Riprendo da http://www.amicisciascia.it/leonardo-sciascia/le-opere/narrativa/il-mare-color-del-vino-1973.html questa ottima scheda di una famosa raccolta di racconti sciasciani:
Il mare colore del vino è la seconda raccolta di racconti pubblicata da Sciascia (la prima, composta di quattro racconti lunghi, è Gli zii di Sicilia). La Nota posta in fondo al volume, edito da Einaudi nel 1973, si apre con alcune notizie:
“Questi
racconti sono stati scritti – con altri, pochi, che non mi è parso
valesse la pena di raccogliere e riproporre – tra il 1959 e il 1972. Ho
cercato di metterli nell’ordine in cui sono stati scritti (non, forse,
nell’ordine in cui sono stati pubblicati sui giornali, riviste e
antologie): e credo che il lettore potrà verificare la giustezza
dell’ordine cronologico mettendoli in corrispondenza dei libri che nello
stesso arco di tempo ho pubblicato. Qualcuno è internamente datato: La rimozione, per esempio, scritto quando fu rimossa la salma di Stalin dal mausoleo (o quando se ne ebbe notizia); e Filologia, scritto – profezia piuttosto facile – al costituirsi della commissione antimafia.”
Quanto
alle motivazioni della raccolta, più avanti – dopo aver detto che nelle
librerie erano stati molto richiesti i libri da cui erano stati tratti
un film (Un caso di coscienza) e due telefilms (Gioco di società e Un lungo viaggio)
– Sciascia le spiega così: “… perché pubblico questi racconti? Ecco:
perché mi pare di aver messo assieme una specie di sommario della mia
attività fino ad ora […]; e che tra il primo e l’ultimo di questi
racconti si stabilisce come una circolarità: una circolarità che non è
quella del cane che si morde la coda”.
Tra
il primo e l’ultimo dei tredici racconti che compongono la raccolta,
entrambi di carattere storico, si collocano testi che toccano i temi più
vari: dal folklore di origine arabo-sicula alla mafia, dal giallo alla
passione politica che fa da contraltare a certa religiosità popolare,
dal dramma dell’emigrazione al divertissement giocato
sull’invenzione di documenti, dalla Sicilia vista dagli occhi di un
settentrionale all’amore. In tutti i racconti – di varia misura e
importanza – si possono trovare la consueta leggerezza della scrittura
e, in non pochi casi, l’ironia a tratti dolente o indignata di un grande
testimone della realtà non soltanto siciliana.
Reversibilità
Nella
Sicilia della metà dell’800, la sedicenne figlia di un grosso
proprietario terriero di Grotte, accettando di sposare il quasi
sessantenne “don Nicola Cirino, giurista e poeta, Procuratore Generale a
Palermo”, fa guadagnare la libertà al marito della sorella maggiore,
“medico e benestante di Racalmuto”: il quale, avendo ucciso con un
calcio un suo mezzadro durante un diverbio, è per questo ricercato dalla
gendarmeria (“Che tempi! Un galantuomo non può più dare un calcio a un
contadino”, era stato il commento del presidente del Casino di
Compagnia). L’amore per la giovanissima moglie spegne, nel giro di
appena sei mesi, l’illustre giurista. E la ragazza, rimasta vedova e
tornata alla casa paterna, dopo altri sei mesi fugge, per sposare “un
giovane di Racalmuto, che già da prima, in silenzio, l’amava. Un giovane
bello, elegante, di buona famiglia: ma liberale e scialacquatore”. Il
padre di lei “li perdonò solo in punto di morte”.
Nel
quadro della tradizionale rivalità tra i due paesi limitrofi di
Racalmuto e Grotte, il ricordo di questa vicenda fece “grande
impressione” al giovane Sciascia, che fu spinto a scrivere questo
racconto dopo aver visto il sepolcro di don Nicola Cirino nella chiesa
di San Domenico a Palermo, il Pantheon dei siciliani illustri.
“Reversibilità: di un corpo che ne riscatta un altro, nella straziante
religione della famiglia, di cui ancor oggi la Sicilia vive; di una
ragazza di Grotte che riscatta la libertà di un uomo del vicino e nemico
paese di Racalmuto”.
Il lungo viaggio
Un
gruppo di poveri disperati, che “avevano venduto tutto quello che
avevano da vendere” per pagare le duecentocinquantamila lire che un
delinquente senza scrupoli ha chiesto a ciascuno di loro – “metà alla
partenza, metà all’arrivo” – per trasportarli dalla Sicilia in America,
“sulla spiaggia del Nugioirsi… a due passi da Nuovaiorche”, dopo undici
notti trascorse in una stiva vengono sbarcati su una costa che in breve
tempo si rivela essere quella della Sicilia.
Il mare colore del vino
All’ingegner
Bianchi, trentottenne di Vicenza che ha lavorato negli Stati Uniti e in
Persia, e che ora deve recarsi a Gela per prendere servizio nello
stabilimento petrolifero dell’Anic, viene consigliato di prenotare un
posto nella vettura di prima classe Roma-Agrigento del “diretto per
Reggio Calabria e Sicilia” che d’estate parte da Roma Termini alle
20.50. Si troverà a dividere lo scompartimento con una famigliola
composta dal professor Miccichè e dalla moglie Lucia, dai loro due
maleducatissimi ma sveglissimi bambini Lulù e Nenè, e da una ragazza di
una ventina d’anni di nome Gerlanda, che ha superato una grave malattia
ed è vestita, in piena estate, con un abito nero profilato di bianco per
un voto a San Calogero, protettore di Nisima, paese di tutto il gruppo.
Sarà un viaggio lunghissimo e logorante, che però consentirà
all’ingegner Bianchi di apprendere qualcosa che non sapeva della Sicilia
e dei siciliani, e forse di trovare l’amore in Gerlandina-Dina, che si
dimostra molto più aperta ed emancipata di quel che il suo abito
potrebbe far supporre.
(In Conversazione in una stanza chiusa,
alla domanda di Davide Lajolo: “… come hai sentito e creato o ricordato
le donne nei tuoi libri? […] Qual è quella più autobiografica, quale
riporta più puntualmente il tuo sentimento, la tua nostalgia? Come conta
per te la donna?”, Sciascia risponde: “Quella del racconto Il mare colore del vino:
la donna che si incontra per qualche ora e con la quale si vive, in
quelle poche ore, tutta una vita. Poi c’è l’altra, con cui realmente si
vive almeno due terzi della vita: in giusta compagnia”.)
L’esame
Lo
svizzero signor Blaser noleggia un’automobile con autista per
raggiungere paesi siciliani in cui reclutare giovani donne da impiegare
in una fabbrica di apparecchiature elettriche. Le selezioni avvengono
con la collaborazione dei parroci, e nel giro di una settimana vengono
reclutate, in una decina di paesi, un centinaio di ragazze. L’autista,
che a volte intercede in favore di qualche ragazza, anche se senza
successo per via dell’assoluta freddezza del signor Blaser, viene un
giorno avvicinato da un giovanotto che gli chiede di non far
selezionare una ragazza. Ma lei supera la selezione e insiste per
partire per la Svizzera, per sfuggire alla povertà e potersi fare la
dote e sposare il giovane: il quale era stato in Germania, dove era
stato trattato con assoluta onestà e precisione, ma non come una
persona. L’autista, che in Germania era stato prigioniero, capisce i
sentimenti del giovanotto, ma lo convince a rassegnarsi: “… Tutto è
destino. Svizzera o no, se è destino che devi sposarla la sposerai; e se
è destino che devi perderla, la perderai”. Dal canto suo, il signor
Blaser commenta: “Paese selvaggio”.
Giufà
(nel testo, il titolo è scritto in caratteri arabi)
“Giufà
vive in Sicilia dai tempi degli arabi.” È il babbeo che ne combina “una
più grossa dell’altra”, ma che riesce sempre a cavarsela: come gli
capitò “la volta che… ammazzò un cardinale: e la fece franca o per
troppa stupidità o per troppa malizia, poiché la stupidità va d’accordo
con la malizia sempre, e stupido com’è Giufà sa essere maliziosissimo”.
Informato da alcuni sfaccendati che gli animali più gustosi sono quelli
con la testa rossa, Giufà si arma di un vecchio archibugio e, andando in
giro per la campagna, spara a “qualcosa di rosso” che si muove “al di
sopra di una siepe verde” e ha “la forma di una cupoletta di moschea”,
ma è in effetti il cappello di un cardinale. Porta quindi a casa il
cadavere irriconoscibile del prelato, sicuro che la madre lo loderà per
la buona caccia. Ma la donna si dispera, dicendogli che ha ammazzato il
cardinale, che Giufà non sa cosa sia. Per la rabbia, Giufà getta il
cadavere nel pozzo del cortile e subito dopo vi scaraventa anche il
montone allevato dalla madre. Nei giorni successivi, indirizzati dalle
voci degli spioni e attirati dal fetore della putrefazione, capitano di
giustizia e sbirri compaiono nel cortile, ma nessuno di loro ha la lo
stomaco di calarsi nel pozzo per ispezionarlo. Con la promessa di una
ricompensa, vi si presta Giufà, che al termine di un esilarante scambio
di battute col capitano di giustizia – tra l’altro sul numero dei piedi e
sulle eventuali corna di sua eminenza – lega la carcassa del montone,
che viene estratta dal pozzo: nel quale nessuno più si curerà di far
ricerche.
La rimozione
Tornato
a casa dopo la consueta partita a carte, una sera Michele Tricò,
comunista e segretario della Federterra, non trova la moglie Filomena.
La donna si è unita a quasi tutte le compaesane nell’occupazione della
chiesa di Santa Filomena, per impedire che l’arciprete tolga dall’altare
la statua della santa, protettrice del paese. Un decreto della Chiesa
ha infatti stabilito che Santa Filomena non è mai esistita. Riuscito con
un stratagemma a far uscire la moglie dalla chiesa, Michele la prende
in giro per il suo non voler prendere atto della verità: “Caspita, che
testa! Santa Filomena non c’è, bestia che sei: ed è il Papa stesso che
te lo dice…”. Ma, seduto a tavola in attesa che la moglie gli serva la
cena, ha un violento moto di stizza nell’apprendere, leggendo l’Unità,
che “La proposta di rimozione della salma di Stalin dal mausoleo è
[stata] approvata all’unanimità” dal XXII Congresso del PCUS.
Filologia
In
una conversazione tra un mafioso colto – che nel 1943 gli americani
avevano fatto sindaco del suo paese – e un altro di più basso livello,
il primo impartisce al secondo una lezione sulla storia della parola
“mafia”, in vista della sua sicura convocazione davanti alla commissione
parlamentare antimafia, appena costituita. Lui, dal canto suo, chiederà
“di essere sentito dalla commissione”, per “dare il [suo] piccolo
contributo… Un contributo alla confusione, si capisce…”.
Gioco di società
Una
signora riceve tranquillamente il sicario che il marito ha mandato per
ucciderla, e gli dimostra di sapere tutto. Infatti, convinta da molto
tempo che il marito voglia farla uccidere, lo ha fatto pedinare da
un’agenzia investigativa, che le ha fornito le prove fotografiche dei
contatti con il potenziale sicario, un giovane professore di matematica,
e la moglie di quest’ultimo, una bella ragazza piuttosto disinvolta. La
signora informa il professore che, nel caso le accadesse qualcosa,
copia del rapporto dell’agenzia sarebbe consegnata alla polizia. Propone
quindi all’uomo di uccidere il marito, in cambio di una somma superiore
a quella promessagli da quest’ultimo: nel caso sia scoperto, il sicario
deve difendersi affermando che il suo è stato un delitto d’onore, per
vendicare il tradimento di sua moglie con il marito della signora. Il
giovane professore, sentendosi in trappola, accetta. Prima che il
giovane esca dalla casa per andare a incontrare e uccidere il marito
della gelida e spietata signora Arduini – solo ora si saprà il nome
della potenziale vittima dell’uxoricidio a mezzo di sicario –, questa si
accerta che la pistola abbia il silenziatore: “Il silenziatore:
omicidio premeditato”. E, poco dopo che il professore-sicario ha
lasciato la casa, la signora fa due telefonate, alla sede della società
del marito e al commissariato di polizia: per perfezionare la sua
vendetta.
Un caso di coscienza
L’avvocato
Vaccagnino, sul treno che, almeno una volta al mese, da Roma lo riporta
a Maddà, cittadina siciliana in cui vive, ha esaurito le sue consuete
munizioni di letture da viaggio – un quotidiano, tre rotocalchi e un
romanzo poliziesco – e cerca quindi giornali abbandonati da altri
viaggiatori. Sul settimanale “Voi”, nella rubrica La coscienza, l’anima. Risponde Padre Lucchesini,
si imbatte in una lettera nella quale una lettrice di Maddà confessa un
adulterio commesso qualche anno prima, e chiede consiglio al sacerdote:
deve o non deve confessare l’accaduto, una storia ormai del tutto
finita, al marito, uomo buono, leale e fedele e che lei ama? L’avvocato
Vaccagnino – che subito si chiede: “E chi può essere?” – già dal giorno
successivo avvia la sua inchiesta, chiedendo alla moglie se legga “Voi”,
settimanale di cui in paese circolano almeno una cinquantina di copie.
Passa poi alla diffusione della notizia: in tribunale, dove un avvocato e
un giudice appaiono molto colpiti dalla lettura del ritaglio, e al
circolo: dove i soggetti interessati aumentano, e la discussione si
infervora. Sono diversi gli uomini che si chiedono se possano essere
loro i mariti dell’adultera, e lo stesso avvocato Vaccagnino, ricordando
una storiella risalente a Guglielmo il normanno, è sfiorato dal dubbio.
Ma è l’avvocato Zarbo, non ancora entrato nella vicenda, che alcune
sere dopo, andando a letto, chiede alla moglie perché abbia scritto a
Padre Lucchesini. Nell’apprendere che il marito ha sempre saputo, la
donna scoppia in lacrime. Ma quando il marito le dice del suo amore e
della sua pena, e arriva anch’egli alle lacrime, cercando di
abbracciarla, “… appena toccata […] si alzò di colpo. Rideva negli occhi
e nella bocca di un riso maligno, freddo, immobile. Tese verso di lui
la mano a pugno chiuso, ne fece scattare, come per cavargli gli occhi,
l’indice e il mignolo; e dalla bocca le uscì isterico e lacerato il
verso del caprone. – Beeeee… Beeeee…”.
(Nelle annotazioni poste alla fine del suo libro Machiavelli, Tupac e la Principessa
- Sellerio, Palermo 2013 - Adriano Sofri scrive: “Ci fu, alla fine del
Seicento, un Padre Lucchesini che si impegnò a denunciare ‘Le
sciocchezze scoperte nelle opere del Machiavello’, che i librai
rilegatori per brevità sulla costola intitolavano ‘Le sciocchezze del
Padre Lucchesini’ ”. Il bibliofilo Sciascia conosceva il religioso
seicentesco? Non si può escluderlo. In ogni caso, l’accostamento tra il
vero Padre Lucchesini e il suo omonimo sciasciano è piuttosto
suggestivo.)
Apocrifi sul caso Crowley
Inventando
sette documenti – quattro appunti siglati M.(ussolini), una nota e una
relazione firmate dal capo della polizia gen. E.(milio) De Bono e un
rapporto del commissario di Cefalù A. Caminiti al capo della polizia –
Sciascia ricostruisce, ma posticipandola di un anno, dalla primavera
1923 all’estate 1924, l’espulsione dall’Italia dell’occultista e
satanista inglese Edward Alexander Crowley. A Cefalù Crowley aveva
fondato una comunità di cui, oltre a lui, facevano parte cinque donne e
tre bambini: “Pare comunque che le stranezze di cui in paese si fa
carico al Crowley, si riducano ad un modo di vivere secondo natura: i
bambini, le donne e lo stesso Crowley sono stati visti nudi a prendere
il sole”. Aveva inoltre provocato le lamentele dei proprietari della
villa affittata da Crowley “certa mania di dipingere a fresco le pareti e
con figurazioni, a quanto pare, non conformi a decenza”. Ma il passo
più interessante – che tra l’altro spiega perché la vicenda è
posticipata al 1924 –, è quello che si legge nel rapporto che il
commissario Caminiti invia al capo della polizia sulla sua visita alla
residenza di Crowley: “… E così (Crowley, ndr) è passato a
dichiararsi ammiratore del Fascismo e del suo capo, e che era felice di
trovarsi ospite di un Paese come l’Italia: ché in questo momento, grazie
al fascismo, l’Italia gli sembra il Paese in cui più trova elementi di
riscontro alla sua visione della vita. Complimento, questo, che il
sottoscritto ha creduto di dover respingere […]. Più tardi, scorgendo il
sottoscritto una pietra squadrata, sulla quale erano evidenti tracce di
sangue, e domandato quale ne fosse l’uso, il Crowley rispondeva che su
di essa si consumavano i sacrifici. Ma ha aggiunto una frase in inglese
nella quale il sottoscritto colse soltanto il nome Matteotti; e il
professor D’Alunzo (insegnante d’inglese in una scuola locale, che il
commissario ha portato con sé come interprete, ndr) spiegò poi che il Crowley aveva testualmente detto: ‘l’onorevole Matteotti è stato ucciso altrove’. Forse non senza ironia.”
Western di cose nostre
Negli
anni della prima guerra mondiale, in un grosso paese situato tra
Palermo e Trapani è in corso una guerra tra le due cosche mafiose
locali. L’intervento di autorevoli “patriarchi” non serve a fermare la
faida, perché gli omicidi, da una parte e dall’altra, continuano. Si fa
strada il sospetto che qualcuno, estraneo alle due cosche, si sia
inserito nel conflitto e conduca una sua personalissima guerra contro la
mafia locale. Da un’indicazione lasciata trapelare prima di morire dal
capo della vecchia cosca, anch’egli colpito dal misterioso assassino, i
mafiosi individuano uno stimato professionista. Questi, molti anni
prima, non aveva potuto sposare la ragazza che amava: la ricca famiglia
di lei, contraria al matrimonio a causa delle modeste origini del
giovane, aveva fatto intervenire il “vecchio e temibile capo” della
mafia locale, le cui minacce non avevano avuto effetto sul giovane, ma
avevano spinto la ragazza a rinunciare. Il destino del professionista è
quindi segnato: ma prima di essere ucciso a sua volta, riesce ad
uccidere il figlio del vecchio capo, il quale si era assunto il compito
di vendicare la morte del padre.
Processo per violenza
Utilizzando
gli atti del processo, il racconto ricostruisce due delitti, commessi
nel bergamasco intorno al 1870 da un maniaco sessuale, di cui erano
rimaste vittime una quattordicenne e una giovane donna, madre di due
bambini. Furono inizialmente sospettati due innocenti: il primo “fu
liberato ‘ben presto’, ma da una sentenza del tribunale di Bergamo; e
cioè dopo un paio di mesi di carcere”; al secondo andò meglio, perché
“anche stavolta, si cercò subito di arrestare. La scelta cadde…” su un
tale, che però fu ben presto scagionato. Finalmente, grazie a “fatti…
tardivamente emersi e riuniti”, si arrivò al colpevole, che fu
condannato all’ergastolo, anche grazie alla perizia condotta –
ovviamente sulla base dei suoi discutibilissimi criteri – da “colui che
in quel momento era il massimo luminare della criminologia: il professor
Cesare Lombroso, fondatore della scuola positiva del diritto penale”.
Eufrosina
Marcantonio
Colonna, vincitore di Lepanto e viceré di Sicilia, si invaghisce della
giovane Eufrosina de Siracusis, moglie di Calcerano Corbera, il quale
non sembra avvedersi della tresca. Il padre del giovane, il barone
Antonio Corbera, impegnato nella costruzione del paese che diventerà
Santa Margherita Belice, decide di recarsi a Palermo “a vedere come
sta[nn]o le cose”. Ma il viceré, su sollecitazione di Eufrosina, lo fa
arrestare, dopo aver ottenuto dall’inquisitore Diego de Haedo,
nonostante i loro pessimi rapporti, la sospensione dei privilegi che al
barone Corbera spettano in quanto familiare dell’Inquisizione, tra cui
il foro privilegiato; e in carcere, qualche giorno dopo, don Antonio
Corbera muore, non si sa se di veleno o di sofferenze. Rimane il giovane
Calcerano: il quale, inviato in missione a Malta, nell’isola viene
pugnalato a morte. La giovane Eufrosina resta così libera, ma il viceré
deve fare i conti con la moglie, la “pur saggia e indulgente” Felice
Orsini. Marcantonio Colonna è infine convocato a Madrid, “forse a
discolparsi di tutto ciò che l’Haedo aveva detto o insinuato nelle sue
relazioni”, e muore “a Medinaceli, sulla strada di Madrid, con sospetto
di veleno”. Prima di partire, però, raccomanda la giovanissima amante
alla moglie, la quale prende con sé la ragazza. E qui Sciascia avanza un
dubbio: il nobile romano Lelio Massimo, che al viceré “era stato sempre
vicino, negli anni palermitani”, era con lui nel viaggio verso Madrid?
Il dubbio sorge perché Lelio Massimo – dopo averne chiesta la mano a
donna Felice Orsini – sposa Eufrosina, di cui forse era sempre stato
innamorato, e la porta nella sua casa: “Dove a metter fine alla
vergogna, forse al dileggio” i due figli di lui la uccidono, e vengono
per questo decapitati.
Il mare colore del vino
fu pubblicato nel 1973 da Einaudi, nella collana “I coralli”, n. 291,
ed è attualmente disponibile in edizione Adelphi (collana “Fabula” 7a ediz., 1996 e collana “Gli Adelphi” 2a ediz., 2011).
La raccolta è riprodotta anche in: Leonardo Sciascia, Opere 1956-1971, a cura di Claude Ambroise, Bompiani (collana “Classici Bompiani”), Milano 1987, pp. 1253-1382; e Leonardo Sciascia, Opere, Volume I: Narrativa Teatro Poesia, a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi (collana “La nave Argo”, n. 15), Milano 2012, pp. 709-834.
Il titolo del racconto che dà nome alla raccolta è tratto da Omero (Odissea,
I, 183: “...navigando sul mare color del vino verso genti straniere…” e
VI, 170: “ Ieri, al ventesimo giorno, scampai al mare colore del vino”.
Una
curiosità: sul retro della sovraccoperta della prima edizione Einaudi
si legge: “Ironiche e violente, tenere e beffarde, dodici storie in cui
Sciascia arriva ancora una volta al cuore di una sconcertante verità
umana”. In realtà le storie – i racconti – sono tredici e non dodici.
Euclide Lo Giudice
31 dicembre 2013
Oltremare, non è l'America di Nello Correale riprende proprio il racconto Il lungo viaggio di Sciascia, sollecitando proiezioni nel presente dei malavitosi che illudono gli emigrati disperati, caricandoli sulle carrette del mare.
RispondiEliminaL'inganno che si perpetua sempre dunque, a spese dei più deboli ed ingenui. Come appunto Sciascia aveva ripetuto in tutte le sue opere
Sciascia sapeva osservare ...
RispondiEliminaRiprendo anche due commenti pervenuti tramite facebook:
RispondiEliminaAlfredo Passante: Le tue segnalazioni sono fonte di arricchimento per il cuore e per lo spirito.
Bernardo Puleio: sul racconto "Filologia" è interessante la recensione di Pasolini. A me piace moltissimo il racconto "Rimozione", un autentico capolavoro laico in cui Sciascia prende in giro due fanatismi religiosi: la chiesa cattolica e il pci