Settant’anni
fa i leader dei paesi vincitori con un tratto di penna ridisegnarono
l’Europa Ora invece, con la UE divisa e la crisi ucraina l’idea
di una regia unica sembra tramontata e torna di uso comune il termine
“guerra”.
Lucio Caracciolo
Yalta. Dall’ordine
mondiale al nuovo caos globale
L’ordine mondiale è
l’utopia di ieri. Sono passati settant’anni dalla conferenza di
Yalta, quando Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di coprire con
la foglia di fico delle Nazioni Unite la spartizione dell’Europa e
del mondo fra Occidente americano e Russia sovietica. Fu la guerra
fredda, a suo modo una pace fra i potenti pagata con l’oppressione
all’Est e i conflitti alle periferie del pianeta, dalla Corea al
Vietnam, dal Medio Oriente al Congo. Crollata l’Unione Sovietica,
toccò a George Bush padre evocare l’alba di un “nuovo ordine
mondiale” che si sarebbe retto sulla benigna egemonia di un solo
paese, il suo. Lo chiamammo Washington consensus.
Ci pensò Bush figlio a
sabotarlo, con la “guerra al terrorismo”, seguita dalla crisi del
2007 scoppiata nella pancia della finanza privata americana. E
adesso?
Immaginiamo che i leader
del pianeta si dessero di nuovo appuntamento a Palazzo Livadija, già
residenza estiva degli zar presso Yalta, in Crimea, dove i Tre Grandi
si internarono dal 4 all’11 febbraio 1945. Ordine del giorno:
rimettere ordine in questo caos. Non si potrebbe scegliere luogo più
simbolico della corrente incertezza geopodiscussione litica.
La prima disputa
scoppierebbe sulla proprietà del palazzo. Siamo in Ucraina oppure in
Russia? In un concerto di nazioni ben temperato, la questione non si
porrebbe, vigendo un catasto unico — ogni Stato con le sue
proprietà riconosce i suoi omologhi con le loro. Oggi, come minimo,
Kiev minaccerebbe di bloccare le vie di accesso alla Crimea (senza
essere presa troppo sul serio) e Mosca di forzare il passaggio a mano
armata, se necessario (venendo presa terribilmente sul serio).
Ma ammettiamo che un
impulso di retto pragmatismo induca tutti a “concordare di
dissentire” sulla proprietà della monumentale villa con il suo
vasto parco. E siccome il fatto prevale sul diritto, finché non
diventa tale, la vigilanza sia affidata agli “uomini verdi”, cioè
agli “specialisti” russi senza divisa che nel marzo scorso
requisirono la Crimea formalmente ucraina. Potremmo a questo punto
celebrare la nuova Yalta? C’è da dubitarne.
Il contenzioso successivo
riguarderebbe la verifica dei poteri. In parole povere: chi è
abilitato a negoziare il nuovo ordine? Nessuno obietterebbe sui
titoli del presidente degli Stati Uniti né sulle credenziali del
collega cinese. Quanto al leader russo, la potrebbe essere chiusa
dalla regola di ospitalità per cui in ogni competizione
internazionale i padroni di casa sono ammessi di diritto. Buona
educazione potrebbe consentire ai responsabili di Giappone, Canada,
India, Brasile e Sudafrica di accedere ai marmi bianchi di Livadija,
mentre all’Australia verrebbe proposto di accontentarsi di un
consigliere nella delegazione britannica. È infatti scontato che il
Regno Unito pretenderebbe il seggio che fu di Churchill.
Eccoci al terzo, decisivo
scontro: chi parla per l’Europa? La battaglia si disputerebbe in
teatri paralleli. Pro forma a Bruxelles, dove presidente del
Consiglio europeo e presidente della Commissione si adatterebbero
infine a uno strapuntino per ciascuno. Pro substantia fra Berlino e
Parigi, con Roma, Madrid e Varsavia a litigare sul numero dei
rispettivi auditori. Economia, demografia e influenza internazionale
inclinerebbero la bilancia verso la Merkel. Bomba atomica e residuo
impero transcontinentale direbbero Francia. Eppoi Hollande non
vorrebbe rinunciare alla soddisfazione di sedere lì dove non poté
de Gaulle. Cinesi, americani e russi finirebbero per gentilmente
imporci la formula due più due. Stringendosi un po’, Merkel e
Hollande occuperebbero insieme un’ampia poltrona di prima fila, con
Tusk e Juncker appollaiati sull’annesso divanetto di coda.
Benvenuti alla seconda
Yalta, in formato 9 (Stati Uniti, Cina, Russia, Giappone, Canada,
India, Brasile, Sudafrica, Regno Unito) più 4 (Germania/Francia con
l’appendice Ue/Commissione). Tredici a tavola, alla faccia della
superstizione. Consesso comunque pletorico, considerando che i
protagonisti dei due massimi tentativi di ordinamento del mondo in
età moderna e contemporanea — Vienna 1815 e Yalta 1945 —
vertevano su schieramenti rispettivamente a 5 e a 3. Esubero
rivelatore: troppi sono i pretendenti al protagonismo. L’ordine fra
diseguali presuppone ordinanti e ordinati. Abbiamo oggi un’abbondanza
di aspiranti al primo status e una carenza di comparse disponibili a
farsi comandare. Con una zavorra aggiuntiva: gli Stati di oggi non
sono altrettanto autorevoli di quelli di ieri. Anche — o
specialmente — quando sono autoritari.
Senza illusioni, ma in
uno slancio di volontarismo, noi europei potremmo quanto meno
contribuire a snellire il formato della Livadija bis. Basterebbe dare
seguito alla retorica comunitaria, che ci vuole vocati a parlare “con
una voce sola”. Quale migliore occasione di provarla vera? Allo
stato della fisiologia e delle scienze biologiche attuali, disporre
di una voce sola implica una condizione: avere un solo corpo, dotato
di sano apparato fonatorio. Si pone dunque il dilemma di come ridurre
i Ventotto a Uno.
Tre possibilità, in
teoria. La prima è l’Europa tedesca. Sembrerebbe la più ovvia. Ma
è miraggio: la Germania non può e non vuole assumersi la
responsabilità di armonizzare la cacofonia continentale. Non può
perché ha sempre dimostrato, e continua a rivelare nel suo modo di
concepire l’unione monetaria, di non sapere esercitare alcuna forma
di egemonia, integrando parte degli interessi altrui nei propri
calcoli strategici. Altrimenti non avrebbe tentato, con un certo
provvisorio successo, di trasformare l’euro — la moneta concepita
da francesi e italiani per abolire il marco — in un nuovo marco, a
spese dei soci dell’eurozona. Non vuole perché la grande
maggioranza dei tedeschi mira al proprio benessere e ai propri
affari. Punkt. C’è molta “Grande Svizzera” nella “Grande
Germania” che ossessiona i germanofobi. Almeno finché la maionese
europea non finisce di impazzire.
La seconda soluzione è
l’euronucleo, idea lanciata ventuno anni fa dall’attuale ministro
tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Una Confederazione Europea
guidata da Berlino, con Parigi junior partner, più Benelux e qualche
partner nordico o baltico, a cominciare dalla Polonia. Con noi
italiani e altri periferici ridotti a satelliti, aggrappati alle Alpi
per non affogare nel Mediterraneo.
Oppure, nel caso più
fortunato, con Roma riammessa in extremis nel club dell’Europa-Stato
confederale, essendo finalmente riuscita a rimettere ordine in casa
propria. Non riusciamo a concepire un’ipotesi più attraente per
l’Italia e per il Vecchio Continente.
Infine, la guerra.
L’ordinatore di ultima istanza, quando tutto il resto fallisce. Si
obietterà che quasi nessun europeo (occidentale) ha voglia di farla,
a differenza del 1914 e, in minor parte, del 1939. Eppure domenica
scorsa, Hollande ha pronunciato la parola impronunciabile — “la
guerre” — quale unica alternativa al fallimento dei negoziati
sull’Ucraina.
È bene che questo
termine non sia più tabù. Perché fingendo che il pericolo, per
quanto remoto, non esista, rischiamo di abbandonarci a una dolce
deriva. Quasi che il disordine attuale possa prolungarsi impunemente
all’infinito, senza suscitare gli spiriti animali che non cessano
di abitare anche gli uomini di miglior volontà.
La Repubblica – 10
febbraio 2015
Nessun commento:
Posta un commento