25 marzo 2015

La poesia, malgrado tutto, è ancora viva...


L’ossessione per gli ultimi

di Paolo Febbraro

Sembra un’ossessione. O forse meno, una moda, o una maniera di autoassolversi. Qualche anno fa, Giulio Ferroni ha pubblicato un libro intitolato Gli ultimi poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto. Lo scorso settembre 2014 Paolo Di Stefano ha ricordato il decimo anniversario della scomparsa di Giovanni Raboni designandolo come l’«ultimo maestro». E sul recente numero 285 della rivista «L’immaginazione» Romano Luperini ha salutato un benvenuto Oscar Mondadori delle poesie di Franco Fortini, ovvero dell’«ultimo fra i grandi poeti-intellettuali del secondo Novecento», anzi «una figura di poeta intellettuale che oggi non esiste più».
Lo stesso Luperini, del resto, in una nota apparsa sempre su «L’immaginazione» (n. 283, settembre-ottobre 2014), aveva attirato l’attenzione su una poesia di Valerio Magrelli, «poeta fra i maggiori, forse il maggiore, degli ultimi trent’anni», intitolata Invettiva sotto una tomba etrusca, che a suo dire comunica «una impressione di chiusura senza scampo, di un orizzonte tappato, di una morte che si reclude in se stessa e non lascia intravedere alcun possibile spiraglio di vita e nessuna alternativa. È l’alfabeto dei padri che è morto, è morta la lingua della poesia. Che la poesia e il suo linguaggio appartengano al passato, a un mondo scomparso o in via di scomparsa è stato detto più volte, da Leopardi sino, per esempio, a Fortini».
Sulla sequenza Leopardi-Fortini-Magrelli è impossibile pronunciarsi. Dico solo che argomentare sulla morte della poesia grazie ai versi di un autore che si ritiene “forse il maggiore degli ultimi trent’anni” è quantomeno paradossale. Tanto da farmi tornare subito alla contagiosa ossessione per “gli ultimi”, alla sua aura di tramonto romantico, alla sua enfasi nobilitante, al suo hegelismo insieme catastrofico e sbandierato.
Quando non si ha il desiderio, o l’elementare buon senso, di leggere i pochi “poeti”, i pochissimi “poeti-intellettuali” e i rari “maestri” che persino oggi riescono ad agire nel presente, si dice che quelli vissuti in precedenza sono stati “gli ultimi”. Ma non si certifica la sparizione di una figura, quanto la fine della propria capacità di seguirne le metamorfosi. Così, con dolente e inalberato orgoglio, alcuni nostri letterati gettano noncuranti palate di terra ancora fresca sui semisommersi, ma vivi, protagonisti della nostra cultura militante. Cento anni fa, sui primi libri di Saba, Gozzano, Rebora, Sbarbaro, Palazzeschi e Campana, i critici arricciavano il naso e magari, con Croce, sostenevano il loro Carducci o dedicavano severe attenzioni a Pascoli. In ogni caso, però, fossero Crepuscolo o Decadenza, si tentava un’analisi del presente. Oggi, invece, si preferisce il canto nostalgico per già lontani eroi, il gesto solenne e liquidatorio che chiude il Grande Libro.
Questo atteggiamento piangevole non è soltanto ingeneroso; è anche il sintomo di un provincialismo asfissiante; ma soprattutto, è un errore al tempo stesso storicistico e personale. Luperini, ad esempio, dovrebbe spiegarci perché «la lingua della poesia è morta», quando nel mondo esistono poeti eccellenti, certo in numero non amplissimo, ma capaci di rigore e ampia visione. La lingua della poesia è morta soltanto in Italia? E perché? Forse perché in Italia il letterato è impregnato di ideologie, al tramonto delle quali nulla più conosce e riconosce?
Fortini è stato l’ultimo poeta-intellettuale? Forse è stato l’ultimo poeta-intellettuale comunista, il che fa una certa differenza. E questa differenza andrebbe indagata, invece che rimpianta. Può darsi che la colpa sia dei poeti odierni. Può darsi invece che sia del comunismo. Non solo: un poeta è anche un intellettuale se questo doppio ruolo riesce a interpretarlo e se allo stesso tempo gli viene riconosciuto. Ma se non si fa che ripetere la giaculatoria sulla morte della poesia il problema non sta nel poeta, ma in chi gli nega a priori ogni udienza per via di incontrovertibili, profondissime, indiscutibili ragioni storiche.
Quando le hanno chiesto “se la poesia ha un futuro”, la poetessa irlandese Eavan Boland ha risposto che si tratta di una domanda quantomeno irriguardosa. Io direi meglio: è una domanda che va ritorta contro coloro che la pongono. Se fosse morta la lingua della poesia, sarebbe in primis la cultura critica a pagarne le peggiori conseguenze. Se fossero già scomparsi “gli ultimi poeti”, la responsabilità di ciò cadrebbe sugli intellettuali. I quali inutilmente tenterebbero di scaricarla sulle famigerate “condizioni oggettive”, o sullo “spirito dei tempi”, ovvero esattamente su ciò che essi hanno il dovere di influenzare. In molti intellettuali italiani manca la gioia sostanziosa della trasmissione, della viva tradizione, quella capacità di prendere dal passato, di dialogare con i morti, in vista di coloro che ci succederanno. Manca la capacità di affondare nel duro presente per consegnarlo, chiarito a sé stesso, al futuro. Come si fa a non capire che lingua, visione poetica e cultura critica sono consustanziali? Perché rinunciare a un’opera di interpretazione esigente che non si limiti a seguire delle vicende, ma tenti di crearle? E soprattutto, perché non spiegare le ragioni di un possibile e pericoloso tramonto, invece di contribuire a realizzarlo, con l’anima intonsa e l’armatura ben lucida? La nostra è una terra desolata, ma la vera novità è che lo è da millenni, seppure in forme ogni volta diverse, che vanno falsificate e comprese in modi altrettanto diversi. Invece di intrattenersi con dei “poeti maggiori” che ci fanno pensare alla morte della poesia – e che per questo forse non sono poeti maggiori –, certi nostri letterati farebbero bene a prendere con sé la lanterna di Diogene e mettersi a cercare, sfidando l’incertezza, i pericoli del viaggio, i probabili abbagli. Poesia ed errore, scriveva proprio Fortini.

  http://www.leparoleelecose.it/

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