13 marzo 2015

LA LUCE DI GIORGIO MORANDI






Lea Mattarella

Giorgio Morandi. Un mondo di luce chiuso in una stanza

Il ritratto di un Giorgio Morandi ironico e bonario, cattivello al momento giusto, quando magari si trattava di esprimere un giudizio sull’opera di un altro, ce l’offriva, anni fa su queste stesse pagine, Giuliano Briganti. Il quale citava soprattutto l’affettuosa imitazione che del pittore (per molti il più grande del ‘900 italiano) facevano i suoi amici, Longhi, Ragghianti, Maccari, Brandi, Raimondi, Arcangeli.

E così, si era durante la guerra, quelli ricordavano «il suo inconfondibile accento bolognese, quel suo parlare lento e strascicato, quel pencolare in avanti dalla sua altezza un po’ scheletrica scuotendo la testa come per dire no, alzando le sopracciglia sotto la breve frangetta d’argento e agitando come semafori le lunghissime braccia».

A chi aspiri a una vita d’artista dannunzianamente inimitabile, o almeno a sentirsela raccontare, la biografia di Morandi non offre appigli. Allo scorrere degli anni non hanno corrisposto sostanziali cambiamenti, azioni da ricordare. La figura involontariamente mitica di questo artista è tutta strettamente legata a Bologna, città dove egli visse e morì, alle sue strade porticate, alla casa di via Fondazza o, al colmo dell’estensione geografica, a Grizzana, sull’Appennino tosco-emiliano.

Anche fisicamente, la leggenda morandiana vanifica ogni sensazione di varietà, di movimento. Conta soltanto l’opera, e questa coincide con l’immobilità, e con la ripetizione. Morandi vi aderisce a tal punto da rendere quasi miracoloso il fatto che quella specie di rifugio dai confini così protetti, come la sua camera- studio (chiamarla atelier sarebbe un’esagerazione) sia diventato luogo assoluto, l’esclusivo set di una creatività concentratissima e al tempo stesso universale.

L’ha efficacemente descritto lo storico dell’arte Werner Haftmann: «una camera di media grandezza, con una finestra che dava su un piccolo cortile ricoperto di verde. Qui si trovava anche la sua brandina, un vecchio scrittoio e il tavolo da disegno, una specie di libreria, il cavalletto e poi tutt’intorno su stretti scaffali l’arsenale, in attesa discreta, delle semplici cose che noi tutti conosciamo attraverso le sue nature morte: bottiglie, recipienti, vasi, brocche, utensili da cucina, scatole.

Le aveva scovate chissà dove, per lo più da rigattieri, si era innamorato di ciascuna di esse, le aveva portate a casa una ad una, per poi disporre in fila questi trovatelli quali suoi compagni di stanza, in via sperimentale, e con grandi speranze ».

Dietro il nome di Morandi, ovunque vadano i suoi dipinti, sfila anche tutto questo piccolo, immenso mondo di bellezza e di silenzio. Ora, a quarantadue anni dalla retrospettiva curata da Cesare Brandi alla Gnam, l’opera del grande bolognese torna a Roma, con un’importante mostra allestita al Complesso del Vittoriano, Giorgio Morandi 1890-1964 (da oggi fino al 21 giugno, catalogo Skira).

Ideata da Comunicare Organizzando e curata da Maria Cristina Bandera, l’esposizione raccoglie oltre 150 opere selezionate da istituzioni pubbliche (tra queste il Centre Pompidou, i Musei Vaticani, il Mart, gli Uffizi) e collezioni private, ripercorrendo tutto l’arco della vicenda morandiana. Accanto ai dipinti ad olio, oltre 100, ci sono anche le incisioni, nelle quali Morandi fu maestro.

Fin dall’inizio, quindi già dagli anni ‘10, colpisce l’enorme capacità che possiede l’artista di selezionare ciò che più gli serve, di identificare le sue stelle polari. «Pochi grandi antichi, pochi grandi moderni», annota Francesco Arcangeli.

Così Morandi sceglie: Giotto, Masaccio e Paolo Uccello; Cézanne e Renoir. Lo testimoniano i primi dipinti, dove compaiono accenni anche a Picasso, o a Derain. Entrano in gioco il futurismo, e poi la Metafisica e l’adesione a Valori Plastici, ma per Morandi tutto ciò è solo un attraversamento veloce di strade che gli si aprono davanti.

Il tema è essere se stessi, il che equivale un poco a nascondersi, per «toccare l’essenza delle cose » come amava ripetere. Un punto sostanziale di passaggio si ha scavallando il 1920. Per accorgersene basta confrontare la celebre, ancora metafisica, natura morta del ‘19 che arriva da Brera, con quella meravigliosa del ‘24, della Fondazione Longhi: gli orli ora si ondulano, gli oggetti tremano quasi, e mai più cesseranno di farlo; non sono più così netti, ma come smangiati dai piccoli morsi di un’atmosfera densa, cedono qualcosa di loro stessi all’aria, subiscono una specie di cerea liquefazione. Il colore, nelle sue tonalissime scale, è la sorprendente solidificazione di una luce che scaturisce da dentro il quadro.

Da lì in poi Morandi è solo Morandi. È «il testimone di quelle cose mute» come ha scritto Yves Bonnefoy, che nella loro mutezza però irradiano sentimenti. Con quale capacità ora il pittore orienta il nostro sguardo verso una parte di mondo che lui ritiene essenziale, microspazi che nella progressione degli anni sono occupati da oggetti umilissimi eppure sempre più misteriosamente belli.

Sono opere con le quali abbiamo confidenza, come se «le riconoscessimo da una memoria lontana», scrive Ferzan Ozpetek in catalogo. Con i dipinti del 1941, poi del ‘48, e poi lungo tutti gli anni ‘50 Morandi modula la propria voce, e raggiunge il massimo della qualità compressa in una forma breve. Fa pensare a Ungaretti, e d’altronde sappiamo che il pittore leggeva Leopardi e Pascal.

Avere un orizzonte ristretto, e così allargare la mente e l’occhio degli altri: era stata la sfida di Chardin, ora è la sua. Sfida accettata perfino nell’afa meridiana degli stupendi paesaggi, così inaccessibili se non per lo sguardo, mai consentiti al passo di un uomo: le case e le strade bianche che il pittore inquadrava da lontano, scrutandole con un cannocchiale.

Infine c’è il pittore sublime degli ultimi acquerelli, gli oggetti sono ora soltanto le loro orme, ombre evanescenti, haiku delle immagini. Quando Morandi scomparve, Longhi espresse in una delle sue pagine più belle il proprio sbigottimento. Erano amici da decenni, pur continuando a darsi contegnosamente del lei. Per il grande critico fu come se, uscito di scena Morandi, la sua «elegia luminosa», fosse morta tutta un’epoca. E in qualche modo la pittura stessa.


La Repubblica – 28 febbraio 2015

Nessun commento:

Posta un commento