Una
disperata ricerca di senso, fuggendo una società dove il Tempo (che
è denaro) è la misura di ogni cosa. Una ricerca irrisolta di quiete pechè il tormento (come sempre) era interiore.
I colori di un artista in fuga dalla civiltà del
progresso
Paul Gauguin, uno dei miti inossidabili della
tradizione moderna della pittura, è di stanza, oggi, a Basilea. È
di questi giorni la notizia che la famiglia reale del Qatar avrebbe
acquistato per il suo museo di prossima inaugurazione a Doha, che
ramazza senza tregua in giro per il mondo grandi capolavori dell'arte
occidentale, un suo dipinto del 1892, pescato in una collezione
privata svizzera, temporaneamente in deposito presso il Kunstmuseum
di Basilea, per la cifra record di 300 milioni di dollari.
E contemporaneamente s'inaugura, nella medesima
città, una sua mostra – notevolissima per la ricchezza dei
prestiti ottenuti; una mostra davvero "d'altri tempi", che
sarà difficile ripetere – alla Fondazione Beyeler (a cura di
Raphaël Bouvier e Martin Schwander; fino al 28 giugno). Basilea,
dunque, oggi davvero "città di Gauguin", come con orgoglio
asserisce nel catalogo odierno Sam Keller, direttore della Beyeler.
Nato nel 1848, Gauguin non avrà una vocazione
precoce: fra le sue prime occasioni espositive s'annoverano le
partecipazioni assidue, sollecitate da Pissarro, alle mostre
impressioniste, a partire dalla quarta del ‘79, e fino all'ultima
dell'86. Poco dopo, Gauguin parte per la Bretagna, dove conta di
trovare, rispetto a Parigi, luoghi, gente e tradizioni più
autentiche, intrise di quel primitivismo che insegue.
Si ferma a Pont-Aven, dove si va costituendo una
piccola colonia di pittori, fra i quali Émile Bernard, Paul Sérusier
ed altri più giovani con i quali Gauguin costituirà il gruppo dei
Nabis, e ai quali trasmette i suoi valori d'una espressività fondata
sulla sintesi e sul simbolo, i nuovi valori d'una cultura in rapida
evoluzione dal naturalismo che egli vede governare tanto
l'impressionismo di Monet che il pointillisme di Seurat. Di questo
suo tempo – il primo suo maturo – sono oggi in mostra a Basilea
le opere cardine, come la Visione del sermone, il Cristo giallo, l'
Autoritratto con il Cristo giallo .
Trascorre prevalentemente in Bretagna qualche anno,
poi parte per Panama, donde poi prosegue per la Martinica: è il suo
primo viaggio – da pittore, almeno – verso una terra remota, e
verso quell'abiura della civiltà occidentale e metropolitana che lo
condurrà nel ‘91, nel ‘95, quindi nel 1901 a Papeete, e infine a
Hiva Oa, isola del remoto arcipelago delle Marchesi: "vers les
lointains et vers soi-même", verso luoghi lontani e verso sé
stesso, dirà Stéphane Mallarmé nel corso d'un banchetto d'addio in
onore del pittore, a Parigi.
Alle Marchesi egli vivrà i suoi ultimi anni, nei
quali infine – in un continuo alternarsi di malattie, amori,
furori, propositi di suicidio – scriverà il mito, al quale si
sarebbero ispirate intere generazioni successive, dell'artista
moderno in fuga dalla civiltà del progresso, e teso ad abbeverarsi
alle fonti incorrotte delle culture primitive.
Non gli bastò più, per dar figura a quel mito, la
selvaggia Bretagna, con la sua natura ostile ed eccessiva, e con la
tempra e le credenze non canoniche delle sue genti; e alla fine,
quando anche Tahiti gli parve viziata dalla ormai dominante influenza
europea, cercò laggiù, nelle lontanissime Isole Marchesi, quell'"
oviri", quel "selvaggio" che andava inseguendo.
Allora, in quelle terre remote, fra musica e danza,
e sotto la luce ambigua di Hina, la dea Luna; fra torpore di sensi
eccitati o stanchi, e malinconia d'un bene di cui sembrava conoscere
in anticipo la fine prossima, Gauguin guarda l'innocenza delle
giovani che ritrae sovente nude, spogliate dagli orpelli e dai vezzi
delle mode imposte alla donna dalla civiltà occidentale, e la loro
caparbia voluttà di possesso, ancora inconsapevole del dogma
cristiano della rinuncia.
Tutto allora sembra confondersi ai suoi occhi:
pensieri lontani o incombenti che traspaiono da quei volti attoniti
di fanciulla; e seducenti sorrisi, profumi d'un corpo o d'un fiore, e
acque e rocce, piante e animali; mentre il suo desiderio, la sua
voluttà s'unisce all'inconsapevolezza di quelle figure sbocciate in
quel mondo primitivo, che non conosce la colpa.
Gauguin visse tutto ciò soffertamente e insieme
speculativamente; cosciente del dolore che quella lontananza dal suo
mondo gli avrebbe portato, ma anche dello strappo fecondo che avrebbe
imposto così ai modi della pittura moderna. Non v'è dubbio che egli
fosse pienamente consapevole di questa particolare dimensione della
sua personalità, e che non intese rinunciarvi: al punto che quando –
stanco, malato e ormai prossimo alla fine – fu tentato di tornare
in Francia, finì per ascoltare invece il suggerimento di chi lo
dissuase da questo passo, trasmettendogli la convinzione che il suo
"mito" ne avrebbe irrimediabilmente sofferto.
Ma, pur ambiguamente in bilico fra sagacia
nell'amministrarsi e cernita di sé spogliata di tatticismi, Gauguin
rimane, nella vicenda della pittura fra Otto e Novecento, fra la
lunga e diramata età del simbolismo e quelle avanguardie che
profondamente influenzò, il primo artista occidentale ad aver
avvalorato esperienze estetiche di civiltà primitive, e ad averle
rese dunque disponibili alla nostra cultura.
D'altra parte, il prelevamento che egli operò da
quelle esperienze fu tutt'altro che testuale, ed anzi sovente
s'assiste ad una riproposizione di schemi compositivi, di memorie e
citazioni di evidente radice occidentale trasposti in vesti esotiche
(soprattutto nelle opere di maggiore impegno – a Basilea riunite in
scelta perfetta, a cominciare da D'où venonsnous? Que sommes nous?
Où allon nous , il grande dipinto che Gauguin stesso disse essere il
suo "testamento" – traspare il ricordo di cose tanto
diverse quali Botticelli e l'antica arte egiziana
La repubblica -22 febbraio 2015
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