Esce in questi giorni, per Manni, la nuova edizione di un volumetto del 2002 dedicato al racconto più celebre di Camillo Boito, Senso: comprende, oltre al testo, un’introduzione e un saggio di Clotilde Bertoni, che riservano ampio spazio anche alla trasposizione di Luchino Visconti a cui l’opera deve principalmente la sua fama. Proponiamo qui l’introduzione, in versione abbreviata e alleggerita delle note,che riprendiamo da http://www.leparoleelecose.it/
Fa ancora Senso
di Clotilde Bertoni
Senso compare nel secondo volume di narrativa di Camillo Boito, la raccolta intitolata Senso. Nuove storielle vane,
edita da Treves nel 1883. È l’unico racconto dell’autore non
pubblicato in rivista; e, per la trasgressività dei suoi contenuti (non
indifferente se rapportata all’orizzonte dell’epoca), rischia di non
essere pubblicato affatto. In una lettera del 10 agosto 1883 al più
celebre fratello Arrigo, Camillo dichiara: “scriverò una storiella per
sostituirla all’ultima del volume – Senso – che al Treves sulle
bozze di stampa è parsa scandalosa – e a ragione”. Fortunatamente la
cautela dell’autore risulta superflua, le perplessità dell’editore
rientrano; il racconto, come previsto, compare nella raccolta. Ma non
suscita gli scandali temuti, semplicemente perché non ottiene grande
risonanza; il successo del volume, come quello del precedente (Storielle vane) è circoscritto, le recensioni sporadiche.
Sul numero del 18 novembre 1883
dell’“Illustrazione italiana” – settimanale pubblicato proprio da Treves
– la rubrica “Scorse letterarie” commenta la raccolta piuttosto
genericamente, sottolineando l’audacia degli argomenti, e in particolare
quella di Senso, con un’affettata indignazione che sembra
mirare soprattutto a stuzzicare la curiosità del pubblico. Appaiono
più significativi due interventi che, in modo diversissimo, si
concentrano sulla discrepanza fra l’opera di Boito e la voga
naturalista. Sulla “Domenica letteraria” del 16 dicembre 1883 una
sezione della rubrica “In biblioteca” segnala il volume senza
soffermarsi su nessun racconto, ma elogiando vivacemente – più con
divertente ricchezza di immagini che con densità di concetti – la sua
lontananza dal gusto predominante: il recensore anonimo (che
l’avversione al naturalismo e lo stile caustico indurrebbero a
identificare con Edoardo Scarfoglio, a lungo collaboratore del
periodico) auspica che i lettori siano ormai saturi di “un così copioso
e così pesante banchetto di verità”, e che possano quindi apprezzare
la “potenza fantastica”, la “snellezza d’immagini” e la “libertà di
movimenti” della raccolta. Diversa è, naturalmente, l’ottica che ispira
la recensione di Felice Cameroni, compresa nella sua “Rassegna
bibliografica” sul quotidiano “Il Sole” del 23 novembre 1883. Il critico
include Senso fra i racconti migliori del volume (su cui
pronunzia un giudizio variegato, in alcuni casi molto negativo),
liquidando fra l’altro subito le obiezioni moraliste; ma ne biasima gli
snodi più iperbolici, e ne deplora e ne minimizza al tempo stesso la
distanza dal naturalismo, ritenendola incrostazione di un’estetica
polverosa di cui è opportuno sbarazzarsi:
Non mi pare molto
verosimile la scena della contessa, quando sorprende, non vista, il suo
manutengolo […]. È d’effetto la scena della denunzia […]. Ma mi sembra
teatrale la fucilazione […]. Qui si degenera nel melodramma […]. Poiché
nutre predilezione verso le montagne del Trentino e l’adorata sua
Venezia, gli auguriamo che sappia ritrarne la vita intima colla stessa
evidenza stereoscopica delle novelle siciliane del Verga e quindi senza
alcuna dissonanza romantica.
Considerazioni non infondate, che
offrono anzi all’analisi del racconto un utile punto di partenza; ma in
un’altra prospettiva. La connotazione melodrammatica di Senso è
innegabile, ma, anziché combaciare con la concessione a un gusto
deteriore, ne costituisce una delle peculiarità più significative: il
suo interesse risiede nella sua eccentricità, non nel suo distacco
dagli approcci naturalisti e veristi (tanto più che le logiche del
melodramma si combinano spesso a quelle del naturalismo, proprio nelle
opere dei suoi principali rappresentanti). Certo il racconto (assai più
di molti altri dello scrittore) sceglie temi attraenti e strategie
narrative collaudate, ma, come si vedrà, sottrae loro efficacia,
strappandoli al loro orizzonte abituale, disinnescandone gli effetti
più prevedibili: la trama aderisce all’orizzonte del melodramma
discontinuamente e contraddittoriamente, non sprigiona gli effetti ad
esso più consoni, complica lo sfondo morale, inibisce la commozione;
adesca il lettore per poi spiazzarlo. E dunque se Senso si
situa al di fuori del naturalismo, se apparentemente si rifugia in
un’estetica resistentissima (e, in modi diversi, destinata difatti a
sopravvivere), ne scompiglia i presupposti, nega potere ai suoi
sortilegi; le sue dissonanze non nascono, come ritiene Cameroni, dal
ricorso a strumenti abusati, ma dal modo insolito di maneggiarli: quella
che avrebbe dovuto essere arma di cattura, si ribalta in fonte di
sconcerto. Sconcerto perdurante, presto risolto in noncuranza: al
tiepido interesse dei contemporanei succede l’oblio dei posteri, durato,
fino alla metà del Novecento, e riservato, con rare eccezioni, a tutta
la produzione dell’autore.
Difficile del resto supporre che la
negligenza di lettori e critici, e la sua suscettibilità a protrarsi,
possa aver mai costituito un cruccio per Boito: il primo a promuovere,
per così dire, il disinteresse sulla sua produzione, tendente sempre ad
ostentarne (fin dai titoli delle raccolte) il carattere di passatempo
disimpegnato; ben adagiato nella sua ancipite identità di
architetto-professore attivissimo e acclamato, e scrittore poco noto e
poco prolifico.
Tale atteggiamento, dopo la sua
scomparsa (avvenuta nel 1914), è rispettato, con scrupolo spinto
all’eccesso, da Arrigo (sopravvissutogli per quattro anni), che rifiuta
la proposta della Casa Cinemo-dramma di adattare per lo schermo un
racconto del fratello, spiegando così la sua scelta a Sabatino Lopez
(intermediario in quanto direttore della Società degli Autori):
La proposta della
casa Cinemo-dramma di rappresentare con la Cinematografia una novella
del mio rimpianto fratello non incontra il mio consenso. La vita
artistica di Camillo ebbe i suoi confini ben tracciati dalle pareti del
suo studio e della sua scuola; egli non pensò mai che un’opera della
sua mente potesse trovarsi a contatto col pubblico degli spettacoli.
Nella sua vasta bibliografia d’arte, di storia d’arte, di critica, di
pedagogia, d’estetica, le sue novelle appaiono come episodi isolati.
L’affetto che mi lega alla sua memoria m’impedisce di permettere ch’egli
si manifesti in modo diverso da quello che gli era consueto e che gli
valse onori e fama.
Un episodio trascurabile che gli eventi
successivi caricano di una connotazione ironica: perché sarà appunto
il cinema a riportare l’attenzione sulla produzione letteraria di Boito e
soprattutto su Senso, con la trasposizione del racconto girata
nel 1953 da Luchino Visconti. Questa rappresaglia del grande schermo
(molto divertente da sottolineare, al punto di aver fatto in qualche
caso identificare senz’altro con Senso il testo non menzionato
di cui Arrigo rifiuta i diritti) è d’altronde assolutamente casuale.
Nel 1945 Giorgio Bassani pubblica una selezione della narrativa di
Boito, intitolata Il maestro di setticlavio e altri racconti, che include Senso; come avverrà su ben altra scala e con ben altro fragore per il Gattopardo (pubblicato
su sua sollecitazione), lo scrittore, sottraendo un testo all’oblio,
stimola l’estro di Visconti, qui però quanto mai indirettamente. È la
sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico a scoprire il racconto grazie a
questa raccolta, e a includerne l’adattamento in un ventaglio di cinque
progetti presentato da lei e dal regista alla casa di produzione Lux
(che ha chiesto loro un film in costume, genere allora congeniale alle
esigenze del mercato); il direttore della Lux, Riccardo Gualino, si
pronunzia in suo favore. La sceneggiatura, nata dalla consueta
cooperazione fra Visconti e la Cecchi, si avvale del contributo appunto
di Bassani, e di Giorgio Prosperi e Carlo Alianello (in qualità di
consulente storico); oltre a giovarsi, per la versione inglese dei
dialoghi, di collaboratori d’eccezione quali Tennessee Williams e Paul
Bowles. La sua gestazione è piuttosto laboriosa, ma segue fin dal
principio (malgrado l’adesione letterale ad alcuni passi) la linea, più
che della ripresa infedele, della totale manipolazione.
Il film passa nella fase di lavorazione
per diverse traversie (il direttore della fotografia, Aldo Graziani –
noto come G.R. Aldo – muore in un incidente d’auto prima della fine
delle riprese); presentato nel 1954 al Festival di Venezia, non riceve
premi, ed è mutilato dai rigori della censura (in merito alla
rappresentazione della guerra e del rapporto fra le gerarchie militari e
i volontari garibaldini). Ma, a dispetto degli ostacoli contingenti e
della freddezza dell’establishment, ottiene vasta eco, riscuote
se non il consenso unanime comunque il vivo interesse della critica
francese: è presto ritenuto una tappa fondamentale dell’itinerario
viscontiano. L’accoglienza che gli è riservata, d’altronde, si rivela
calorosa quanto controversa, il clamore che solleva è fitto di
polemiche; tali da creare una vera e propria spaccatura nella critica
militante e nell’intellighenzia di sinistra. I sostenitori – in
particolare Guido Aristarco, legato al cinema di Visconti da una lunga
fedeltà – colgono nell’abbandono delle tecniche e tematiche neorealiste
la transizione a un realismo più maturo, fondato non sulla
riproduzione documentaristica ma sull’estrapolazione di significato da
personaggi e situazioni tipici; altri critici, soprattutto Luigi
Chiarini e Pio Baldelli, pur riconoscendone l’importanza, vi scorgono
invece un’involuzione verso astrazioni antistoriche e compiacimenti
calligrafici. Come è stato giustamente notato (ad esempio da Vittorio
Spinazzola), l’intensità del dibattito, se contribuisce alla risonanza
del film, ne appanna in parte la fisionomia, per trasformarlo in emblema
– apprezzato o deprecato – di un momento di transizione, della fine di
una stagione significativa quanto irripetibile. La tendenza a giudicarlo
in relazione al suo valore di svolta porta a tralasciarne il nesso con
il racconto di Boito, mentre finisce per provocarne l’accostamento – in
virtù non di una reale affinità ma di una contiguità transitoria – a Metello,
uno dei più noti romanzi di Pratolini; spunto di una disputa
parallela, quella fra Salinari e Muscetta sull’abbandono del neorealismo
in letteratura.
Il film ha così sul racconto
un’incidenza contraddittoria: lo sottrae all’oblio, lo propone persino
all’attenzione estera, affrancandolo dalla condanna a una notorietà
provinciale toccata a tante nostre opere; ma lo offusca perennemente,
vincolandolo allo statuto ancillare di casuale spunto di ispirazione. Al
principio, la distrazione sull’opera è in parte giustificata
dall’oscurità che la ricopre, non dissipata dall’isolato repêchage di
Bassani; oscurità attestata da un articolo di Calvino sulla
presentazione al Festival di Venezia (che descrive spiritosamente lo
sconcerto dei critici rispetto al nome di Boito e la loro frustrata
speranza di cavarsela trovando il testo nella brochure diffusa
in sala); nonché da un precedente intervento di una futura grande firma
del nostro giornalismo, Livio Zanetti, che, pur dimostrando
(diversamente dagli inviati a Venezia, e da molti altri critici)
un’accurata conoscenza dell’opera, la data al 1903. Meno comprensibile
è la tendenza di numerosi studi successivi non solo a non inoltrarsi
nella riscoperta del racconto, ma a riservargli un’ostilità
pregiudiziale; mentre, specularmente, i saggi abbastanza numerosi
dedicati al racconto nella seconda metà del Novecento inclinano quasi
tutti a nominare il film solo di sfuggita o a non nominarlo affatto.
Minimizzazione o omissione dovuta forse
al timore di contaminare con l’interesse per altri campi la specificità
degli studi letterari, e che si è rivelata inevitabilmente forzosa,
perché nella maggior parte dei casi è stato proprio il successo del
film ad attirare l’attenzione sul testo: ne offre un’ottima
dimostrazione involontaria la Storia della Scapigliatura di
Gaetano Mariani, che si guarda bene dal menzionare Visconti, ma designa
la protagonista come Livia Serpieri, aggiungendo al nome un cognome che
è un’innovazione del film. Insinuandosi nella memoria inconscia di chi
vorrebbe invece reciderla, l’interconnessione fra racconto e film si
riconferma clamorosamente; e tra la fine del Novecento e i nostri giorni
ormai parecchi contributi ne hanno sottolineato l’importanza.
Il che non implica, beninteso, che le
due opere non possano essere considerate autonomamente: si può
analizzare il film prescindendo dalla sua fonte di ispirazione, in
quanto fonte del tutto rimaneggiata, e soprattutto in nome delle ben
note riflessioni sull’autonomia del mezzo cinematografico; e imporre la
rilettura viscontiana come elemento indispensabile all’interpretazione
del racconto sarebbe erroneo quanto i deliberati tentativi di ignorarla.
Se in questa sede le si dà notevole spazio, è essenzialmente per due
ragioni. Intanto per una questione di metodo: il forte peso esercitato
negli ultimi decenni dall’estetica della ricezione spinge a valutare un
testo non esclusivamente nella sua intrinsecità, ma anche nella sua
interazione con gli orizzonti d’attesa, interazione che si sedimenta in
testimonianze a loro volta determinanti per i successivi approcci:
trasposizioni e transcodificazioni, messinscene teatrali e
rielaborazioni cinematografiche, in grado di orientare, stimolare,
fuorviare il pubblico, di filtrare la fortuna di un’opera al punto di
rinnovarne la percezione. Inoltre, il film di Visconti si rivela filtro
tanto ingombrante quanto significativo, perché ricompone l’estetica del
melodramma, sottoposta da Boito a una disgregazione spiazzante, e
struttura la vicenda secondo un diverso taglio storico; provvedendo in
qualche modo a disambiguare il racconto, a trasformarne le dinamiche
più disorientanti, rendendole più aperte alla comprensione e
accomodanti verso le emozioni.
La maggiore limpidezza, la maggiore
‘facilità’ del film, beninteso, non gli sottrae spessore: non si tratta
di ribaltare la gerarchia più diffusa, subordinando il suo valore a
quello del testo. L’accostamento dei lavori di Boito e Visconti porta a
rilevare come entrambi siano densi di significato, ma su versanti
divergenti: il racconto inarcato su un insolito ripudio degli effetti di
pathos, silenziosamente trasgressivo, serrato sull’implicito; il film
teso a recuperare gli effetti di pathos per infondervi nuovi contenuti, a
esplicitare i significati secondo una linea discontinua, che a un uso
magistrale della reticenza alterna empiti di chiarezza troppo fragorosa e
didascalica.
Con una coincidenza di quelle davvero
puramente casuali, nel 2002, quando questo lavoro era stato appena
chiuso, uscì la nuova trasposizione del racconto girata da Tinto Brass,
Senso 45, attualizzazione che sposta la vicenda all’epoca della
repubblica di Salò: se non è riuscito a soppiantare la fama del Senso
di Visconti e se onestamente non c’è da rammaricarsene, il film non è
però privo di interesse; ma per ragioni di spazio è im- possibile
prenderlo in considerazione in questa sede; come è impossibile
analizzare un’altra, più recente derivazione, l’opera lirica Senso di
Marco Tutino (libretto di Giuseppe Di Leva) composta nel 2010 e andata
in scena al principio del 2011, in occasione del centocinquantenario
dell’Unità.
Clotilde Bertoni
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