Ci
sono libri che segnano un'epoca. Il buon soldato Svejk è uno di
questi. Forse, se Hasek non fosse scomparso nel 1923 a soli
quarant'anni, la saga sarebbe continuata nel dopoguerra con Svejk
diventato un bravo camerata nazista o un buon compagno stalinista, ma
comunque sempre impegnato a cavarsela contro la stupidità del
potere.
Valentina Parisi
Hasek. Senso di un
emblema del non senso
Pochi scrittori
sembrano avere sperimentato una
identificazione altrettanto totale con
i personaggi che li hanno resi universalmente
noti quanto il praghese Jaroslav Hašek, padre di quel
«bravo soldato Svejk» elevato nell’immaginario
collettivo a incarnazione del fantaccino
beffardo e imboscato. Dotato di una vitalità
impressionante, che gli ha permesso di essere eletto
a presunto simbolo dello spirito nazionale
ceco, nonché di troneggiare in tempi recenti dalle
insegne di una catena di ristoranti, Svejk ha finito per
oscurare il suo stesso autore (tipo peraltro quanto mai
eccentrico), fagocitando nella percezione
dei lettori tutti gli altri scritti pubblicati prima
della sua apparizione.
È sul versante di
questa alterità che si posiziona il Meridiano
a lui dedicato (Opere, a cura di Annalisa
Cosentino, pp. 1568, euro 65,00) che, proponendo il
capolavoro di Hašek in una traduzione integrale
(cinque anni fa era già uscita quella pregevolissima
di Giuseppe Dierna nei Millenni Einaudi) estendendo la
prospettiva anche in direzione di quei testi poetici,
giornalistici, drammaturgici
e narrativi in parte inediti in italiano che
rappresentano il variopinto retroterra delle
Avventure del bravo soldato Svejk nella Grande guerra.
Pagine che non rivoluzioneranno certo il
giudizio critico sullo scrittore, ma che hanno il
merito di inquadrarne l’opus maius sullo sfondo di una
pervicace irrisione del mito dell’Austria Felix,
e richiamando alla mente, quanto a radicalismo,
Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus.
La catastrofe della Grande Guerra, annunciata dalla domestica di Svejk nell’incipit fulminante: «Insomma, hanno ammazzato il nostro Ferdinando», non sarà infatti che il colpo di grazia per «la fatiscente monarchia asburgica» alla quale – in modo più o meno esplicito – Hasek rivolgeva i suoi strali almeno già dal 1910. Tanto da fondare, nella primavera del 1911, un immaginario «Partito del progresso moderato nei limiti della legge», per parodiare nei suoi «comizi» di sedicente candidato al parlamento di Vienna la retorica dei politicanti della Kakania.
Già in queste
improvvisazioni satiriche, in genere
concepite in questa o quella birreria
di fronte agli occasionali compagni di bevute, in
una sorta di cabaret dada ante litteram, emerge la
predilezione di Hašek per la dimensione orale,
così come il culto della ciarla, della fanfaronata,
dell’aneddoto inverosimile che da lì a qualche
decennio saranno elevati a vero e proprio
genere letterario da Bohumil Hrabal.
Ma anche in precedenza,
nei cosiddetti «bozzetti galiziani» e nei
reportage di viaggio pubblicati a diciott’anni
sul principale quotidiano ceco, «Narodny listy»,
affiorava la tendenza di Hašek all’affabulazione,
nonché quel tono singolarmente ambiguo che
caratterizzerà tutte le sue opere, sospese tra
situazioni di un realismo quasi desolante e la
loro immancabile deformazione grottesca.
Basti leggere L’assassino di fronte al tribunale,
dove la requisitoria di un pubblico ministero
viene inframmezzata in una sorta di flusso di coscienza
a quelle che sono le reali preoccupazioni
dell’oratore in quel momento, ossia lo spezzatino
scadente appena divorato.
Oppure La ribellione
del detenuto Sejba, in cui la messa celebrata all’interno
di un carcere si trasforma in una spassosa prova di
nervi tra il chierichetto intenzionato
a dimostrare tutto il suo zelo per ricevere una
razione in più e il direttore della prigione, che
vorrebbe farla finita il prima possibile per
andarsene all’osteria.
D’altronde, la
capacità virtuosistica di alternare
registri stilistici, nonché di indugiare
con evidente soddisfazione sulla soglia tra
verosimiglianza e parodia, non metterà
al riparo Hašek dai tagli della censura imperial-regia,
allorché le sue frecciate contro lo Stato, la Chiesa
cattolica e l’esercito si faranno troppo evidenti.
Incarcerato più volte per la sua vicinanza agli
ambienti anarchici, nonché per aver turbato l’ordine
pubblico da sobrio e da ubriaco, Hašek sarà richiamato
come riservista nel gennaio 1915 e, dopo essersi fatto
espellere dalla scuola ufficiali a Ceske Budejovice,
finirà prigioniero dei russi nel settembre di
quello stesso anno, non prima di essersi consegnato
volontariamente al nemico, secondo una prassi non
infrequente nelle file dell’esercito asburgico.
Tutte vicende che, seppur trasfigurate, ritroviamo puntualmente nelle Avventure del bravo soldato Svejk, la cui stesura fu interrotta dalla morte dell’autore nel 1923 proprio nel punto in cui Svejk si apprestava a cadere ignominiosamente in mano al nemico.
Non si sa se, qualora avesse avuto la possibilità di continuare, Hašek avrebbe reso il suo eroe partecipe anche degli episodi più picareschi della sua biografia personale, quelli che all’indomani della rivoluzione d’Ottobre lo vedranno schierarsi a favore dei bolscevichi e diventare addirittura aiutante del comandante del soviet militare della sperduta città tatara di Bogul’ma. Di certo, è difficile immaginarsi Svejk in veste di redattore di riviste filo-bolsceviche o responsabile della propaganda – mansioni queste che il suo creatore svolgerà prima a Kiev, poi a Ufa e Irkutsk durante la guerra civile.
Tuttavia, la
notevole dose di autobiografismo che permea
il capolavoro di Hašek non deve far dimenticare
che il personaggio di Svejk ha una genesi complessa
che risale al periodo prebellico e finanche al
1907, quando lo scrittore, celandosi dietro il nome
della sua fidanzata, aveva già pubblicato un
racconto (qui tradotto per la prima volta in italiano)
centrato sulla figura di un improbabile «bravo
soldato svedese» persuaso del fatto che «la più
grande delizia dev’essere morire per il proprio sovrano».
Il volume permette di confrontare le varie ipostasi assunte da Svejk nel tempo, dai cinque racconti del ciclo datato 1911 in cui compare già con il suo nome (Il bravo soldato Svejk. Gli interessanti casi di un milite onesto) al romanzo-pamphlet del 1917 titolato Il bravo soldato prigioniero, dove spuntano vari elementi autobiografici e la descrizione del cupio dissolvi che si è impadronito dell’impero asburgico («L’Austria non desiderava altro che diventare inutile») si fa sempre più sferzante.
D’altro canto la
proliferazione degli Svejk – ossia la
generazione di innumerevoli cloni
accomunati da quella «idiozia congenita»
che consente loro di mettere a nudo l’assurdità
nascosta dietro la retorica patriottarda – non
si arresterà neppure dopo la prematura
scomparsa di Hašek. Quasi a smentire
l’interpretazione «nazionale» che vuole Svejk espressione
di un panciafichismo tipicamente ceco,
l’anti-soldato di Hašek sarà riletto in chiave pacifista
e universale nel 1928 da Erwin Piscator
e Bertold Brecht, che lo porteranno in scena
a Berlino «mobilitando» nel vero senso della
parola le marionette disegnate da Georg Grosz grazie
a un tapis roulant.
Ma l’avventura più angosciante vissuta dal «buon soldato» è certamente quella che gli riserverà lo stesso Brecht, quando nel 1943 lo resusciterà nella pièce teatrale Svejk nella seconda guerra mondiale, portandolo fino a Stalingrado camuffato da nazista.
Invariabilmente spiazzante e inafferrabile nel suo candore, Svejk resta ancor oggi dopo più di cent’anni un «classico» della resistenza passiva al male, forse l’incarnazione più riuscita di quel dissenso mimetico che finge di avallare la logica aberrante del potere per meglio demistificarlo. Un aspetto che è stato colto con acutezza da Milan Kundera: «Svejk aderisce così poco agli scopi della guerra che non li contesta neppure. La guerra è spaventosa ma lui non la prende sul serio. Non si prende sul serio ciò che non ha senso».
Il Manifesto – 1 marzo 2015
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