Abbiamo già parlato di questo bel film. Torniamo a farlo oggi con le parole di Emiliano Morreale:
Cinema e politica: Timbuktu
Tra le possibilità del cinema c’è quella
di farci vedere, incarnate in corpi e in luoghi, storie che
l’informazione ci porta solo come echi lontani. Così, dopo aver visto Timbuktu
di Abderrahmane Sissako, sarà difficile dimenticare la guerra civile
nel Mali, e l’invasione di quelle zone da parte dei fondamentalisti
islamici. E avremo davanti un modello, una narrazione efficace che ci
mostra cosa significhi l’arrivo di parole come jihad e sharia in paesi dalla cultura assai diversa. La vicenda di Timbuktu è
ambientata nel 2012, all’epoca della guerra civile, quando il nord del
Mali (da sempre soggetto a tentazioni autonomiste e separatiste) a
seguito di un colpo di stato che aveva rovesciato il governo centrale
dichiara la propria indipendenza. Ma i gruppi nazionalisti vengono ben
presto sostituiti da quelli islamisti, che impongono la loro legge nelle
zone occupate. Alla situazione ha messo fine, l’anno dopo, un
intervento delle truppe internazionali, in particolare francesi. Ma
questa premessa storica rimane, nel film, uno sfondo lontano. Quel che
seguiamo, nella Timbuktu invasa dai jihadisti, è la popolazione che
cerca di sopravvivere con piccoli, quotidiani gesti di dignità e di
ribellione. vediamo i matrimoni forzati e le condanne per chi ascolta
musica o gioca al calcio, la pescivendola che rifiuta di indossare i
guanti, le lapidazioni e le vessazioni quotidiane. E soprattutto la
vicenda centrale: un pastore berbero, che vive con la moglie e la
figlia, uccide accidentalmente un pescatore durante una lite, e viene
condannato a morte.
Il film di Sissako (54 anni, nato in
Mauritania, uno dei pochi nomi del cinema africano noti nei festival
internazionali) riesce a evitare il didascalismo e i toni da pamphlet
mostrando una serie di personaggi non artefatti, con un lavoro di
sceneggiatura molto sobrio, dialoghi costruiti sapientemente ma mai
troppo espliciti. I caratteri sono pieni di sfumature e contraddizioni,
ma nel giusto rifiuto di ogni psicologismo. Personaggi tutti gesti,
sguardi e azioni, tutti a loro modo “esemplari” di un teatro morale e
sociale: i jihadisti ne vengono fuori nelle loro arroganti insicurezze e
contraddizioni (c’è chi fuma di nascosto, chi è un rapper pentito). A
loro si oppone la dignità della popolazione locale, a cominciare dal
vecchio imam che oppone alla “guerra santa” degli occupanti il concetto
di jihad come lotta interiore. E la piccola famiglia berbera (padre,
madre e bambina) che vive nella tenda allevando sette magre mucche ha
una intensità resa attraverso pochi gesti. Ma soprattutto, è notevole la
costruzione spaziale del film: i pochi luoghi in cui tutto si svolge
sono contemplati senza insistenza ma con intensità, quasi assaporandoli
amaramente. Senza forse nemmeno un totale, Sissako ci situa nella tenda,
nella moschea, al mercato, presso un bacino d’acqua, facendo sentire
gli spazi sconfinati del deserto che premono intorno agli insediamenti
umani, e il peso del passato tra le vestigia della città. Il realismo
classico ma non accademico della regia si accende a tratti in momenti
più visionari o simbolici: le apparizioni della colorata pazza del
villaggio, la palla che rotola per le viuzze, la scena (un po’ a
effetto, ma assai suggestiva) dei ragazzini che giocano a calcio senza
pallone per eludere la repressione. Il ritmo del film è quieto, il
rapporto con gli occupanti è mostrato nella quotidianità, e le rare
esplosioni di violenza (le lapidazioni, l’omicidio accidentale,
l’esecuzione) si vedono quasi di sfuggita, in maniera anti-spettacolare.
Eppure l’insieme ha un suo fascino coinvolgente, tutt’altro che freddo,
che potrebbe anche conquistare i giurati dell’Academy Award. Timbuktu
infatti, dopo un buon successo al festival di Cannes, è stato candidato
all’Oscar per il miglior film straniero. La sua uscita in sala da noi è
una lieta notizia, anche se la versione italiana è un po’ surreale: uno
dei punti di forza del il film ci mette davanti è il miscuglio di
lingue e culture, e i distributori hanno scelto di doppiare i dialoghi
in bambara e in berbero, e sottotitolare le parti in inglese, francese e
arabo. Un peccato, perché l’italiano standard dei doppiatori suona
inevitabilmente fasullo accanto alle voci originali.Recensione già pubblicata dal SOLE 24 ORE ripresa il 7 marzo 2015
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