26 marzo 2015

FA ANCORA SENSO: Da Boito a Visconti



Esce in questi giorni, per Manni, la nuova edizione di un volumetto del 2002 dedicato al racconto più celebre di Camillo Boito, Senso: comprende, oltre al testo, un’introduzione e un saggio di Clotilde Bertoni, che riservano ampio spazio anche alla trasposizione di Luchino Visconti a cui l’opera deve principalmente la sua fama. Proponiamo qui l’introduzione, in versione abbreviata e alleggerita delle note,che riprendiamo da http://www.leparoleelecose.it/


Fa ancora Senso


di Clotilde Bertoni

Senso compare nel secondo volume di narrativa di Camillo Boito, la raccolta intitolata Senso. Nuove storielle vane, edita da Treves nel 1883. È l’unico racconto dell’autore non pubblicato in rivista; e, per la trasgressività dei suoi contenuti (non indifferente se rapportata all’orizzonte dell’epoca), rischia di non essere pubblicato affatto. In una lettera del 10 agosto 1883 al più celebre fratello Arrigo, Camillo dichiara: “scriverò una storiella per sostituirla all’ultima del volume – Senso – che al Treves sulle bozze di stampa è parsa scandalosa – e a ragione”. Fortunatamente la cautela dell’autore risulta superflua, le perplessità dell’editore rientrano; il racconto, come previsto, compare nella raccolta. Ma non suscita gli scandali temuti, semplicemente perché non ottiene grande risonanza; il successo del volume, come quello del precedente (Storielle vane) è circoscritto, le recensioni sporadiche.
Sul numero del 18 novembre 1883 dell’“Illustrazione italiana” – settimanale pubblicato proprio da Treves – la rubrica “Scorse letterarie” commenta la raccolta piuttosto genericamente, sottolineando l’audacia degli argomenti, e in particolare quella di Senso, con un’affettata indignazione che sembra mirare soprattutto a stuzzicare la curiosità del pubblico. Appaiono più significativi due interventi che, in modo diversissimo, si concentrano sulla discrepanza fra l’opera di Boito e la voga naturalista. Sulla “Domenica letteraria” del 16 dicembre 1883 una sezione della rubrica “In biblioteca” segnala il volume senza soffermarsi su nessun racconto, ma elogiando vivacemente – più con divertente ricchezza di immagini che con densità di concetti – la sua lontananza dal gusto predominante: il recensore anonimo (che l’avversione al naturalismo e lo stile caustico indurrebbero a identificare con Edoardo Scarfoglio, a lungo collaboratore del periodico) auspica che i lettori siano ormai saturi di “un così copioso e così pesante banchetto di verità”, e che possano quindi apprezzare la “potenza fantastica”, la “snellezza d’immagini” e la “libertà di movimenti” della raccolta. Diversa è, naturalmente, l’ottica che ispira la recensione di Felice Cameroni, compresa nella sua “Rassegna bibliografica” sul quotidiano “Il Sole” del 23 novembre 1883. Il critico include Senso fra i racconti migliori del volume (su cui pronunzia un giudizio variegato, in alcuni casi molto negativo), liquidando fra l’altro subito le obiezioni moraliste; ma ne biasima gli snodi più iperbolici, e ne deplora e ne minimizza al tempo stesso la distanza dal naturalismo, ritenendola incrostazione di un’estetica polverosa di cui è opportuno sbarazzarsi:

Non mi pare molto verosimile la scena della contessa, quando sorprende, non vista, il suo manutengolo […]. È d’effetto la scena della denunzia […]. Ma mi sembra teatrale la fucilazione […]. Qui si degenera nel melodramma […]. Poiché nutre predilezione verso le montagne del Trentino e l’adorata sua Venezia, gli auguriamo che sappia ritrarne la vita intima colla stessa evidenza stereoscopica delle novelle siciliane del Verga e quindi senza alcuna dissonanza romantica.

Considerazioni non infondate, che offrono anzi all’analisi del racconto un utile punto di partenza; ma in un’altra prospettiva. La connotazione melodrammatica di Senso è innegabile, ma, anziché combaciare con la concessione a un gusto deteriore, ne costituisce una delle peculiarità più significative: il suo interesse risiede nella sua eccentricità, non nel suo distacco dagli approcci naturalisti e veristi (tanto più che le logiche del melodramma si combinano spesso a quelle del naturalismo, proprio nelle opere dei suoi principali rappresentanti). Certo il racconto (assai più di molti altri dello scrittore) sceglie temi attraenti e strategie narrative collaudate, ma, come si vedrà, sottrae loro efficacia, strappandoli al loro orizzonte abituale, disinnescandone gli effetti più prevedibili: la trama aderisce all’orizzonte del melodramma discontinuamente e contraddittoriamente, non sprigiona gli effetti ad esso più consoni, complica lo sfondo morale, inibisce la commozione; adesca il lettore per poi spiazzarlo. E dunque se Senso si situa al di fuori del naturalismo, se apparentemente si rifugia in un’estetica resistentissima (e, in modi diversi, destinata difatti a sopravvivere), ne scompiglia i presupposti, nega potere ai suoi sortilegi; le sue dissonanze non nascono, come ritiene Cameroni, dal ricorso a strumenti abusati, ma dal modo insolito di maneggiarli: quella che avrebbe dovuto essere arma di cattura, si ribalta in fonte di sconcerto. Sconcerto perdurante, presto risolto in noncuranza: al tiepido interesse dei contemporanei succede l’oblio dei posteri, durato, fino alla metà del Novecento, e riservato, con rare eccezioni, a tutta la produzione dell’autore.
Difficile del resto supporre che la negligenza di lettori e critici, e la sua suscettibilità a protrarsi, possa aver mai costituito un cruccio per Boito: il primo a promuovere, per così dire, il disinteresse sulla sua produzione, tendente sempre ad ostentarne (fin dai titoli delle raccolte) il carattere di passatempo disimpegnato; ben adagiato nella sua ancipite identità di architetto-professore attivissimo e acclamato, e scrittore poco noto e poco prolifico.
Tale atteggiamento, dopo la sua scomparsa (avvenuta nel 1914), è rispettato, con scrupolo spinto all’eccesso, da Arrigo (sopravvissutogli per quattro anni), che rifiuta la proposta della Casa Cinemo-dramma di adattare per lo schermo un racconto del fratello, spiegando così la sua scelta a Sabatino Lopez (intermediario in quanto direttore della Società degli Autori):

La proposta della casa Cinemo-dramma di rappresentare con la Cinematografia una novella del mio rimpianto fratello non incontra il mio consenso. La vita artistica di Camillo ebbe i suoi confini ben tracciati dalle pareti del suo studio e della sua scuola; egli non pensò mai che un’opera della sua mente potesse trovarsi a contatto col pubblico degli spettacoli. Nella sua vasta bibliografia d’arte, di storia d’arte, di critica, di pedagogia, d’estetica, le sue novelle appaiono come episodi isolati. L’affetto che mi lega alla sua memoria m’impedisce di permettere ch’egli si manifesti in modo diverso da quello che gli era consueto e che gli valse onori e fama.

Un episodio trascurabile che gli eventi successivi caricano di una connotazione ironica: perché sarà appunto il cinema a riportare l’attenzione sulla produzione letteraria di Boito e soprattutto su Senso, con la trasposizione del racconto girata nel 1953 da Luchino Visconti. Questa rappresaglia del grande schermo (molto divertente da sottolineare, al punto di aver fatto in qualche caso identificare senz’altro con Senso il testo non menzionato di cui Arrigo rifiuta i diritti) è d’altronde assolutamente casuale. Nel 1945 Giorgio Bassani pubblica una selezione della narrativa di Boito, intitolata Il maestro di setticlavio e altri racconti, che include Senso; come avverrà su ben altra scala e con ben altro fragore per il Gattopardo (pubblicato su sua sollecitazione), lo scrittore, sottraendo un testo all’oblio, stimola l’estro di Visconti, qui però quanto mai indirettamente. È la sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico a scoprire il racconto grazie a questa raccolta, e a includerne l’adattamento in un ventaglio di cinque progetti presentato da lei e dal regista alla casa di produzione Lux (che ha chiesto loro un film in costume, genere allora congeniale alle esigenze del mercato); il direttore della Lux, Riccardo Gualino, si pronunzia in suo favore. La sceneggiatura, nata dalla consueta cooperazione fra Visconti e la Cecchi, si avvale del contributo appunto di Bassani, e di Giorgio Prosperi e Carlo Alianello (in qualità di consulente storico); oltre a giovarsi, per la versione inglese dei dialoghi, di collaboratori d’eccezione quali Tennessee Williams e Paul Bowles. La sua gestazione è piuttosto laboriosa, ma segue fin dal principio (malgrado l’adesione letterale ad alcuni passi) la linea, più che della ripresa infedele, della totale manipolazione.
Il film passa nella fase di lavorazione per diverse traversie (il direttore della fotografia, Aldo Graziani – noto come G.R. Aldo – muore in un incidente d’auto prima della fine delle riprese); presentato nel 1954 al Festival di Venezia, non riceve premi, ed è mutilato dai rigori della censura (in merito alla rappresentazione della guerra e del rapporto fra le gerarchie militari e i volontari garibaldini). Ma, a dispetto degli ostacoli contingenti e della freddezza dell’establishment, ottiene vasta eco, riscuote se non il consenso unanime comunque il vivo interesse della critica francese: è presto ritenuto una tappa fondamentale dell’itinerario viscontiano. L’accoglienza che gli è riservata, d’altronde, si rivela calorosa quanto controversa, il clamore che solleva è fitto di polemiche; tali da creare una vera e propria spaccatura nella critica militante e nell’intellighenzia di sinistra. I sostenitori – in particolare Guido Aristarco, legato al cinema di Visconti da una lunga fedeltà – colgono nell’abbandono delle tecniche e tematiche neorealiste la transizione a un realismo più maturo, fondato non sulla riproduzione documentaristica ma sull’estrapolazione di significato da personaggi e situazioni tipici; altri critici, soprattutto Luigi Chiarini e Pio Baldelli, pur riconoscendone l’importanza, vi scorgono invece un’involuzione verso astrazioni antistoriche e compiacimenti calligrafici. Come è stato giustamente notato (ad esempio da Vittorio Spinazzola), l’intensità del dibattito, se contribuisce alla risonanza del film, ne appanna in parte la fisionomia, per trasformarlo in emblema – apprezzato o deprecato – di un momento di transizione, della fine di una stagione significativa quanto irripetibile. La tendenza a giudicarlo in relazione al suo valore di svolta porta a tralasciarne il nesso con il racconto di Boito, mentre finisce per provocarne l’accostamento – in virtù non di una reale affinità ma di una contiguità transitoria – a Metello, uno dei più noti romanzi di Pratolini; spunto di una disputa parallela, quella fra Salinari e Muscetta sull’abbandono del neorealismo in letteratura.
Il film ha così sul racconto un’incidenza contraddittoria: lo sottrae all’oblio, lo propone persino all’attenzione estera, affrancandolo dalla condanna a una notorietà provinciale toccata a tante nostre opere; ma lo offusca perennemente, vincolandolo allo statuto ancillare di casuale spunto di ispirazione. Al principio, la distrazione sull’opera è in parte giustificata dall’oscurità che la ricopre, non dissipata dall’isolato repêchage di Bassani; oscurità attestata da un articolo di Calvino sulla presentazione al Festival di Venezia (che descrive spiritosamente lo sconcerto dei critici rispetto al nome di Boito e la loro frustrata speranza di cavarsela trovando il testo nella brochure diffusa in sala); nonché da un precedente intervento di una futura grande firma del nostro giornalismo, Livio Zanetti, che, pur dimostrando (diversamente dagli inviati a Venezia, e da molti altri critici) un’accurata conoscenza dell’opera, la data al 1903. Meno comprensibile è la tendenza di numerosi studi successivi non solo a non inoltrarsi nella riscoperta del racconto, ma a riservargli un’ostilità pregiudiziale; mentre, specularmente, i saggi abbastanza numerosi dedicati al racconto nella seconda metà del Novecento inclinano quasi tutti a nominare il film solo di sfuggita o a non nominarlo affatto.
Minimizzazione o omissione dovuta forse al timore di contaminare con l’interesse per altri campi la specificità degli studi letterari, e che si è rivelata inevitabilmente forzosa, perché nella maggior parte dei casi è stato proprio il successo del film ad attirare l’attenzione sul testo: ne offre un’ottima dimostrazione involontaria la Storia della Scapigliatura di Gaetano Mariani, che si guarda bene dal menzionare Visconti, ma designa la protagonista come Livia Serpieri, aggiungendo al nome un cognome che è un’innovazione del film. Insinuandosi nella memoria inconscia di chi vorrebbe invece reciderla, l’interconnessione fra racconto e film si riconferma clamorosamente; e tra la fine del Novecento e i nostri giorni ormai parecchi contributi ne hanno sottolineato l’importanza.
Il che non implica, beninteso, che le due opere non possano essere considerate autonomamente: si può analizzare il film prescindendo dalla sua fonte di ispirazione, in quanto fonte del tutto rimaneggiata, e soprattutto in nome delle ben note riflessioni sull’autonomia del mezzo cinematografico; e imporre la rilettura viscontiana come elemento indispensabile all’interpretazione del racconto sarebbe erroneo quanto i deliberati tentativi di ignorarla. Se in questa sede le si dà notevole spazio, è essenzialmente per due ragioni. Intanto per una questione di metodo: il forte peso esercitato negli ultimi decenni dall’estetica della ricezione spinge a valutare un testo non esclusivamente nella sua intrinsecità, ma anche nella sua interazione con gli orizzonti d’attesa, interazione che si sedimenta in testimonianze a loro volta determinanti per i successivi approcci: trasposizioni e transcodificazioni, messinscene teatrali e rielaborazioni cinematografiche, in grado di orientare, stimolare, fuorviare il pubblico, di filtrare la fortuna di un’opera al punto di rinnovarne la percezione. Inoltre, il film di Visconti si rivela filtro tanto ingombrante quanto significativo, perché ricompone l’estetica del melodramma, sottoposta da Boito a una disgregazione spiazzante, e struttura la vicenda secondo un diverso taglio storico; provvedendo in qualche modo a disambiguare il racconto, a trasformarne le dinamiche più disorientanti, rendendole più aperte alla comprensione e accomodanti verso le emozioni.
La maggiore limpidezza, la maggiore ‘facilità’ del film, beninteso, non gli sottrae spessore: non si tratta di ribaltare la gerarchia più diffusa, subordinando il suo valore a quello del testo. L’accostamento dei lavori di Boito e Visconti porta a rilevare come entrambi siano densi di significato, ma su versanti divergenti: il racconto inarcato su un insolito ripudio degli effetti di pathos, silenziosamente trasgressivo, serrato sull’implicito; il film teso a recuperare gli effetti di pathos per infondervi nuovi contenuti, a esplicitare i significati secondo una linea discontinua, che a un uso magistrale della reticenza alterna empiti di chiarezza troppo fragorosa e didascalica.
Con una coincidenza di quelle davvero puramente casuali, nel 2002, quando questo lavoro era stato appena chiuso, uscì la nuova trasposizione del racconto girata da Tinto Brass, Senso 45, attualizzazione che sposta la vicenda all’epoca della repubblica di Salò: se non è riuscito a soppiantare la fama del Senso di Visconti e se onestamente non c’è da rammaricarsene, il film non è però privo di interesse; ma per ragioni di spazio è im- possibile prenderlo in considerazione in questa sede; come è impossibile analizzare un’altra, più recente derivazione, l’opera lirica Senso di Marco Tutino (libretto di Giuseppe Di Leva) composta nel 2010 e andata in scena al principio del 2011, in occasione del centocinquantenario dell’Unità.
Clotilde Bertoni

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