Ci siamo già
occupati in questo blog dell’ultimo lavoro dell’amico Santo Lombino (cfr. http://cesim-marineo.blogspot.it/2015/02/santo-lombino-il-grano-lulivo-e.html).
Torniamo volentieri a farlo anche per invitare i nostri lettori a partecipare
alla presentazione del libro che si terrà sabato prossimo a Palermo.
Oggi ci soffermiamo brevemente a parlare di uno dei temi
centrali analizzati con acribia dal libro.
Giovanna Fiume e Pasquale Marchese trent’anni fa, nell’introdurre
un prezioso libretto che parlava di Marineo ( G. Cirillo Rampolla, Suicidio per mafia. Ricorso al Ministro dell’Interno
(1887), La Luna, Palermo 1986) notavano giustamente come i mafiosi che
hanno occupato la scena della Sicilia Occidentale ( dai piccoli centri a
Palermo) nel XIX secolo non erano dei briganti emarginati dalla “società civile”
ma esponenti delle stesse classi dirigenti del tempo, insediati “legalmente”
nei Municipi con a capo, spesso, gli
stessi sindaci: “Qui, come altrove, la mafia rappresenta il modo degenerato di
gestire le risorse locali, detenendo saldamente le leve del potere politico nei
municipi” (pp.16-17).
La storia di Bolognetta di Santo Lombino , tra i tanti
altri suoi meriti, ha quello di fornire ulteriori documentate prove di quanto sopra
affermato. Pubblichiamo anche per questo alcune pagine del libro, che ci ha gentilmente
concesso l’autore. (fv)
L’assassinio di Giorgio Verdura (1879)
Un delitto politico-mafioso nell’Ottocento
1. La denuncia del sindaco.
Dopo il rifiuto di diversi
“notabili” di Ogliastro ad assumere la carica di sindaco del paese, il prefetto
di Palermo punta sull’ex-brigadiere Giorgio Verdura, nominandolo sindaco per il
triennio 1876-78.
Verdura, a giudizio del
questore di Palermo, gode della pubblica stima, ha una buona posizione
economica e sociale e ha fatto parte del corpo dei Reali Carabinieri per
tredici anni. Sempre secondo la questura, pur essendo originario di Messina,
egli ha in Ogliastro “una parentela stimata e piuttosto estesa”, avendo sposato
tale Maria Lo Faso fu Carmelo. Inoltre – elemento nient’affatto trascurabile –
Verdura viene considerato estraneo alle fazioni in lotta ed allineato su
posizioni filo-governative, il che non dispiace alla questura palermitana.
Tuttavia l’amministrazione
Verdura entra in crisi dopo la campagna elettorale per il rinnovo del consiglio
comunale. Vengono rivolte pesanti accuse al sindaco, che “per smania di potere”
si è circondato persino di individui “ammoniti e pregiudicati”. A partire dal
24 luglio 1878 il sindaco Verdura invia alle autorità del mandamento, della
provincia e del circondario una circostanziata denuncia contro il notaio
Vincenzo Benanti, che i carabinieri indicheranno nell’aprile 1880 come capo della mafia
locale, i suoi fratelli Antonino e Rosario, i fratelli Giovanni e Giuseppe
Monachelli, il dottor Antonino Calivà, tutti appartenenti al cosiddetto
“partito” Benanti, all’opposizione del
sindaco. Verdura li accusava di aver
ideato il suo assassinio e quello del farmacista Lorenzo Bannò, la devastazione
nelle proprietà di campagna di Ignazio Romano, collettore delle imposte e
tesoriere comunale. Gli esecutori
materiali del progetto criminoso erano indicati in tali Giampaolo Natale di
Rosolino e Francesco Di Fresco figlio di ignoti, entrambi domiciliati in
Ogliastro, con la promessa di 300 lire di ricompensa. Non sappiamo come e da
chi i Benanti siano venuti a conoscenza dell’esposto del sindaco, fatto sta che
la loro reazione è forte e decisa.
2. La reazione dei Benanti
Meno di dieci giorni dopo,
il notaio Vincenzo Benanti prende carta e penna anche a nome dei fratelli per
scagliare un’infuocata contro-denunzia inviata al prefetto di Palermo: viene
descritta l’ascesa del sindaco come persona al di sopra delle fazioni locali ed
evidenziata la successiva delusione “dell’elemento intelligente” del paese --
cioè dei notabili -- per il comportamento di Verdura. Quest’ultimo viene
infatti accusato di essersi montato la testa e, una volta diventato sindaco, di
“aver fatto troppo sciupìo della fortunata autorità per caso acquistata” e di
aver perseguitato onesti cittadini con “ingiuste misure di rigore”. Il capo
dell’amministrazione comunale, secondo Benanti,
aveva addirittura preso di mira il brigadiere dei carabinieri in carica
Emilio Marufati, chiedendo contro di lui misure disciplinari perché avrebbe
svolto propaganda elettorale a favore dei suoi avversari politici. A questo
proposito, il notaio informa anzi
apertamente il prefetto di “avere
spiegato ogni impegno verso il comando dei carabinieri, rilevando come in nulla
il brigadiere (tale Marufati) avea demeritato”, confermando così candidamente di avere il
potere di esercitare pressioni sugli alti gradi dell’Arma, utilizzando i suoi
forti legami politici a favore del comandante della stazione dei carabinieri. A
giudizio del ricorrente, Giorgio Verdura si era trasformato in un campione di
ingiustizia e opportunismo, dimostrandosi “funzionario non ispirato al
sentimento del proprio dovere ma spinto da un solo fine: l’ambizione....
funzionario che valendosi della sua qualità si arma contro il cittadino per
dare sfogo alla più turpe passione dell’odio”. A rendere più fosco il quadro,
il notaio Benanti fa sapere al rappresentante del governo che il sindaco non si
è peritato di far leggere al fratello Rosario la denunzia e di informare
Ignazio Romano che era intenzione dei Benanti procurare il taglio delle sue
coltivazioni. Inoltre, con finta ingenuità Verdura avrebbe ironicamente
ringraziato un ammonito, tal Giuseppe Ficarrotta, perché si era diffusa la voce
che questi avesse rifiutato l’offerta fattagli dai mandanti. Ovviamente,
Ficarrotta aveva riferito la notizia agli avversari del sindaco... A sostegno della
sua accusa, Vincenzo Benanti riporta l’elenco di chi è pronto a confermarla di
fronte alle autorità: Santi Adorno, segretario comunale, “che scrisse la denunzia sotto il dettato del
Verdura e ne spedì le copie”, Ignazio Romano, esattore delle imposte, presunta
terza vittima designata, l’avvocato Antonino Gargano, “che raccolse dalla bocca
del Romano la narrazione della infame trama”, Giuseppe Ficarrotta di cui si è
detto, Giuseppe e Giovanni Monachelli, Antonino Calivà, gli altri fratelli
Benanti.
3. La destituzione e il
commissariamento
A questo punto, il prefetto
invia un funzionario ad Ogliastro che ascolta dal sindaco la conferma dei
termini della grave denunzia presentata e l’aggiunta che le notizie sul
“minacciato attentato” erano a lui pervenute, in via confidenziale, da tale
Antonino Vilardi. Il prefetto decide di aprire un procedimento penale, alla
fine del quale si riserva di prendere gli opportuni provvedimenti. Egli
attribuisce l’esposto del sindaco al clima infuocato instauratosi nell’ambito amministrativo,
in cui “vari partiti si contendono accanitamente il governo della cosa
comunale, non rifuggendo dai più biasimevoli maneggi e dalle arti più basse e
malvagie per raggiungere l’intento”. Al partito del sindaco, circondatosi di
“aderenti nemici d’ogni disciplina e non tutti immuni da precedenti penali”, si
opponeva il partito Benanti-Monachelli, “forte di censo, e di capacità
superiore, il quale andò mano a mano acquistando di vigore e circondandosi di
largo satellizio (cioè seguito) fino a tanto che con l’esito delle ultime
elezioni ottenne una notevole maggioranza di voti nel seno del consiglio”. La
lotta tra le due fazioni ha prodotto “un grave disordine nell’azienda comunale,
un malcontento generale nel paese verso gli attuali amministratori,
segnatamente verso il sindaco, giudicato adesso “uomo pusillanime ed assai
limitato di capacità” che “non offre sufficienti garanzie di buona gestione ed
è pressoché esautorato”. Il prefetto si era convinto che le accuse del sindaco
fossero nient’altro che “una frottola per malevolenza e per passione” dettata
“da rimorsi di parte e da ragioni di inimicizia personale”, quindi interamente
false. Tanto più che qualcuno lo aveva informato che il sindaco Verdura, pochi
giorni dopo l’invio della denunzia, aveva concluso una trattativa con il notaio
Benanti e, alla presenza di due testimoni, aveva ritrattato per iscritto l’esposto precedente, arrivando a
dichiararlo falso, calunnioso e legato “a sentimenti di mal composta vendetta”.
Tali notizie, unite all’esito negativo dell’indagine prefettizia indusse infine
il rappresentante del governo a chiedere, il 26 settembre, la rimozione di
Verdura dall’ufficio di sindaco e lo scioglimento del consiglio comunale.
In seguito alle decisioni
ministeriali, viene inviato dal prefetto l’ennesimo delegato straordinario
nella persona dell’avvocato Eugenio Dionese, che si mette all’opera per
affrontare le questioni amministrative più urgenti.
4. Un delitto
politico-mafioso
Nel frattempo, pare che Giorgio
Verdura, non più sindaco, si fosse convinto a ritrattare la denunzia, o per
amore di pace, oppure nell’illusione che la scoperta del complotto potesse
indurre gli avversari a desistere dai loro propositi, o ancora rassegnato di
fronte alla impossibilità di fornire prove convincenti.
I fatti successivi
dimostrarono fondati i suoi timori.
Il 7 maggio 1879, di primo mattino,
l’ex-sindaco si reca a Palermo con un gruppo di compaesani. Nel corso del
cammino, accompagnato a tale Vincenzo La Barbera, si distanzia dalla comitiva
di circa trecento metri. All’improvviso, da un campo coltivato a frumento
vengono sparati i proiettili di un fucile, che vanno a colpirlo alla gamba
destra e alla coscia sinistra. La Barbera si getta subito a terra, mentre dal
gruppo tale Francesco Lo Brutto (molto probabilmente consigliere comunale)
risponde al fuoco e “spingendosi avanti tirava due colpi di revolver verso un
tale che dal punto dell’esplosione davasi a gran corsa a traverso la campagna”.
I testimoni diranno che il fuggitivo era “di statura regolare, vestito di
scuro” e – ovviamente - “assai lesto”.
Ferito gravemente, Verdura viene soccorso e portato all’ospedale, dove morirà
alcune ore dopo, non prima di aver parlato con i parenti e gli inquirenti. In
base alle sue dichiarazioni, il giudice emetteva un mandato di cattura,
prontamente eseguito dai carabinieri “in persona di Ficarrotta Giuseppe fu
Carlo e Giuffrida Giuseppe fu Giuseppe, ammoniti, come sospetti del crimine”.
Il delegato di pubblica sicurezza di Misilmeri a casa di Ficarrotta trova solo
la moglie, che dichiara che il marito era andato a lavorare in un fondo del
sindaco Antonino Benanti. Alla questura risulterà però che egli era andato a
“raccogliere fave in un fondo in prossimità a quello del commesso”, cioè, se
non capiamo male, vicino al luogo del delitto. Naturalmente la moglie di
Ficarrotta informò subito Antonino Benanti della visita avuta. Benanti, a sua
volta, le consigliava di non rivelare ove si trovasse il marito e di inviare da
lui eventuali inquirenti. Quando il delegato di polizia chiese al sindaco il
perché di questo comportamento, egli rispose che “essendo il di lei marito...
al suo servizio, gli farebbe dispiacimento che fosse stato arrestato sapendolo
innocente. Il 9 maggio il giudice istruttore convoca tre persone: Francesco Lo
Brutto, che aveva difeso a mano armata l’ex sindaco, Antonino Verdura, fratello
del defunto e la vedova Maria Lo Faso, di anni 27. Gli ultimi due indicarono
Ficarrotta come autore materiale del “truce misfatto” con la complicità di
Giuseppe Giuffrida, mentre i mandanti erano da individuare nei “noti fratelli
Benanti”. Così come aveva denunciato
Giorgio Verdura, circa dieci mesi prima i tre fratelli Benanti, assieme ai
fratelli Giuseppe e Giovanni Monachelli e ad Antonino Calivà, “avrebbero
promesso lire 300 a Ficarrotta Giuseppe, Gianpaolo Natale e Velardi Antonino
per assassinare il Verdura, nonché tale Bannò Lorenzo e tagliare un vigneto di
Romano Ignazio sostenitore del Verdura”. Secondo i familiari Giuffrida, “essendo una persona intima” di Lo
Brutto, l’unico a sapere in anticipo del viaggio, avrebbe informato Ficarrotta.
Il fratello e la moglie della vittima riferirono inoltre al magistrato che il
giorno dell’assassinio lo stesso Giuffrida aveva fatto suonare a morto le
campane della chiesa di Ogliastro dicendo (chissà perché?!) “al sacrestano che
era morto tal Lo Cascio Giovanni tuttora vivo”.
Venti giorni dopo, il notaio
Vincenzo Benanti, vedendo uscire da casa la vedova e il fratello del defunto
per recarsi a testimoniare dal delegato di polizia di Misilmeri, inveisce
contro di loro, accusandoli di volere gettare fango su innocenti abitanti del
paese. Inoltre Antonino Benanti, facente funzione di sindaco, applicando alla
lettera le norme vigenti, revoca subito la licenza di “spaccio privilegiato” al
fratello del defunto, che l’aveva chiuso nei giorni del lutto, concedendola a
Giuseppe Monachelli. Il comportamento dei Benanti viene rilevato dal questore
di Palermo che, in una nota riservata diretta al prefetto, gli fa notare come
esso “vada ormai assumendo tale aspetto di provocante ed implacabile
rappresaglia contro i parenti ed aderenti dell’estinto Verdura da compromettere
seriamente il regolare svolgimento della giustizia riuscendo ad intimidire
senza dubbio i testimoni”. Sempre per rappresagli Antonino Benanti, in virtù
dei suoi poteri di ufficiale di governo,
avrebbe ritirato ai primi di luglio il permesso di porto d’armi al
trentaseienne Pietro Graziano di Giuseppe, per “sospetti di furto di covoni di
grano in pregiudizio di Orobello Illuminato”. Tale provvedimento, però, avrebbe
origine nelle deposizioni fatte da Graziano nel processo Verdura, tutt’altro
che favorevoli al partito Benanti.
5. Le indagini e la loro
conclusione.
Durante le indagini viene
ipotizzata la complicità con gli autori del delitto da parte di Vincenzo La
Barbera, compagno di viaggio di Giorgio Verdura. In passato, infatti, c’era
stato qualche screzio tra i due, ma alla fine l’ipotesi si rivela infondata, tanto
più che Luigi Bannò, anch’egli presente ai fatti e intimo amico dell’ex
sindaco, aveva dichiarato che era stato Giorgio Verdura stesso a invitare La
Barbera a distaccarsi con lui dalla comitiva.
Gli inquirenti inoltre
vengono a sapere che tre giorni prima dell’attentato si sarebbe tenuta una
riunione in casa di Giuseppe Giuffrida con l’intervento di Giuseppe Ficarrotta,
il medico condotto Antonino Calivà ed altri. Si disse inoltre che il giorno
dopo l’assassinio il notaio Vincenzo Benanti e tale Stefano Sclafani, “si
sarebbero recati nel fondo seminato a fave in cui lavorava il Ficarrotta ed
avrebbero estratto da un letamaio, vicino al punto in cui fu esploso il colpo,
un fucile che asportarono seco”. Inoltre la vedova di Giorgio Verdura avrebbe
appreso dal marito ferito che “accanto a colui il quale gli esplose il colpo
stava Monachelli Giovanni”, che era stato licenziato, su proposta dell’ex
sindaco, da scrivano del municipio. Questa notizia indusse il giudice
istruttore di Palermo ad emettere, in data 6 giugno 1879, mandato di cattura
“eseguibile anche di notte” nei confronti di Giuseppe Monachelli fu Luciano di
anni 29, “civile”, fratello di Giovanni, in quanto complice dell’assassinio,
mandato eseguito due giorni dopo.
Altro elemento emerso dalle
indagini, lo strano comportamento di un carabiniere della caserma di Ogliastro,
il quale in un primo momento avrebbe espresso la motivata convinzione che il
mandante dell’omicidio fosse Antonino Benanti, mentre di fronte al giudice
istruttore, avrebbe notevolmente ridimensionato le accuse ai Benanti e ai loro
complici. Secondo quanto rivelato dalla vedova Verdura agli inquirenti, il
militare avrebbe fatto questo “dietro istigazione e minacce del proprio
brigadiere, il quale va a licenziarsi alla metà del prossimo agosto e che
probabilmente avrà ceduto a preghiera del Benanti, di cui si è sempre mostrato
amico e partigiano del di lui partito”.
Nel mese di agosto si
verifica un’altra delle previsioni annotate da Giorgio Verdura un anno prima di
morire: vengono infatti tagliati 510 tralci di viti “a danno di Romano
Ignazio”. A questo punto il questore scrive al prefetto che “è di vero che
quanto accade oggi in Ogliastro non è se non quello che precisamente in data 26
luglio 1878 l’allora sindaco Verdura segnalava in via di precauzione alle
autorità politiche e giudiziarie. Allora fu creduto un calunniatore e come tale
venne anche trattato...”. Oltre a fare autocritica, il funzionario teme che si
possa verificare anche l’altro assassinio pronosticato da Verdura, cioè
l’omicidio dell’amico farmacista Lorenzo Bannò. E conclude “le famiglie
Benanti-Monachelli, rappresentano in Ogliastro la maffia locale più audace e
sanguinaria tanto più baldanzosa perché finora protetta da un vasto partito”.
Il prefetto concorda pienamente con l’analisi del questore e afferma che le
proposte per la carica di sindaco di Ogliastro, già messe in atto, non possono
essere di alcun ostacolo o impedimento “alla rigorosa applicazione della legge
contro le persone sospette e pregiudicate di quel comune”, che egli propone per
l’ammonizione e per una stretta sorveglianza dei sospettati, fino ad arrivare a
“proposte pel loro domicilio coatto, le quali non mancherò di accogliere ed
appoggiare perché abbiano piena esecuzione”. Ma intanto le funzioni di sindaco
erano svolte proprio da Antonino Benanti, uno dei tre indiziati come mandanti
dell’assassinio Verdura. Non abbiamo purtroppo rinvenuto un’adeguata
documentazione che ci consenta di seguire gli sviluppi e le conclusioni
dell’indagine giudiziaria. Fatto sta che la carriera professionale e politica
del notaio Vincenzo Benanti sarebbe proseguita non solo senza inciampi di sorta
ma mietendo significativi successi. Sarà sindaco dal 1880 al 1888 e consigliere
comunale per decenni, fino alle dimissioni presentate nel 1905.
Santo Lombino
Nessun commento:
Posta un commento