27 marzo 2015

DA YALTA AI NOSTRI GIORNI


Settant’anni fa i leader dei paesi vincitori con un tratto di penna ridisegnarono l’Europa Ora invece, con la UE divisa e la crisi ucraina l’idea di una regia unica sembra tramontata e torna di uso comune il termine “guerra”.

Lucio Caracciolo

Yalta. Dall’ordine mondiale al nuovo caos globale



L’ordine mondiale è l’utopia di ieri. Sono passati settant’anni dalla conferenza di Yalta, quando Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di coprire con la foglia di fico delle Nazioni Unite la spartizione dell’Europa e del mondo fra Occidente americano e Russia sovietica. Fu la guerra fredda, a suo modo una pace fra i potenti pagata con l’oppressione all’Est e i conflitti alle periferie del pianeta, dalla Corea al Vietnam, dal Medio Oriente al Congo. Crollata l’Unione Sovietica, toccò a George Bush padre evocare l’alba di un “nuovo ordine mondiale” che si sarebbe retto sulla benigna egemonia di un solo paese, il suo. Lo chiamammo Washington consensus.

Ci pensò Bush figlio a sabotarlo, con la “guerra al terrorismo”, seguita dalla crisi del 2007 scoppiata nella pancia della finanza privata americana. E adesso?

Immaginiamo che i leader del pianeta si dessero di nuovo appuntamento a Palazzo Livadija, già residenza estiva degli zar presso Yalta, in Crimea, dove i Tre Grandi si internarono dal 4 all’11 febbraio 1945. Ordine del giorno: rimettere ordine in questo caos. Non si potrebbe scegliere luogo più simbolico della corrente incertezza geopodiscussione litica.

La prima disputa scoppierebbe sulla proprietà del palazzo. Siamo in Ucraina oppure in Russia? In un concerto di nazioni ben temperato, la questione non si porrebbe, vigendo un catasto unico — ogni Stato con le sue proprietà riconosce i suoi omologhi con le loro. Oggi, come minimo, Kiev minaccerebbe di bloccare le vie di accesso alla Crimea (senza essere presa troppo sul serio) e Mosca di forzare il passaggio a mano armata, se necessario (venendo presa terribilmente sul serio).

Ma ammettiamo che un impulso di retto pragmatismo induca tutti a “concordare di dissentire” sulla proprietà della monumentale villa con il suo vasto parco. E siccome il fatto prevale sul diritto, finché non diventa tale, la vigilanza sia affidata agli “uomini verdi”, cioè agli “specialisti” russi senza divisa che nel marzo scorso requisirono la Crimea formalmente ucraina. Potremmo a questo punto celebrare la nuova Yalta? C’è da dubitarne.

Il contenzioso successivo riguarderebbe la verifica dei poteri. In parole povere: chi è abilitato a negoziare il nuovo ordine? Nessuno obietterebbe sui titoli del presidente degli Stati Uniti né sulle credenziali del collega cinese. Quanto al leader russo, la potrebbe essere chiusa dalla regola di ospitalità per cui in ogni competizione internazionale i padroni di casa sono ammessi di diritto. Buona educazione potrebbe consentire ai responsabili di Giappone, Canada, India, Brasile e Sudafrica di accedere ai marmi bianchi di Livadija, mentre all’Australia verrebbe proposto di accontentarsi di un consigliere nella delegazione britannica. È infatti scontato che il Regno Unito pretenderebbe il seggio che fu di Churchill.

Eccoci al terzo, decisivo scontro: chi parla per l’Europa? La battaglia si disputerebbe in teatri paralleli. Pro forma a Bruxelles, dove presidente del Consiglio europeo e presidente della Commissione si adatterebbero infine a uno strapuntino per ciascuno. Pro substantia fra Berlino e Parigi, con Roma, Madrid e Varsavia a litigare sul numero dei rispettivi auditori. Economia, demografia e influenza internazionale inclinerebbero la bilancia verso la Merkel. Bomba atomica e residuo impero transcontinentale direbbero Francia. Eppoi Hollande non vorrebbe rinunciare alla soddisfazione di sedere lì dove non poté de Gaulle. Cinesi, americani e russi finirebbero per gentilmente imporci la formula due più due. Stringendosi un po’, Merkel e Hollande occuperebbero insieme un’ampia poltrona di prima fila, con Tusk e Juncker appollaiati sull’annesso divanetto di coda.

Benvenuti alla seconda Yalta, in formato 9 (Stati Uniti, Cina, Russia, Giappone, Canada, India, Brasile, Sudafrica, Regno Unito) più 4 (Germania/Francia con l’appendice Ue/Commissione). Tredici a tavola, alla faccia della superstizione. Consesso comunque pletorico, considerando che i protagonisti dei due massimi tentativi di ordinamento del mondo in età moderna e contemporanea — Vienna 1815 e Yalta 1945 — vertevano su schieramenti rispettivamente a 5 e a 3. Esubero rivelatore: troppi sono i pretendenti al protagonismo. L’ordine fra diseguali presuppone ordinanti e ordinati. Abbiamo oggi un’abbondanza di aspiranti al primo status e una carenza di comparse disponibili a farsi comandare. Con una zavorra aggiuntiva: gli Stati di oggi non sono altrettanto autorevoli di quelli di ieri. Anche — o specialmente — quando sono autoritari.

Senza illusioni, ma in uno slancio di volontarismo, noi europei potremmo quanto meno contribuire a snellire il formato della Livadija bis. Basterebbe dare seguito alla retorica comunitaria, che ci vuole vocati a parlare “con una voce sola”. Quale migliore occasione di provarla vera? Allo stato della fisiologia e delle scienze biologiche attuali, disporre di una voce sola implica una condizione: avere un solo corpo, dotato di sano apparato fonatorio. Si pone dunque il dilemma di come ridurre i Ventotto a Uno.

Tre possibilità, in teoria. La prima è l’Europa tedesca. Sembrerebbe la più ovvia. Ma è miraggio: la Germania non può e non vuole assumersi la responsabilità di armonizzare la cacofonia continentale. Non può perché ha sempre dimostrato, e continua a rivelare nel suo modo di concepire l’unione monetaria, di non sapere esercitare alcuna forma di egemonia, integrando parte degli interessi altrui nei propri calcoli strategici. Altrimenti non avrebbe tentato, con un certo provvisorio successo, di trasformare l’euro — la moneta concepita da francesi e italiani per abolire il marco — in un nuovo marco, a spese dei soci dell’eurozona. Non vuole perché la grande maggioranza dei tedeschi mira al proprio benessere e ai propri affari. Punkt. C’è molta “Grande Svizzera” nella “Grande Germania” che ossessiona i germanofobi. Almeno finché la maionese europea non finisce di impazzire.

La seconda soluzione è l’euronucleo, idea lanciata ventuno anni fa dall’attuale ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Una Confederazione Europea guidata da Berlino, con Parigi junior partner, più Benelux e qualche partner nordico o baltico, a cominciare dalla Polonia. Con noi italiani e altri periferici ridotti a satelliti, aggrappati alle Alpi per non affogare nel Mediterraneo.

Oppure, nel caso più fortunato, con Roma riammessa in extremis nel club dell’Europa-Stato confederale, essendo finalmente riuscita a rimettere ordine in casa propria. Non riusciamo a concepire un’ipotesi più attraente per l’Italia e per il Vecchio Continente.

Infine, la guerra. L’ordinatore di ultima istanza, quando tutto il resto fallisce. Si obietterà che quasi nessun europeo (occidentale) ha voglia di farla, a differenza del 1914 e, in minor parte, del 1939. Eppure domenica scorsa, Hollande ha pronunciato la parola impronunciabile — “la guerre” — quale unica alternativa al fallimento dei negoziati sull’Ucraina.

È bene che questo termine non sia più tabù. Perché fingendo che il pericolo, per quanto remoto, non esista, rischiamo di abbandonarci a una dolce deriva. Quasi che il disordine attuale possa prolungarsi impunemente all’infinito, senza suscitare gli spiriti animali che non cessano di abitare anche gli uomini di miglior volontà. 


La Repubblica – 10 febbraio 2015

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