15 marzo 2015

UNA RISATA SEPPELLIRA' OGNI FORMA DI POTERE


Ci sono libri che segnano un'epoca. Il buon soldato Svejk è uno di questi. Forse, se Hasek non fosse scomparso nel 1923 a soli quarant'anni, la saga sarebbe continuata nel dopoguerra con Svejk diventato un bravo camerata nazista o un buon compagno stalinista, ma comunque sempre impegnato a cavarsela contro la stupidità del potere.


Valentina Parisi

Hasek. Senso di un emblema del non senso
Pochi scrit­tori sem­brano avere spe­ri­men­tato una iden­ti­fi­ca­zione altret­tanto totale con i per­so­naggi che li hanno resi uni­ver­sal­mente noti quanto il pra­ghese Jaro­slav Hašek, padre di quel «bravo sol­dato Svejk» ele­vato nell’immaginario col­let­tivo a incar­na­zione del fan­tac­cino bef­fardo e imbo­scato. Dotato di una vita­lità impres­sio­nante, che gli ha per­messo di essere eletto a pre­sunto sim­bolo dello spi­rito nazio­nale ceco, non­ché di tro­neg­giare in tempi recenti dalle inse­gne di una catena di risto­ranti, Svejk ha finito per oscu­rare il suo stesso autore (tipo peral­tro quanto mai eccen­trico), fago­ci­tando nella per­ce­zione dei let­tori tutti gli altri scritti pub­bli­cati prima della sua apparizione.

È sul ver­sante di que­sta alte­rità che si posi­ziona il Meri­diano a lui dedi­cato (Opere, a cura di Anna­lisa Cosen­tino, pp. 1568, euro 65,00) che, pro­po­nendo il capo­la­voro di Hašek in una tra­du­zione inte­grale (cin­que anni fa era già uscita quella pre­ge­vo­lis­sima di Giu­seppe Dierna nei Mil­lenni Einaudi) esten­dendo la pro­spet­tiva anche in dire­zione di quei testi poe­tici, gior­na­li­stici, dram­ma­tur­gici e nar­ra­tivi in parte ine­diti in ita­liano che rap­pre­sen­tano il vario­pinto retro­terra delle Avven­ture del bravo sol­dato Svejk nella Grande guerra. Pagine che non rivo­lu­zio­ne­ranno certo il giu­di­zio cri­tico sullo scrit­tore, ma che hanno il merito di inqua­drarne l’opus maius sullo sfondo di una per­vi­cace irri­sione del mito dell’Austria Felix, e richia­mando alla mente, quanto a radi­ca­li­smo, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus.

La cata­strofe della Grande Guerra, annun­ciata dalla dome­stica di Svejk nell’incipit ful­mi­nante: «Insomma, hanno ammaz­zato il nostro Fer­di­nando», non sarà infatti che il colpo di gra­zia per «la fati­scente monar­chia asbur­gica» alla quale – in modo più o meno espli­cito – Hasek rivol­geva i suoi strali almeno già dal 1910. Tanto da fon­dare, nella pri­ma­vera del 1911, un imma­gi­na­rio «Par­tito del pro­gresso mode­rato nei limiti della legge», per paro­diare nei suoi «comizi» di sedi­cente can­di­dato al par­la­mento di Vienna la reto­rica dei poli­ti­canti della Kaka­nia.

Già in que­ste improv­vi­sa­zioni sati­ri­che, in genere con­ce­pite in que­sta o quella bir­re­ria di fronte agli occa­sio­nali com­pa­gni di bevute, in una sorta di caba­ret dada ante lit­te­ram, emerge la pre­di­le­zione di Hašek per la dimen­sione orale, così come il culto della ciarla, della fan­fa­ro­nata, dell’aneddoto inve­ro­si­mile che da lì a qual­che decen­nio saranno ele­vati a vero e pro­prio genere let­te­ra­rio da Bohu­mil Hra­bal.

Ma anche in pre­ce­denza, nei cosid­detti «boz­zetti gali­ziani» e nei repor­tage di viag­gio pub­bli­cati a diciott’anni sul prin­ci­pale quo­ti­diano ceco, «Narodny listy», affio­rava la ten­denza di Hašek all’affabulazione, non­ché quel tono sin­go­lar­mente ambi­guo che carat­te­riz­zerà tutte le sue opere, sospese tra situa­zioni di un rea­li­smo quasi deso­lante e la loro imman­ca­bile defor­ma­zione grot­te­sca. Basti leg­gere L’assassino di fronte al tri­bu­nale, dove la requi­si­to­ria di un pub­blico mini­stero viene infram­mez­zata in una sorta di flusso di coscienza a quelle che sono le reali pre­oc­cu­pa­zioni dell’oratore in quel momento, ossia lo spez­za­tino sca­dente appena divo­rato.

Oppure La ribel­lione del dete­nuto Sejba, in cui la messa cele­brata all’interno di un car­cere si tra­sforma in una spas­sosa prova di nervi tra il chie­ri­chetto inten­zio­nato a dimo­strare tutto il suo zelo per rice­vere una razione in più e il diret­tore della pri­gione, che vor­rebbe farla finita il prima pos­si­bile per andar­sene all’osteria.

D’altronde, la capa­cità vir­tuo­si­stica di alter­nare regi­stri sti­li­stici, non­ché di indu­giare con evi­dente sod­di­sfa­zione sulla soglia tra vero­si­mi­glianza e paro­dia, non met­terà al riparo Hašek dai tagli della cen­sura imperial-regia, allor­ché le sue frec­ciate con­tro lo Stato, la Chiesa cat­to­lica e l’esercito si faranno troppo evi­denti. Incar­ce­rato più volte per la sua vici­nanza agli ambienti anar­chici, non­ché per aver tur­bato l’ordine pub­blico da sobrio e da ubriaco, Hašek sarà richia­mato come riser­vi­sta nel gen­naio 1915 e, dopo essersi fatto espel­lere dalla scuola uffi­ciali a Ceske Bude­jo­vice, finirà pri­gio­niero dei russi nel set­tem­bre di quello stesso anno, non prima di essersi con­se­gnato volon­ta­ria­mente al nemico, secondo una prassi non infre­quente nelle file dell’esercito asbur­gico.


Tutte vicende che, sep­pur tra­sfi­gu­rate, ritro­viamo pun­tual­mente nelle Avven­ture del bravo sol­dato Svejk, la cui ste­sura fu inter­rotta dalla morte dell’autore nel 1923 pro­prio nel punto in cui Svejk si appre­stava a cadere igno­mi­nio­sa­mente in mano al nemico.

Non si sa se, qua­lora avesse avuto la pos­si­bi­lità di con­ti­nuare, Hašek avrebbe reso il suo eroe par­te­cipe anche degli epi­sodi più pica­re­schi della sua bio­gra­fia per­so­nale, quelli che all’indomani della rivo­lu­zione d’Ottobre lo vedranno schie­rarsi a favore dei bol­sce­vi­chi e diven­tare addi­rit­tura aiu­tante del coman­dante del soviet mili­tare della sper­duta città tatara di Bogul’ma. Di certo, è dif­fi­cile imma­gi­narsi Svejk in veste di redat­tore di rivi­ste filo-bolsceviche o respon­sa­bile della pro­pa­ganda – man­sioni que­ste che il suo crea­tore svol­gerà prima a Kiev, poi a Ufa e Irku­tsk durante la guerra civile.

Tut­ta­via, la note­vole dose di auto­bio­gra­fi­smo che per­mea il capo­la­voro di Hašek non deve far dimen­ti­care che il per­so­nag­gio di Svejk ha una genesi com­plessa che risale al periodo pre­bel­lico e finan­che al 1907, quando lo scrit­tore, celan­dosi die­tro il nome della sua fidan­zata, aveva già pub­bli­cato un rac­conto (qui tra­dotto per la prima volta in ita­liano) cen­trato sulla figura di un impro­ba­bile «bravo sol­dato sve­dese» per­suaso del fatto che «la più grande deli­zia dev’essere morire per il pro­prio sovrano».

Il volume per­mette di con­fron­tare le varie ipo­stasi assunte da Svejk nel tempo, dai cin­que rac­conti del ciclo datato 1911 in cui com­pare già con il suo nome (Il bravo sol­dato Svejk. Gli inte­res­santi casi di un milite one­sto) al romanzo-pamphlet del 1917 tito­lato Il bravo sol­dato pri­gio­niero, dove spun­tano vari ele­menti auto­bio­gra­fici e la descri­zione del cupio dis­solvi che si è impa­dro­nito dell’impero asbur­gico («L’Austria non desi­de­rava altro che diven­tare inu­tile») si fa sem­pre più sferzante.

D’altro canto la pro­li­fe­ra­zione degli Svejk – ossia la gene­ra­zione di innu­me­re­voli cloni acco­mu­nati da quella «idio­zia con­ge­nita» che con­sente loro di met­tere a nudo l’assurdità nasco­sta die­tro la reto­rica patriot­tarda – non si arre­sterà nep­pure dopo la pre­ma­tura scom­parsa di Hašek. Quasi a smen­tire l’interpretazione «nazio­nale» che vuole Svejk espres­sione di un pan­cia­fi­chi­smo tipi­ca­mente ceco, l’anti-soldato di Hašek sarà riletto in chiave paci­fi­sta e uni­ver­sale nel 1928 da Erwin Pisca­tor e Ber­told Bre­cht, che lo por­te­ranno in scena a Ber­lino «mobi­li­tando» nel vero senso della parola le mario­nette dise­gnate da Georg Grosz gra­zie a un tapis rou­lant.

Ma l’avventura più ango­sciante vis­suta dal «buon sol­dato» è cer­ta­mente quella che gli riser­verà lo stesso Bre­cht, quando nel 1943 lo resu­sci­terà nella pièce tea­trale Svejk nella seconda guerra mon­diale, por­tan­dolo fino a Sta­lin­grado camuf­fato da nazi­sta.

Inva­ria­bil­mente spiaz­zante e inaf­fer­ra­bile nel suo can­dore, Svejk resta ancor oggi dopo più di cent’anni un «clas­sico» della resi­stenza pas­siva al male, forse l’incarnazione più riu­scita di quel dis­senso mime­tico che finge di aval­lare la logica aber­rante del potere per meglio demi­sti­fi­carlo. Un aspetto che è stato colto con acu­tezza da Milan Kun­dera: «Svejk ade­ri­sce così poco agli scopi della guerra che non li con­te­sta nep­pure. La guerra è spa­ven­tosa ma lui non la prende sul serio. Non si prende sul serio ciò che non ha senso».


Il Manifesto – 1 marzo 2015

Nessun commento:

Posta un commento