabinieri indicheranno  nell’aprile 1880 come capo della mafia locale, i suoi fratelli Antonino e Rosario, i fratelli Giovanni e Giuseppe Monachelli, il dottor Antonino Calivà, tutti appartenenti al cosiddetto “partito” Benanti,  all’opposizione del sindaco. Verdura li accusava di aver ideato il suo assassinio e quello del farmacista Lorenzo Bannò, la devastazione nelle proprietà di campagna di Ignazio Romano, collettore delle imposte e tesoriere comunale.  Gli esecutori materiali del progetto criminoso erano indicati in tali Giampaolo Natale di Rosolino e Francesco Di Fresco figlio di ignoti, entrambi domiciliati in Ogliastro, con la promessa di 300 lire di ricompensa. Non sappiamo come e da chi i Benanti siano venuti a conoscenza dell’esposto del sindaco, fatto sta che la loro reazione è forte e decisa.

2. La reazione dei Benanti
Meno di dieci giorni dopo, il notaio Vincenzo Benanti prende carta e penna anche a nome dei fratelli per scagliare un’infuocata contro-denunzia inviata al prefetto di Palermo: viene descritta l’ascesa del sindaco come persona al di sopra delle fazioni locali ed evidenziata la successiva delusione “dell’elemento intelligente” del paese -- cioè dei notabili -- per il comportamento di Verdura. Quest’ultimo viene infatti accusato di essersi montato la testa e, una volta diventato sindaco, di “aver fatto troppo sciupìo della fortunata autorità per caso acquistata” e di aver perseguitato onesti cittadini con “ingiuste misure di rigore”. Il capo dell’amministrazione comunale, secondo Benanti,  aveva addirittura preso di mira il brigadiere dei carabinieri in carica Emilio Marufati, chiedendo contro di lui misure disciplinari perché avrebbe svolto propaganda elettorale a favore dei suoi avversari politici. A questo proposito,  il notaio informa anzi apertamente il prefetto di  “avere spiegato ogni impegno verso il comando dei carabinieri, rilevando come in nulla il brigadiere (tale Marufati) avea demeritato”, confermando così candidamente di avere il potere di esercitare pressioni sugli alti gradi dell’Arma, utilizzando i suoi forti legami politici a favore del comandante della stazione dei carabinieri. A giudizio del ricorrente, Giorgio Verdura si era trasformato in un campione di ingiustizia e opportunismo, dimostrandosi “funzionario non ispirato al sentimento del proprio dovere ma spinto da un solo fine: l’ambizione.... funzionario che valendosi della sua qualità si arma contro il cittadino per dare sfogo alla più turpe passione dell’odio”. A rendere più fosco il quadro, il notaio Benanti fa sapere al rappresentante del governo che il sindaco non si è peritato di far leggere al fratello Rosario la denunzia e di informare Ignazio Romano che era intenzione dei Benanti procurare il taglio delle sue coltivazioni. Inoltre, con finta ingenuità Verdura avrebbe ironicamente ringraziato un ammonito, tal Giuseppe Ficarrotta, perché si era diffusa la voce che questi avesse rifiutato l’offerta fattagli dai mandanti. Ovviamente, Ficarrotta aveva riferito la notizia agli avversari del sindaco... A sostegno della sua accusa, Vincenzo Benanti riporta l’elenco di chi è pronto a confermarla di fronte alle autorità: Santi Adorno, segretario comunale,  “che scrisse la denunzia sotto il dettato del Verdura e ne spedì le copie”, Ignazio Romano, esattore delle imposte, presunta terza vittima designata, l’avvocato Antonino Gargano, “che raccolse dalla bocca del Romano la narrazione della infame trama”, Giuseppe Ficarrotta di cui si è detto, Giuseppe e Giovanni Monachelli, Antonino Calivà, gli altri fratelli Benanti.
3. La destituzione e il commissariamento
A questo punto, il prefetto invia un funzionario ad Ogliastro che ascolta dal sindaco la conferma dei termini della grave denunzia presentata e l’aggiunta che le notizie sul “minacciato attentato” erano a lui pervenute, in via confidenziale, da tale Antonino Vilardi. Il prefetto decide di aprire un procedimento penale, alla fine del quale si riserva di prendere gli opportuni provvedimenti. Egli attribuisce l’esposto del sindaco al clima infuocato instauratosi nell’ambito amministrativo, in cui “vari partiti si contendono accanitamente il governo della cosa comunale, non rifuggendo dai più biasimevoli maneggi e dalle arti più basse e malvagie per raggiungere l’intento”. Al partito del sindaco, circondatosi di “aderenti nemici d’ogni disciplina e non tutti immuni da precedenti penali”, si opponeva il partito Benanti-Monachelli, “forte di censo, e di capacità superiore, il quale andò mano a mano acquistando di vigore e circondandosi di largo satellizio (cioè seguito) fino a tanto che con l’esito delle ultime elezioni ottenne una notevole maggioranza di voti nel seno del consiglio”. La lotta tra le due fazioni ha prodotto “un grave disordine nell’azienda comunale, un malcontento generale nel paese verso gli attuali amministratori, segnatamente verso il sindaco, giudicato adesso “uomo pusillanime ed assai limitato di capacità” che “non offre sufficienti garanzie di buona gestione ed è pressoché esautorato”. Il prefetto si era convinto che le accuse del sindaco fossero nient’altro che “una frottola per malevolenza e per passione” dettata “da rimorsi di parte e da ragioni di inimicizia personale”, quindi interamente false. Tanto più che qualcuno lo aveva informato che il sindaco Verdura, pochi giorni dopo l’invio della denunzia, aveva concluso una trattativa con il notaio Benanti e, alla presenza di due testimoni, aveva ritrattato per  iscritto l’esposto precedente, arrivando a dichiararlo falso, calunnioso e legato “a sentimenti di mal composta vendetta”. Tali notizie, unite all’esito negativo dell’indagine prefettizia indusse infine il rappresentante del governo a chiedere, il 26 settembre, la rimozione di Verdura dall’ufficio di sindaco e lo scioglimento del consiglio comunale.
In seguito alle decisioni ministeriali, viene inviato dal prefetto l’ennesimo delegato straordinario nella persona dell’avvocato Eugenio Dionese, che si mette all’opera per affrontare le questioni amministrative più urgenti.

4. Un delitto politico-mafioso

Nel frattempo, pare che Giorgio Verdura, non più sindaco, si fosse convinto a ritrattare la denunzia, o per amore di pace, oppure nell’illusione che la scoperta del complotto potesse indurre gli avversari a desistere dai loro propositi, o ancora rassegnato di fronte alla impossibilità di fornire prove convincenti.
I fatti successivi dimostrarono fondati i suoi timori.
 Il 7 maggio 1879, di primo mattino, l’ex-sindaco si reca a Palermo con un gruppo di compaesani. Nel corso del cammino, accompagnato a tale Vincenzo La Barbera, si distanzia dalla comitiva di circa trecento metri. All’improvviso, da un campo coltivato a frumento vengono sparati i proiettili di un fucile, che vanno a colpirlo alla gamba destra e alla coscia sinistra. La Barbera si getta subito a terra, mentre dal gruppo tale Francesco Lo Brutto (molto probabilmente consigliere comunale) risponde al fuoco e “spingendosi avanti tirava due colpi di revolver verso un tale che dal punto dell’esplosione davasi a gran corsa a traverso la campagna”. I testimoni diranno che il fuggitivo era “di statura regolare, vestito di scuro” e – ovviamente -  “assai lesto”. Ferito gravemente, Verdura viene soccorso e portato all’ospedale, dove morirà alcune ore dopo, non prima di aver parlato con i parenti e gli inquirenti. In base alle sue dichiarazioni, il giudice emetteva un mandato di cattura, prontamente eseguito dai carabinieri “in persona di Ficarrotta Giuseppe fu Carlo e Giuffrida Giuseppe fu Giuseppe, ammoniti, come sospetti del crimine”. Il delegato di pubblica sicurezza di Misilmeri a casa di Ficarrotta trova solo la moglie, che dichiara che il marito era andato a lavorare in un fondo del sindaco Antonino Benanti. Alla questura risulterà però che egli era andato a “raccogliere fave in un fondo in prossimità a quello del commesso”, cioè, se non capiamo male, vicino al luogo del delitto. Naturalmente la moglie di Ficarrotta informò subito Antonino Benanti della visita avuta. Benanti, a sua volta, le consigliava di non rivelare ove si trovasse il marito e di inviare da lui eventuali inquirenti. Quando il delegato di polizia chiese al sindaco il perché di questo comportamento, egli rispose che “essendo il di lei marito... al suo servizio, gli farebbe dispiacimento che fosse stato arrestato sapendolo innocente. Il 9 maggio il giudice istruttore convoca tre persone: Francesco Lo Brutto, che aveva difeso a mano armata l’ex sindaco, Antonino Verdura, fratello del defunto e la vedova Maria Lo Faso, di anni 27. Gli ultimi due indicarono Ficarrotta come autore materiale del “truce misfatto” con la complicità di Giuseppe Giuffrida, mentre i mandanti erano da individuare nei “noti fratelli Benanti”.  Così come aveva denunciato Giorgio Verdura, circa dieci mesi prima i tre fratelli Benanti, assieme ai fratelli Giuseppe e Giovanni Monachelli e ad Antonino Calivà, “avrebbero promesso lire 300 a Ficarrotta Giuseppe, Gianpaolo Natale e Velardi Antonino per assassinare il Verdura, nonché tale Bannò Lorenzo e tagliare un vigneto di Romano Ignazio sostenitore del Verdura”. Secondo i familiari Giuffrida, “essendo una persona intima” di Lo Brutto, l’unico a sapere in anticipo del viaggio, avrebbe informato Ficarrotta. Il fratello e la moglie della vittima riferirono inoltre al magistrato che il giorno dell’assassinio lo stesso Giuffrida aveva fatto suonare a morto le campane della chiesa di Ogliastro dicendo (chissà perché?!) “al sacrestano che era morto tal Lo Cascio Giovanni tuttora vivo”.
Venti giorni dopo, il notaio Vincenzo Benanti, vedendo uscire da casa la vedova e il fratello del defunto per recarsi a testimoniare dal delegato di polizia di Misilmeri, inveisce contro di loro, accusandoli di volere gettare fango su innocenti abitanti del paese. Inoltre Antonino Benanti, facente funzione di sindaco, applicando alla lettera le norme vigenti, revoca subito la licenza di “spaccio privilegiato” al fratello del defunto, che l’aveva chiuso nei giorni del lutto, concedendola a Giuseppe Monachelli. Il comportamento dei Benanti viene rilevato dal questore di Palermo che, in una nota riservata diretta al prefetto, gli fa notare come esso “vada ormai assumendo tale aspetto di provocante ed implacabile rappresaglia contro i parenti ed aderenti dell’estinto Verdura da compromettere seriamente il regolare svolgimento della giustizia riuscendo ad intimidire senza dubbio i testimoni”. Sempre per rappresagli Antonino Benanti, in virtù dei suoi poteri di ufficiale di governo,  avrebbe ritirato ai primi di luglio il permesso di porto d’armi al trentaseienne Pietro Graziano di Giuseppe, per “sospetti di furto di covoni di grano in pregiudizio di Orobello Illuminato”. Tale provvedimento, però, avrebbe origine nelle deposizioni fatte da Graziano nel processo Verdura, tutt’altro che favorevoli al partito Benanti.

5. Le indagini e la loro conclusione.
Durante le indagini viene ipotizzata la complicità con gli autori del delitto da parte di Vincenzo La Barbera, compagno di viaggio di Giorgio Verdura. In passato, infatti, c’era stato qualche screzio tra i due, ma alla fine l’ipotesi si rivela infondata, tanto più che Luigi Bannò, anch’egli presente ai fatti e intimo amico dell’ex sindaco, aveva dichiarato che era stato Giorgio Verdura stesso a invitare La Barbera a distaccarsi con lui dalla comitiva.
Gli inquirenti inoltre vengono a sapere che tre giorni prima dell’attentato si sarebbe tenuta una riunione in casa di Giuseppe Giuffrida con l’intervento di Giuseppe Ficarrotta, il medico condotto Antonino Calivà ed altri. Si disse inoltre che il giorno dopo l’assassinio il notaio Vincenzo Benanti e tale Stefano Sclafani, “si sarebbero recati nel fondo seminato a fave in cui lavorava il Ficarrotta ed avrebbero estratto da un letamaio, vicino al punto in cui fu esploso il colpo, un fucile che asportarono seco”. Inoltre la vedova di Giorgio Verdura avrebbe appreso dal marito ferito che “accanto a colui il quale gli esplose il colpo stava Monachelli Giovanni”, che era stato licenziato, su proposta dell’ex sindaco, da scrivano del municipio. Questa notizia indusse il giudice istruttore di Palermo ad emettere, in data 6 giugno 1879, mandato di cattura “eseguibile anche di notte” nei confronti di Giuseppe Monachelli fu Luciano di anni 29, “civile”, fratello di Giovanni, in quanto complice dell’assassinio, mandato eseguito due giorni dopo.
Altro elemento emerso dalle indagini, lo strano comportamento di un carabiniere della caserma di Ogliastro, il quale in un primo momento avrebbe espresso la motivata convinzione che il mandante dell’omicidio fosse Antonino Benanti, mentre di fronte al giudice istruttore, avrebbe notevolmente ridimensionato le accuse ai Benanti e ai loro complici. Secondo quanto rivelato dalla vedova Verdura agli inquirenti, il militare avrebbe fatto questo “dietro istigazione e minacce del proprio brigadiere, il quale va a licenziarsi alla metà del prossimo agosto e che probabilmente avrà ceduto a preghiera del Benanti, di cui si è sempre mostrato amico e partigiano del di lui partito”.
Nel mese di agosto si verifica un’altra delle previsioni annotate da Giorgio Verdura un anno prima di morire: vengono infatti tagliati 510 tralci di viti “a danno di Romano Ignazio”. A questo punto il questore scrive al prefetto che “è di vero che quanto accade oggi in Ogliastro non è se non quello che precisamente in data 26 luglio 1878 l’allora sindaco Verdura segnalava in via di precauzione alle autorità politiche e giudiziarie. Allora fu creduto un calunniatore e come tale venne anche trattato...”. Oltre a fare autocritica, il funzionario teme che si possa verificare anche l’altro assassinio pronosticato da Verdura, cioè l’omicidio dell’amico farmacista Lorenzo Bannò. E conclude “le famiglie Benanti-Monachelli, rappresentano in Ogliastro la maffia locale più audace e sanguinaria tanto più baldanzosa perché finora protetta da un vasto partito”. Il prefetto concorda pienamente con l’analisi del questore e afferma che le proposte per la carica di sindaco di Ogliastro, già messe in atto, non possono essere di alcun ostacolo o impedimento “alla rigorosa applicazione della legge contro le persone sospette e pregiudicate di quel comune”, che egli propone per l’ammonizione e per una stretta sorveglianza dei sospettati, fino ad arrivare a “proposte pel loro domicilio coatto, le quali non mancherò di accogliere ed appoggiare perché abbiano piena esecuzione”. Ma intanto le funzioni di sindaco erano svolte proprio da Antonino Benanti, uno dei tre indiziati come mandanti dell’assassinio Verdura. Non abbiamo purtroppo rinvenuto un’adeguata documentazione che ci consenta di seguire gli sviluppi e le conclusioni dell’indagine giudiziaria. Fatto sta che la carriera professionale e politica del notaio Vincenzo Benanti sarebbe proseguita non solo senza inciampi di sorta ma mietendo significativi successi. Sarà sindaco dal 1880 al 1888 e consigliere comunale per decenni, fino alle dimissioni presentate nel 1905.
Santo Lombino



 


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