Lea Mattarella
Giorgio Morandi. Un
mondo di luce chiuso in una stanza
Il ritratto di un Giorgio
Morandi ironico e bonario, cattivello al momento giusto, quando
magari si trattava di esprimere un giudizio sull’opera di un altro,
ce l’offriva, anni fa su queste stesse pagine, Giuliano Briganti.
Il quale citava soprattutto l’affettuosa imitazione che del pittore
(per molti il più grande del ‘900 italiano) facevano i suoi amici,
Longhi, Ragghianti, Maccari, Brandi, Raimondi, Arcangeli.
E così, si era durante
la guerra, quelli ricordavano «il suo inconfondibile accento
bolognese, quel suo parlare lento e strascicato, quel pencolare in
avanti dalla sua altezza un po’ scheletrica scuotendo la testa come
per dire no, alzando le sopracciglia sotto la breve frangetta
d’argento e agitando come semafori le lunghissime braccia».
A chi aspiri a una vita
d’artista dannunzianamente inimitabile, o almeno a sentirsela
raccontare, la biografia di Morandi non offre appigli. Allo scorrere
degli anni non hanno corrisposto sostanziali cambiamenti, azioni da
ricordare. La figura involontariamente mitica di questo artista è
tutta strettamente legata a Bologna, città dove egli visse e morì,
alle sue strade porticate, alla casa di via Fondazza o, al colmo
dell’estensione geografica, a Grizzana, sull’Appennino
tosco-emiliano.
Anche fisicamente, la
leggenda morandiana vanifica ogni sensazione di varietà, di
movimento. Conta soltanto l’opera, e questa coincide con
l’immobilità, e con la ripetizione. Morandi vi aderisce a tal
punto da rendere quasi miracoloso il fatto che quella specie di
rifugio dai confini così protetti, come la sua camera- studio
(chiamarla atelier sarebbe un’esagerazione) sia diventato luogo
assoluto, l’esclusivo set di una creatività concentratissima e al
tempo stesso universale.
L’ha efficacemente
descritto lo storico dell’arte Werner Haftmann: «una camera di
media grandezza, con una finestra che dava su un piccolo cortile
ricoperto di verde. Qui si trovava anche la sua brandina, un vecchio
scrittoio e il tavolo da disegno, una specie di libreria, il
cavalletto e poi tutt’intorno su stretti scaffali l’arsenale, in
attesa discreta, delle semplici cose che noi tutti conosciamo
attraverso le sue nature morte: bottiglie, recipienti, vasi, brocche,
utensili da cucina, scatole.
Le aveva scovate chissà
dove, per lo più da rigattieri, si era innamorato di ciascuna di
esse, le aveva portate a casa una ad una, per poi disporre in fila
questi trovatelli quali suoi compagni di stanza, in via sperimentale,
e con grandi speranze ».
Dietro il nome di
Morandi, ovunque vadano i suoi dipinti, sfila anche tutto questo
piccolo, immenso mondo di bellezza e di silenzio. Ora, a quarantadue
anni dalla retrospettiva curata da Cesare Brandi alla Gnam, l’opera
del grande bolognese torna a Roma, con un’importante mostra
allestita al Complesso del Vittoriano, Giorgio Morandi
1890-1964 (da oggi fino al 21 giugno, catalogo Skira).
Ideata da Comunicare
Organizzando e curata da Maria Cristina Bandera, l’esposizione
raccoglie oltre 150 opere selezionate da istituzioni pubbliche (tra
queste il Centre Pompidou, i Musei Vaticani, il Mart, gli Uffizi) e
collezioni private, ripercorrendo tutto l’arco della vicenda
morandiana. Accanto ai dipinti ad olio, oltre 100, ci sono anche le
incisioni, nelle quali Morandi fu maestro.
Fin dall’inizio, quindi
già dagli anni ‘10, colpisce l’enorme capacità che possiede
l’artista di selezionare ciò che più gli serve, di identificare
le sue stelle polari. «Pochi grandi antichi, pochi grandi moderni»,
annota Francesco Arcangeli.
Così Morandi sceglie:
Giotto, Masaccio e Paolo Uccello; Cézanne e Renoir. Lo testimoniano
i primi dipinti, dove compaiono accenni anche a Picasso, o a Derain.
Entrano in gioco il futurismo, e poi la Metafisica e l’adesione a
Valori Plastici, ma per Morandi tutto ciò è solo un attraversamento
veloce di strade che gli si aprono davanti.
Il tema è essere se
stessi, il che equivale un poco a nascondersi, per «toccare
l’essenza delle cose » come amava ripetere. Un punto sostanziale
di passaggio si ha scavallando il 1920. Per accorgersene basta
confrontare la celebre, ancora metafisica, natura morta del ‘19 che
arriva da Brera, con quella meravigliosa del ‘24, della Fondazione
Longhi: gli orli ora si ondulano, gli oggetti tremano quasi, e mai
più cesseranno di farlo; non sono più così netti, ma come
smangiati dai piccoli morsi di un’atmosfera densa, cedono qualcosa
di loro stessi all’aria, subiscono una specie di cerea
liquefazione. Il colore, nelle sue tonalissime scale, è la
sorprendente solidificazione di una luce che scaturisce da dentro il
quadro.
Da lì in poi Morandi è
solo Morandi. È «il testimone di quelle cose mute» come ha scritto
Yves Bonnefoy, che nella loro mutezza però irradiano sentimenti. Con
quale capacità ora il pittore orienta il nostro sguardo verso una
parte di mondo che lui ritiene essenziale, microspazi che nella
progressione degli anni sono occupati da oggetti umilissimi eppure
sempre più misteriosamente belli.
Sono opere con le quali
abbiamo confidenza, come se «le riconoscessimo da una memoria
lontana», scrive Ferzan Ozpetek in catalogo. Con i dipinti del 1941,
poi del ‘48, e poi lungo tutti gli anni ‘50 Morandi modula la
propria voce, e raggiunge il massimo della qualità compressa in una
forma breve. Fa pensare a Ungaretti, e d’altronde sappiamo che il
pittore leggeva Leopardi e Pascal.
Avere un orizzonte
ristretto, e così allargare la mente e l’occhio degli altri: era
stata la sfida di Chardin, ora è la sua. Sfida accettata perfino
nell’afa meridiana degli stupendi paesaggi, così inaccessibili se
non per lo sguardo, mai consentiti al passo di un uomo: le case e le
strade bianche che il pittore inquadrava da lontano, scrutandole con
un cannocchiale.
Infine c’è il pittore
sublime degli ultimi acquerelli, gli oggetti sono ora soltanto le
loro orme, ombre evanescenti, haiku delle immagini. Quando Morandi
scomparve, Longhi espresse in una delle sue pagine più belle il
proprio sbigottimento. Erano amici da decenni, pur continuando a
darsi contegnosamente del lei. Per il grande critico fu come se,
uscito di scena Morandi, la sua «elegia luminosa», fosse morta
tutta un’epoca. E in qualche modo la pittura stessa.
La Repubblica – 28 febbraio 2015
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