27 marzo 2015

CARTEGGIO TRA E. AUERBACH E W. BENJAMIN







Un carteggio dimenticato tra Walter Benjamin e Erich Auerbach. Due intellettuali che hanno studiato l’avvento della città moderna a partire da campi disciplinari diversi. Con tesi di evidente attualità per sciogliere il nodo del rapporto tra razza e metropoli.

Fabrizio Denunzio

I disincantati delle metropoli

Giace da alcuni anni, almeno al 2009, sepolto e dimen­ti­cato in una rivi­sta spe­cia­liz­zata di teo­ria e cri­tica della let­te­ra­tura («Moderna», XI, 1–2), in un numero mono­gra­fico dedi­cato al grande filo­logo tede­sco Erich Auer­bach, il breve epi­sto­la­rio che egli ebbe, dal 23 set­tem­bre 1935 al 3 gen­naio 1937, con Wal­ter Benjamin.

Un’ottima occa­sione per rie­su­mare almeno un paio di que­ste let­tere ci è data dal tema del con­ve­gno che si svol­gerà dal 25 al 26 marzo al Dipar­ti­mento di Scienze poli­ti­che, Sociali e della Comu­ni­ca­zione dell’Università di Salerno: «Dalla città di Robert Park ai pro­cessi migra­tori con­tem­po­ra­nei». L’incontro, orga­niz­zato da Raf­faele Rauty, è pen­sato per cele­brare il cen­te­na­rio dell’uscita, sull’«American Jour­nal of Socio­logy», del primo sag­gio che Park, uno degli espo­nenti di spicco della Scuola di Chi­cago, dedicò al tema della città.

La rie­su­ma­zione di que­ste let­tere non dipende tanto dal fatto che Ben­ja­min, al pari del grande socio­logo ame­ri­cano, avendo subito l’influenza della rifles­sione avan­guar­di­stica di Georg Sim­mel sulla vita urbana, si sia occu­pato pure lui di metro­poli – si pensi non solo alle «imma­gini di città» (Napoli, Mosca, Mar­si­glia e altre), ma all’intero lavoro su Parigi, capi­tale del XIX secolo – quanto, piut­to­sto, dalla sem­plice con­sta­ta­zione della sua con­di­zione di migrante ebreo per­se­gui­tato e, più in gene­rale, della sua posi­zione all’interno di quel pau­roso pro­cesso migra­to­rio creato dalle leggi raz­ziali nazi­ste che lo spin­geva a cer­care acco­glienza, rifu­gio e inte­gra­zione nelle isti­tu­zioni urbane europee.

Razza e metro­poli, allora, sono i con­cetti sotto i quali poniamo la let­tura di que­ste due let­tere. Non basta solo «misu­rare» la capa­cità delle metro­poli di rea­gire ai feno­meni migra­tori in ter­mini di wel­fare, di stato sociale, con tanto di strut­ture di acco­glienza, di rico­no­sci­mento for­male di diritti, di poli­ti­che secur­ta­rie, biso­gna pure «regi­strare» lo sguardo di chi arriva su tutto ciò, la rea­zione emo­tiva e intel­let­tuale del sog­getto di fronte all’oggettività del nuovo sce­na­rio di vita quo­ti­diana in cui si ritrova, per inte­grarla a sua volta nelle stra­te­gie di ospitalità.

C’è sicu­ra­mente una lunga e affa­sci­nante sto­ria intel­let­tuale che lega gli autori delle let­tere, sulla quale, soprat­tutto gli spe­cia­li­sti con­tem­po­ra­nei di Auer­bach, hanno fatto luce (Kar­lheinz Barck, Robert Khan, Raúl Rodrí­guez Freire, Elena Fabietti), sto­ria scan­dita da tappe pre­cise: l’aver pub­bli­cato entrambi sulla rivi­sta «Die Argo­nau­ten», la vicen­de­vole let­tura dei pro­pri lavori (ad esem­pio, «Dante poeta del mondo ter­reno» e anche, molto pro­ba­bil­mente, «Figura» da parte di Ben­ja­min; almeno «Destino e carat­tere» e «Il dramma barocco tede­sco» da quella di Auer­bach), lo scam­bio epistolare.

Eppure, se si leg­gono que­ste let­tere oltre tale dato cul­tu­rale, e le si riporta alla comune con­di­zione esi­sten­ziale degli scri­venti, ossia quella di migranti per­se­gui­tati dalle stesse leggi raz­ziali che cer­cano di inte­grarsi nelle metro­poli di acco­glienza, ebbene, Parigi e Istan­bul, attra­verso il loro sguardo, ini­ziano ad assu­mere una strana fisionomia.

Nella prima Ben­ja­min si era rifu­giato a par­tire dal marzo del 1933 in seguito alla presa di potere dei fasci­sti tede­schi, nella seconda Auer­bach ci era arri­vato, come si legge chia­ra­mente nella let­tera che pub­bli­chiamo, dopo il 1935, da Mar­burgo, dove era tito­lare della cat­te­dra di filo­lo­gia romanza e che non aveva dovuto abban­do­nare dopo la pro­cla­ma­zione delle leggi di Norim­berga per­ché, seb­bene ebreo, essendo stato deco­rato con la pre­sti­giosa Croce di Ferro al valor mili­tare durante la Prima Guerra mon­diale, godeva, come tutti i deco­rati, di un pri­vi­le­gio eccezionale.

Viste nella pro­spet­tiva della razza migrante per­se­gui­tata, le metro­poli cam­biano: quella fran­cese mostra un volto ino­spi­tale se le si chiede la natu­ra­liz­za­zione (in una let­tera del 6 otto­bre del 1935 Auer­bach aveva avvi­sato Ben­ja­min: «Con la dispo­ni­bi­lità ad aiu­tare di certi fran­cesi non ho avuto buone espe­rienze»), quella turca un’espressione cinica, per­ché fa vedere quanto la forza lavoro intel­let­tuale spe­cia­liz­zata (nel caso di Auer­bach, le sue com­pe­tenze filo­lo­gi­che) possa essere impie­gata in modo fun­gi­bile per euro­peiz­zare la cul­tura nazionale.

Lette come testi­mo­nianze della tem­pe­sta sto­rica in cui furono scritte, que­ste let­tere fanno sen­tire la loro attualità.


Il Manifesto – 7 marzo 2015

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