Massimo Firpo
Conquiste
dell’Illuminismo. Liberi di pensare apertamente
Il primo paese europeo ad abolire la censura preventiva fu l’Inghilterra, nel 1695, all’indomani della «gloriosa Rivoluzione» che, con la cacciata gli Stuart, aveva visto l’affermarsi di un sistema politico molto diverso rispetto all’assolutismo dei re per diritto divino imperante sul continente.
Era passato mezzo secolo
da quando nel 1644 l’Areopagitica di John Milton aveva rivendicato
la libertà di stampa nel crogiolo di un’altra e più sanguinosa
rivoluzione, conclusasi con la decapitazione di Carlo I e con il
Commonwealth cromwelliano.
Proprio con lo sguardo
volto al modello inglese, alle sue libertà, al suo pluralismo
religioso nel 1733 Voltaire pubblicò a Londra le sue Letters
concerning the English Nation, apparse in francese l’anno dopo con
il titolo di Lettres philosophiques, che evoca l’emergere di nuovi
protagonisti – i philosophes appunto – di una cultura nutrita dei
succhi deisti, libertini e radicali che avevano innervato la crisi
della coscienza europea tra Sei e Settecento: una crisi maturata
sullo sfondo del definitivo esaurirsi delle guerre di religione, del
cupo tramonto del lungo regno del re Sole Luigi XIV, della dirompente
ascesa politica e culturale dell’Inghilterra di John Locke, Isaac
Newton, John Toland, Anthony Collins e delle Province Unite di Baruch
Spinoza, Jean Leclerc, Pierre Bayle.
L’Illuminismo francese
avrebbe sviluppato tali tensioni intellettuali in direzioni
molteplici, fino ad approdi esplicitamente atei e materialisti, dando
ad esse una sempre più consapevole dimensione politica
nell’affrontare questioni che implicavano l’affermarsi di diritti
umani sottratti al controllo del potere, politico o religioso che
fosse.
Per questo Denis Diderot,
l’ideatore e animatore di quel vero e proprio monumento delle
Lumières che fu l’Encyclopédie (1751-1772), ripeteva che se gli
fosse stato impedito di parlare di politica e religione non avrebbe
avuto più niente da dire.
Al primato di uno spirito
critico fondato sulla ragione, insomma, non tardò ad affiancarsi la
rivendicazione del diritto al suo uso pubblico, al libero confronto
delle idee, con un decisivo passaggio dalla libertà di pensiero alla
libertà di espressione. Proprio per questo, com’è noto, molti di
quei philosophes, tra i quali gli stessi Voltaire a Diderot,
sperimentarono le durezze del carcere.
Non stupisce che la questione della censura diventasse cruciale in questo turbine di rinnovamento intellettuale, né che a difesa di essa si schierassero le autorità politiche e religiose, pur in conflitto giurisdizionale tra loro in merito al controllo della stampa.
Furono solo re Gustavo
III di Svezia nel 1766 e in parte l’imperatore Giuseppe II nel 1787
a seguire l’esempio inglese, non certo Luigi XVI di Francia, né
Federico II di Prussia o Caterina II di Russia, che pure si erano
atteggiati ad ammiratori di Voltaire e Diderot.
Ed è in questa vicenda
storica che Patrizia Delpiano guida il lettore, studiando il
dipanarsi di discussioni e polemiche in Francia e in Italia
attraverso le voci sia degli illuministi sia dei loro avversari,
laici ed ecclesiastici, consapevoli dell’importanza della questione
per il controllo dell’opinione pubblica (una nuova e dirompente
realtà settecentesca) e per l’educazione della gioventù.
Numerosi furono per
esempio i romanzi volti a dimostrare come dalle eversive dottrine
degli esprits forts illuministi, non più frenate dai necessari
argini della censura, fosse scaturita una cultura neopagana e
libertina, convinta di poter fare a meno di Dio, priva di ogni freno
morale, dissolutrice della famiglia, della religione, della società
e dello Stato. Tutt’altro che unanimi furono peraltro le voci degli
antiphilosophes, con i giansenisti – per esempio – pronti a
denunciare nel probabilismo e nel lassismo dei gesuiti una delle
cause del relativismo che aveva finito con il mettere in discussione
i fondamenti più sacri della Rivelazione e della fede cristiana.
È significativo che siano gli avversari dei Lumi a farla da padrone nelle pagine dedicate all’Italia, sede del papato, con la sua pretesa di esercitare un supremo magistero universale, e sede dell’Inquisizione romana, il tribunale istituito nel 1542 per combattere la diffusione delle eresie protestanti, il cui potere era peraltro limitato alla sola penisola.
Il che contribuisce a
spiegare non solo la netta prevalenza delle voci ecclesiastiche nel
coro degli antiphilosophes, ma anche la tenace, irriducibile
convinzione di molti tra questi ultimi che le matrici di quelle idee
anticristiane risiedessero ancora nelle eresie di Lutero e Calvino:
di qui il tentativo di esorcizzarne le eversive novità inglobandole
in schemi già noti e limitandosi quindi a ribadire condanne già
formulate e a esecrare l’empio «tollerantismo», con una sorta di
pregiudiziale rifiuto di riconoscere nella filosofia dei Lumi quella
modernità che pure essi erano chiamati a contrastare e battere in
breccia, e di cui si ostinavano a denunciare – come già Bellarmino
alla fine del ‘500 – le origini forestiere e la dipendenza da
«oltramontani ingegni», incompatibili con le salde tradizioni
cattoliche degli italiani, cui ardivano insegnare «a pensare, a
parlare, et anche operare liberamente», come denunciava nel 1766 un
corrucciato inquisitore.
Anche in Italia,
tuttavia, i tempi stavano cambiando, come indica il fatto che nel
1770 si potesse deridere in versi sulfurei un autorevole polemista e
consultore del Sant’Ufficio come il domenicano Tommaso Maria
Mamachi, delle cui censure «ognuno prendane / giuoco e sollazzo: /
Mamachio è un asino, / Mamachio è un pazzo».
Certo, nella Milano di Pietro Verri e Cesare Beccaria si poteva scrivere che ben pochi ormai si curavano di quel che si condannava a Roma, ma resta il fatto che dal Cinquecento al Novecento gli Indici dei libri proibiti continuarono a susseguirsi uno dopo l’altro, offrendo un sempre più nutrito catalogo di tutto il pensiero moderno, e che ciò influì profondamente sulla cultura italiana.
Non solo e non tanto per
l’effettiva efficacia di quegli scontati divieti, facilmente
eludibili ed elusi, ma per l’implicita sollecitazione
all’autocensura, alla prudenza, al conformismo che essi
comportavano.
Proprio questo, d’altra
parte, essi intendevano essere, come spiega Patrizia Delpiano nel
rispondere a quanti hanno invece sottolineato il continuo processo di
negoziazione tra autori e censori, depotenziando il vigore della
polemica illuministica per la libertà di stampa: «Tra l’etica del
silenzio, che tendenzialmente implicava un’adesione (convinta o
subita) alla norma proibitiva, e la libertà di scrivere, si trova il
vasto campo occupato dalla pratica dell’autocensura e della
sofferta autocorrezione dei propri testi». Ed è su questi crinali
sfuggenti e talora ambigui che teoria e prassi della libertà
disegnano, ieri come oggi, i propri mutevoli e spesso aggrovigliati
percorsi storici.
Il Sole 24 ore – 8
marzo 2015
Patrizia Delpiano
Liberi di scrivere. La
battaglia per la stampa nell’età dei Lumi
Laterza, 2015
€ 22,00
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