11 marzo 2015

LA POESIA DI A. RIMBAUD E LA COMUNE DI PARIGI


Nel marzo del 1871 la Comune di Parigi sconvolse l'Europa. Per la prima volta le “classi pericolose” davano l'assalto al cielo. L'impressione fu enorme. Uno studio di Kristin Ross mette in evidenza il rapporto profondo fra quegli avvenimenti e la poesia di Rimbaud.

Mario Pezzella

Lo sciame poetico di un'esistenza in atto

Wal­ter Ben­ja­min definì il rap­porto tra forme sim­bo­li­che e modo di pro­du­zione capi­ta­li­stico col ter­mine di espres­sione (e non con quelli di strut­tura e sovra­strut­tura). Kri­stin Ross, nella nuova edi­zione deRim­baud, la Com­mune de Paris et l’invention de l’histoire spa­tiale (Les Prai­ries ordi­nai­res), segue un metodo simile stu­diando il legame tra l’opera di Rim­baud e la Comune di Parigi: occorre cer­care le «strut­ture comuni della vita quo­ti­diana – l’immaginario sociale dello spa­zio e del tempo» e del lin­guag­gio poe­tico. Lo spa­zio sociale è simul­ta­na­mente ordine eco­no­mico e sim­bo­lico e dise­gna l’orizzonte di senso della vita quo­ti­diana (un ter­mine che Ross riprende da Henry Lefeb­vre). Per­ciò Marx defi­niva la Comune come «esi­stenza in atto».

Il ter­mine spa­zio sociale va del resto inteso in senso pro­prio. Le strut­ture di potere e il modo di pro­du­zione domi­nante (così come le espe­rienze che inten­dono com­bat­terli) si inscri­vono sim­bo­li­ca­mente e mate­rial­mente negli spazi urbani, nella maniera in cui sono divisi e ammi­ni­strati, nella forma bio­po­li­tica entro la quale sono distri­buite le vite indi­vi­duali e le loro rela­zioni all’interno di essi. L’«esistenza in atto» della Comune è una rivo­lu­zione della geo­gra­fia della città. Durante l’assedio, com­pa­iono nuovi modi di incon­trarsi e di riu­nirsi, con­se­guenza e causa di diverse con­dotte e com­por­ta­menti. La rivolta induce l’intuizione di un «tempo saturo», in cui ogni istante acqui­sta la potente den­sità di un pos­si­bile punto di svolta della storia.

L’atto fon­dante

La Comune non è solo una rivo­lu­zione poli­tica; riar­ti­cola infatti l’ordine sim­bo­lico della vita quo­ti­diana. Come nei rap­porti sociali così nella distri­bu­zione e nella codi­fica di nuovi spazi essa segue un prin­ci­pio egua­li­ta­rio e anti­ge­rar­chico. La Comune ha messo in que­stione prima di tutto la divi­sione tra lavoro manuale e lavoro intel­let­tuale e la gerar­chia di valori che ne con­se­guiva. Non per caso la distru­zione della colonna Ven­dôme suscitò così tanto scan­dalo da dive­nire l’atto emble­ma­tico della Comune: segno, per alcuni, della sua bar­ba­rie e del suo disprezzo per il pas­sato e la sto­ria.

Ma la colonna era nata come fon­da­zione e pro­pa­ganda di uno spa­zio sociale poli­ti­ca­mente deter­mi­nato: essa cele­brava le glo­rie mili­tari dell’Impero e dun­que una defi­nita gerar­chia di poteri, a cui veniva sot­to­messo lo spa­zio geo­gra­fico. La colonna era il sim­bolo dell’incatenamento e dell’incantamento dei molti all’Uno ver­ti­cale e con­ver­gente dello Stato. Distrug­gerla indi­cava la volontà di can­cel­lare que­sta gerar­chia, di sosti­tuirla con una diversa distri­bu­zione sociale della vita.

La rivolta della Comune pro­cede dalla libe­ra­zione della vita quo­ti­diana verso l’emancipazione eco­no­mica, inve­ste la sfera del rico­no­sci­mento, dell’intersoggettività, la distri­bu­zione degli spazi urbani, la gerar­chia e la divi­sione del lavoro. È in oppo­si­zione asso­lu­ta­mente radi­cale al lavoro astratto. Come ha soste­nuto Lefeb­vre, la vita quo­ti­diana è una terra inter­me­dia fra sog­get­ti­vità e ogget­ti­vità, è il codice sim­bo­lico che defi­ni­sce le forme di esi­stenza, di comu­ni­ca­zione, di rela­zione. Allo stesso tempo, è il modo spe­ci­fico in cui l’individuo pati­sce dell’ordine sociale dominante.

Il rap­porto tra il linguag­gio poe­tico di Rim­baud e lo spa­zio sociale della Comune non si può defi­nire come se il primo fosse un riflesso pas­sivo del secondo: nean­che però si può ricon­durre all’«autonomia dell’arte» o ad una reci­proca estra­neità. Rim­baud non si rife­ri­sce sem­pre e neces­sa­ria­mente a fatti o epi­sodi della Comune, non ne ver­si­fica l’ideologia. La sua scrit­tura non è auto­noma dallo spa­zio sociale, ma allo stesso tempo non è un suo effetto.

La poe­sia fa parte delle strut­ture lin­gui­sti­che in cui lo spa­zio sociale prende forma e dici­bi­lità. Usando un ter­mine di Ben­ja­min si potrebbe defi­nire tale rap­porto come somi­glianza imma­te­riale. La mimesi delle strut­ture dello spa­zio sociale da parte dell’arte, coe­si­ste con l’atto imma­gi­na­tivo con cui essa pro­duce uno scarto e un tra­scen­di­mento rispetto alla situa­zione esi­stente. Se Rim­baud può esser detto «il poeta della Comune» ciò non vuol dire che ci sia solo un rap­porto mime­tico tra i suoi versi e l’evento sto­rico: essi tra­sfi­gu­rano inol­tre, uto­pi­ca­mente, le forme di vita della Comune, al di là della sua stessa scon­fitta e della sua imper­fe­zione poli­tica. L’arte non è in que­sto diversa per natura dalla sog­get­ti­vità della vita quo­ti­diana: esi­stenza che emerge e pro­duce uno scarto, sia pur minimo, rispetto alla neces­sità della situazione.

Alcuni esempi signi­fi­ca­tivi mostrano in cosa con­si­sta la «somi­glianza imma­te­riale» tra lo spa­zio sociale della Comune e la poe­sia di Rim­baud. Se la colonna Ven­dôme è espres­sione del potere impe­riale, una forma di vita defi­ni­bile come sciame carat­te­rizza sia lo spa­zio sociale della Comune, sia lo stile di Rim­baud. Lo sciame è la plu­ra­lità della mol­ti­tu­dine assunta posi­ti­va­mente, così come il ter­mine plebe serve quasi sem­pre a indi­carla nega­ti­va­mente. Lo sciame è una plebe dive­nuta con­nes­sione sim­bo­lica di dif­fe­renze.

Esso ha la mol­te­pli­cità poli­morfa del desi­de­rio, è un movi­mento coor­di­nato di diver­sità: «La poe­sia di Rim­baud è la musica dello sciame: un’agitazione, una vibra­zione, rapide e ripe­tute, un campo di forze di fre­quenze oscil­lanti tra la minac­cia e la quiete». A sciame, non come colonne mili­tari, si muo­vono le masse di Parigi, «in fra­terno disor­dine», nei mesi della Comune. A ciò cor­ri­sponde un movi­mento rit­mico della poe­sia di Rim­baud. L’ordine gerar­chico delle frasi è rove­sciato e sosti­tuito dal mon­tag­gio parat­ta­tico del dispa­rato. Con una certa auda­cia, la Ross lo con­si­dera come l’equivalente sti­li­stico delle bar­ri­cate erette nelle vie di Parigi, e lo scon­vol­gi­mento della sin­tassi nell’ultimo Rim­baud sarebbe in ana­lo­gia col rifiuto delle gera­chie sociali.

Un rifiuto del lavoro

Non a caso Rim­baud attinge i suoi mate­riali lin­gui­stici agli slo­gan o a detti popo­lari, che si ribal­tano improv­vi­sa­mente in cifra­rio eso­te­rico della rivolta, ma con essa man­ten­gono comun­que una rela­zione defi­ni­bile. La poe­sia tra­sforma, ma non rin­nega i suoi con­te­nuti reali. Nella poe­sia di Rim­baud avviene un con­ti­nuo ri-uso, détour­ne­ment di ter­mini ini­zial­mente usati per deni­grare l’operaio pigro, insol­vente, reni­tente al lavoro.

Così ivresse non indica più l’ubriachezza mole­sta dell’ozioso, ma l’esaltazione della rivolta e l’impulso dio­ni­siaco dell’essere in comune. La «pigri­zia» diviene un momento di riap­pro­pria­zione del corpo, di dila­ta­zione del tempo, e l’opposizione radi­cale al tempo di lavoro cro­no­me­trato e astratto del capi­tale. Il rifiuto del lavoro astratto e par­cel­li­zato è del resto una delle inten­zioni più pro­fonde della rivolta della Comune. L’operaio «lus­su­rioso» diventa il pro­feta di un corpo uto­pico, capace di pre­fi­gu­rare una inde­fi­nita pos­si­bi­lità di libe­ra­zione del vivente.

Il Bateau ivre diviene alle­go­ria della libe­ra­zione dalla merce (il grano fiam­mingo ed il cotone inglese) e dagli «equi­paggi», che trat­ten­gono e sof­fer­mano sotto il potere: «Io ero incu­rante di tutti gli equipaggi,/ por­tavo grano fiam­mingo e cotoni inglesi./ Quando coi miei trai­nanti lo schia­mazzo è finito/ i fiumi mi hanno lasciato scen­dere dove più volevo».


Il manifesto – 10 marzo 2015

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