L’ossessione per gli ultimi
di Paolo Febbraro
Sembra un’ossessione. O forse meno, una
moda, o una maniera di autoassolversi. Qualche anno fa, Giulio Ferroni
ha pubblicato un libro intitolato Gli ultimi poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto.
Lo scorso settembre 2014 Paolo Di Stefano ha ricordato il decimo
anniversario della scomparsa di Giovanni Raboni designandolo come
l’«ultimo maestro». E sul recente numero 285 della rivista
«L’immaginazione» Romano Luperini ha salutato un benvenuto Oscar
Mondadori delle poesie di Franco Fortini, ovvero dell’«ultimo fra i
grandi poeti-intellettuali del secondo Novecento», anzi «una figura di
poeta intellettuale che oggi non esiste più».
Lo stesso Luperini, del resto, in una
nota apparsa sempre su «L’immaginazione» (n. 283, settembre-ottobre
2014), aveva attirato l’attenzione su una poesia di Valerio Magrelli,
«poeta fra i maggiori, forse il maggiore, degli ultimi trent’anni»,
intitolata Invettiva sotto una tomba etrusca, che a suo dire
comunica «una impressione di chiusura senza scampo, di un orizzonte
tappato, di una morte che si reclude in se stessa e non lascia
intravedere alcun possibile spiraglio di vita e nessuna alternativa. È
l’alfabeto dei padri che è morto, è morta la lingua della poesia. Che la
poesia e il suo linguaggio appartengano al passato, a un mondo
scomparso o in via di scomparsa è stato detto più volte, da Leopardi
sino, per esempio, a Fortini».
Sulla sequenza Leopardi-Fortini-Magrelli
è impossibile pronunciarsi. Dico solo che argomentare sulla morte della
poesia grazie ai versi di un autore che si ritiene “forse il maggiore
degli ultimi trent’anni” è quantomeno paradossale. Tanto da farmi
tornare subito alla contagiosa ossessione per “gli ultimi”, alla sua
aura di tramonto romantico, alla sua enfasi nobilitante, al suo
hegelismo insieme catastrofico e sbandierato.
Quando non si ha il desiderio, o
l’elementare buon senso, di leggere i pochi “poeti”, i pochissimi
“poeti-intellettuali” e i rari “maestri” che persino oggi riescono ad
agire nel presente, si dice che quelli vissuti in precedenza sono stati
“gli ultimi”. Ma non si certifica la sparizione di una figura, quanto la
fine della propria capacità di seguirne le metamorfosi. Così, con
dolente e inalberato orgoglio, alcuni nostri letterati gettano
noncuranti palate di terra ancora fresca sui semisommersi, ma vivi,
protagonisti della nostra cultura militante. Cento anni fa, sui primi
libri di Saba, Gozzano, Rebora, Sbarbaro, Palazzeschi e Campana, i
critici arricciavano il naso e magari, con Croce, sostenevano il loro
Carducci o dedicavano severe attenzioni a Pascoli. In ogni caso, però,
fossero Crepuscolo o Decadenza, si tentava un’analisi del presente.
Oggi, invece, si preferisce il canto nostalgico per già lontani eroi, il
gesto solenne e liquidatorio che chiude il Grande Libro.
Questo atteggiamento piangevole non è
soltanto ingeneroso; è anche il sintomo di un provincialismo
asfissiante; ma soprattutto, è un errore al tempo stesso storicistico e
personale. Luperini, ad esempio, dovrebbe spiegarci perché «la lingua
della poesia è morta», quando nel mondo esistono poeti eccellenti, certo
in numero non amplissimo, ma capaci di rigore e ampia visione. La
lingua della poesia è morta soltanto in Italia? E perché? Forse perché
in Italia il letterato è impregnato di ideologie, al tramonto
delle quali nulla più conosce e riconosce?
Fortini è stato l’ultimo
poeta-intellettuale? Forse è stato l’ultimo poeta-intellettuale
comunista, il che fa una certa differenza. E questa differenza andrebbe
indagata, invece che rimpianta. Può darsi che la colpa sia dei poeti
odierni. Può darsi invece che sia del comunismo. Non solo: un poeta è
anche un intellettuale se questo doppio ruolo riesce a interpretarlo e
se allo stesso tempo gli viene riconosciuto. Ma se non si fa che
ripetere la giaculatoria sulla morte della poesia il problema non sta
nel poeta, ma in chi gli nega a priori ogni udienza per via di
incontrovertibili, profondissime, indiscutibili ragioni storiche.
Quando le hanno chiesto “se la poesia ha
un futuro”, la poetessa irlandese Eavan Boland ha risposto che si
tratta di una domanda quantomeno irriguardosa. Io direi meglio: è una
domanda che va ritorta contro coloro che la pongono. Se fosse morta la
lingua della poesia, sarebbe in primis la cultura critica a pagarne le
peggiori conseguenze. Se fossero già scomparsi “gli ultimi poeti”, la
responsabilità di ciò cadrebbe sugli intellettuali. I quali inutilmente
tenterebbero di scaricarla sulle famigerate “condizioni oggettive”, o
sullo “spirito dei tempi”, ovvero esattamente su ciò che essi hanno il
dovere di influenzare. In molti intellettuali italiani manca la gioia
sostanziosa della trasmissione, della viva tradizione, quella capacità
di prendere dal passato, di dialogare con i morti, in vista di coloro
che ci succederanno. Manca la capacità di affondare nel duro presente
per consegnarlo, chiarito a sé stesso, al futuro. Come si fa a non
capire che lingua, visione poetica e cultura critica sono
consustanziali? Perché rinunciare a un’opera di interpretazione esigente
che non si limiti a seguire delle vicende, ma tenti di crearle? E
soprattutto, perché non spiegare le ragioni di un possibile e pericoloso
tramonto, invece di contribuire a realizzarlo, con l’anima intonsa e
l’armatura ben lucida? La nostra è una terra desolata, ma la vera novità
è che lo è da millenni, seppure in forme ogni volta diverse, che vanno
falsificate e comprese in modi altrettanto diversi. Invece di
intrattenersi con dei “poeti maggiori” che ci fanno pensare alla morte
della poesia – e che per questo forse non sono poeti maggiori –, certi
nostri letterati farebbero bene a prendere con sé la lanterna di Diogene
e mettersi a cercare, sfidando l’incertezza, i pericoli del viaggio, i
probabili abbagli. Poesia ed errore, scriveva proprio Fortini.25 marzo 2015 http://www.leparoleelecose.it/
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