Nel marzo del 1871 la
Comune di Parigi sconvolse l'Europa. Per la prima volta le “classi
pericolose” davano l'assalto al cielo. L'impressione fu enorme. Uno
studio di Kristin Ross mette in evidenza il rapporto profondo fra
quegli avvenimenti e la poesia di Rimbaud.
Mario Pezzella
Lo sciame poetico di
un'esistenza in atto
Walter Benjamin
definì il rapporto tra forme simboliche e modo
di produzione capitalistico col termine
di espressione (e non con quelli di struttura
e sovrastruttura). Kristin Ross, nella nuova
edizione deRimbaud, la Commune de Paris et l’invention
de l’histoire spatiale (Les Prairies ordinaires),
segue un metodo simile studiando il legame tra l’opera di
Rimbaud e la Comune di Parigi: occorre cercare le
«strutture comuni della vita quotidiana –
l’immaginario sociale dello spazio e del tempo» e del
linguaggio poetico. Lo spazio sociale
è simultanamente ordine economico
e simbolico e disegna l’orizzonte di senso
della vita quotidiana (un termine che Ross riprende da
Henry Lefebvre). Perciò Marx definiva la Comune come
«esistenza in atto».
Il termine spazio
sociale va del resto inteso in senso proprio. Le strutture
di potere e il modo di produzione dominante (così
come le esperienze che intendono combatterli) si
inscrivono simbolicamente e materialmente
negli spazi urbani, nella maniera in cui sono divisi
e amministrati, nella forma biopolitica
entro la quale sono distribuite le vite individuali
e le loro relazioni all’interno di essi. L’«esistenza
in atto» della Comune è una rivoluzione della
geografia della città. Durante l’assedio, compaiono
nuovi modi di incontrarsi e di riunirsi, conseguenza
e causa di diverse condotte e comportamenti.
La rivolta induce l’intuizione di un «tempo saturo», in cui ogni
istante acquista la potente densità di un possibile
punto di svolta della storia.
L’atto fondante
La Comune non è solo
una rivoluzione politica; riarticola infatti
l’ordine simbolico della vita quotidiana. Come
nei rapporti sociali così nella distribuzione e nella
codifica di nuovi spazi essa segue un principio
egualitario e antigerarchico. La
Comune ha messo in questione prima di tutto la divisione
tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e la
gerarchia di valori che ne conseguiva. Non per caso la
distruzione della colonna Vendôme suscitò così tanto
scandalo da divenire l’atto emblematico della
Comune: segno, per alcuni, della sua barbarie e del
suo disprezzo per il passato e la storia.
Ma la colonna era nata
come fondazione e propaganda di uno spazio
sociale politicamente determinato: essa
celebrava le glorie militari dell’Impero e dunque
una definita gerarchia di poteri, a cui veniva
sottomesso lo spazio geografico. La colonna
era il simbolo dell’incatenamento e dell’incantamento
dei molti all’Uno verticale e convergente
dello Stato. Distruggerla indicava la volontà di
cancellare questa gerarchia, di sostituirla
con una diversa distribuzione sociale della vita.
La rivolta della Comune
procede dalla liberazione della vita quotidiana
verso l’emancipazione economica, investe la sfera
del riconoscimento, dell’intersoggettività, la
distribuzione degli spazi urbani, la gerarchia e la
divisione del lavoro. È in opposizione
assolutamente radicale al lavoro astratto. Come
ha sostenuto Lefebvre, la vita quotidiana è una
terra intermedia fra soggettività
e oggettività, è il codice simbolico
che definisce le forme di esistenza, di
comunicazione, di relazione. Allo stesso tempo,
è il modo specifico in cui l’individuo patisce
dell’ordine sociale dominante.
Il rapporto tra il
linguaggio poetico di Rimbaud e lo spazio
sociale della Comune non si può definire come se il primo fosse
un riflesso passivo del secondo: neanche però si può
ricondurre all’«autonomia dell’arte» o ad una
reciproca estraneità. Rimbaud non si riferisce
sempre e necessariamente a fatti
o episodi della Comune, non ne versifica
l’ideologia. La sua scrittura non è autonoma dallo
spazio sociale, ma allo stesso tempo non è un suo effetto.
La poesia fa parte delle strutture linguistiche in cui lo spazio sociale prende forma e dicibilità. Usando un termine di Benjamin si potrebbe definire tale rapporto come somiglianza immateriale. La mimesi delle strutture dello spazio sociale da parte dell’arte, coesiste con l’atto immaginativo con cui essa produce uno scarto e un trascendimento rispetto alla situazione esistente. Se Rimbaud può esser detto «il poeta della Comune» ciò non vuol dire che ci sia solo un rapporto mimetico tra i suoi versi e l’evento storico: essi trasfigurano inoltre, utopicamente, le forme di vita della Comune, al di là della sua stessa sconfitta e della sua imperfezione politica. L’arte non è in questo diversa per natura dalla soggettività della vita quotidiana: esistenza che emerge e produce uno scarto, sia pur minimo, rispetto alla necessità della situazione.
Alcuni esempi
significativi mostrano in cosa consista la
«somiglianza immateriale» tra lo spazio sociale
della Comune e la poesia di Rimbaud. Se la colonna
Vendôme è espressione del potere imperiale, una
forma di vita definibile come sciame caratterizza
sia lo spazio sociale della Comune, sia lo stile di Rimbaud.
Lo sciame è la pluralità della moltitudine
assunta positivamente, così come il termine
plebe serve quasi sempre a indicarla negativamente.
Lo sciame è una plebe divenuta connessione
simbolica di differenze.
Esso ha la
molteplicità polimorfa del desiderio,
è un movimento coordinato di diversità:
«La poesia di Rimbaud è la musica dello sciame:
un’agitazione, una vibrazione, rapide e ripetute, un
campo di forze di frequenze oscillanti tra la minaccia
e la quiete». A sciame, non come colonne militari, si
muovono le masse di Parigi, «in fraterno disordine»,
nei mesi della Comune. A ciò corrisponde un
movimento ritmico della poesia di Rimbaud.
L’ordine gerarchico delle frasi è rovesciato
e sostituito dal montaggio parattatico
del disparato. Con una certa audacia, la Ross lo
considera come l’equivalente stilistico delle
barricate erette nelle vie di Parigi, e lo
sconvolgimento della sintassi nell’ultimo
Rimbaud sarebbe in analogia col rifiuto delle
gerachie sociali.
Un rifiuto del lavoro
Non a caso Rimbaud
attinge i suoi materiali linguistici agli slogan
o a detti popolari, che si ribaltano
improvvisamente in cifrario esoterico
della rivolta, ma con essa mantengono comunque una
relazione definibile. La poesia trasforma,
ma non rinnega i suoi contenuti reali. Nella
poesia di Rimbaud avviene un continuo ri-uso,
détournement di termini inizialmente usati
per denigrare l’operaio pigro, insolvente, renitente
al lavoro.
Così ivresse non indica
più l’ubriachezza molesta dell’ozioso, ma l’esaltazione
della rivolta e l’impulso dionisiaco dell’essere
in comune. La «pigrizia» diviene un momento di
riappropriazione del corpo, di dilatazione
del tempo, e l’opposizione radicale al tempo di lavoro
cronometrato e astratto del capitale. Il
rifiuto del lavoro astratto e parcellizato è del
resto una delle intenzioni più profonde della rivolta
della Comune. L’operaio «lussurioso» diventa il
profeta di un corpo utopico, capace di prefigurare
una indefinita possibilità di liberazione
del vivente.
Il Bateau
ivre diviene allegoria della liberazione
dalla merce (il grano fiammingo ed il cotone inglese) e dagli
«equipaggi», che trattengono e soffermano
sotto il potere: «Io ero incurante di tutti gli equipaggi,/
portavo grano fiammingo e cotoni inglesi./ Quando coi
miei trainanti lo schiamazzo è finito/ i fiumi
mi hanno lasciato scendere dove più volevo».
Il manifesto – 10 marzo
2015
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