Da una vignetta de "il manifesto" del 13.03. 2015
Il vecchio Preside di "Cuore"nella trappola della Buona Scuola
di Francesco Merlo
NELL’ITALIA degli Schettino e dei capetti improvvisati vogliono fare anche del preside un piccolo boss di paese. Senza insegnargli il comando, senza prepararlo alla leadership dell’azienda pubblica più delicata e più grande, senza formazione né stipendio da manager.
Gli danno infatti il potere e la responsabilità di assumere docenti per cooptazione e di premiare e punire il merito distribuendo danaro. E tutti capiscono che, solo per l’effetto annuncio, la famosa stanza del preside sta già diventando l’ufficio raccomandazioni e suppliche di quel proletariato intellettuale di cui parlava Salvemini. Questa è insomma la definitiva trasformazione della figura più bella della scuola italiana in un Soprastante che amministra la disperazione e l’irrilevanza sociale dell’insegnante meno pagato d’Europa che, al contrario dei suoi allievi, non ha i mezzi per comprarsi un computer né per abbonarsi alle riviste specialistiche come Studi italiani di filologia classica di Le Monnier, acquistare edizioni critiche di questo o di quell’altro testo greco, l’Oxoniensis per esempio o i libri della Fondazione Valla, e neppure i volumi con il testo a fronte della vecchia Utet, né può permettersi l’iPhone e il tablet che per il governo Renzi sono sicuramente più importanti della matita rossa e blu. Una mia amica preside a Roma mi segnala la marca scamuffa del tablet che la scuola ha potuto fornire ai suoi docenti: Archos (55 euro secondo il Trovaprezzi) che fa pendant con le polacchine “quattro stagioni” dell’Upim e con i maglioni dell’Oviesse.
Il “signor direttore” di De Amicis, che era il più bravo dei professori, una specie di primario di quel mondo rotondo e perfetto che formò l’identità italiana, diventa dunque il caporalato delle questue, degli incarichi comunque poveri, dei piccoli conforti, proprio come faceva Totò quando catalogava «il latore della presente» fregiandosi del titolo di presidente della Spa (Società parcheggiatori abusivi).
Si sta parlando infatti di un preside che può omaggiare con gratifiche sino a 500 euro l’anno il 5 per cento dei suoi docenti, ovvero uno su 20. Sono piccole mance che ribadiscono però la condizione di straccioni della cultura degli insegnanti italiani che sono pagati quanto le cameriere, vivono di espedienti, prolungano la propria adolescenza in famiglia sino ai trentacinque e ai quarant’anni, e diventano canuti restando precari in scuole che più che ai pollai evocati da Renzi somigliano alle piazze, ad agglomerati di umori giovanili ingovernabili.
Nell’immaginaria scuola dell’autonomia il preside già dal 2001 è pomposamente ribattezzato “dirigente scolastico” con l’idea nominalistica, che piacerebbe certamente agli antichi grammatici, secondo la quale c’è una magica corrispondenza tra il nome e la cosa. In realtà il preside oggi fa soprattutto il procacciatore di piccoli fondi europei (si chiamano “Pon” quelli per le zone disagiate) attraverso i progetti a finanziamento: trenta ore sulla prima guerra mondiale valgono 1500 euro lorde, quaranta sulla fotografia ne valgono 1400 euro, trenta sulla danza spagnola ne valgono 1500 ed è inutile dire che si tratta in genere di uno svilimento della scuola su argomenti più o meno forzati, qualche volta inventati. Insieme al segretario, che a sua volta è diventato intanto “direttore”, il preside dirige poi i tecnici e i bidelli, promossi a loro volta “collaboratori scolastici”. E sovrintende il collegio dei docenti per garantire, per esempio, che in Italiano si vada davvero dal Trecento a Camilleri. E assegna le cattedre sezione per sezione e classe per classe. Ma passa la gran parte del suo tempo ad accogliere le proteste dei genitori, che in tutta Italia sono sempre più conflittuali a difesa del “figlio nostro”, u figghiu miu, a creatura, il piccinin, er pischello, il toso, contro le prerogative istituzionali della scuola, contro la formazione del cittadino. Non può esserci riforma e buona scuola senza ridimensionare padri e madri che, dinanzi alla punizione del figlio, reagiscono da superbulli fabbricatori di bulli. Quasi mai i presidi riescono a farli arretrare, a convincerli a cedere il passo e consegnare il figlio all’insegnante e alla scuola. Un tempo era riconosciuto il diritto alla punizione dello scolaro, si aveva fiducia nella qualità dell’insegnante, e anche gli aristocratici mandavano i figli a scuola con la convinzione di trovarvi un assemblaggio di strumenti, uomini e opportunità educative e formative che in casa, nonostante l’agio, non c’erano. La punizione, per esempio, di copiare cento volte una frase sul quaderno scolastico si chiamava “penso” ed era un’antica, cardinale istituzione della scuola che era fatta anche di compiti a casa, interrogazioni e rimproveri. Ricordo di avere scritto per cento volte su un quaderno nero «non dirò mai più “piccolo babbeo” al mio compagno Gulizia». E ricordo anche che mio padre, convocato a scuola, si mise a dare fin troppo ragione all’insegnante, accusandomi più di quanto non avesse fatto il professore, il quale, a un certo punto, fu costretto a difendere me da mio padre: «Non esageriamo, il ragazzo vale». E invece oggi i padri fanno ricorso al Tar anche per cinque insufficienze: in latino, greco, italiano, matematica e inglese. Persino per i 7 in condotta (ora si chiama voto disciplinare) le famiglie mandano a scuola gli avvocati. E si capisce qui benissimo che nulla si può cambiare nella scuola italiana sino a quando non si restituisce agli insegnati l’antico decoro a partire dall’innalzamento dello stipendio a livelli di decenza europea. Non è trasformando i presidi in tanti malpagati e frustrati dottor Orimbelli, il capufficio che sbeffeggia Fracchia, che si può restituire credito sociale, appeal, fascino e autorevolezza a una professione irresponsabilmente degradata. Tanto più che la riforma della buona scuola pretende che per meno di mille e cinquecento euro al mese il docente maltrattato non solo si occupi di aoristi e della scansione dei trimetri giambici, ma anche di educazione alla salute, legalità, educazione stradale, computer, lotta al bullismo, arte, musica, diritto, economia, e magari insegni pure a offrire il braccio alla vecchietta che attraversa la strada, a rispettare i diversi, ad apprezzare il progresso, a formare insomma la piccola vedetta democratica di un borgo felice. E che l’idea del preside-sceriffo sia improvvisazione si capisce dando un’occhiata ai brogli, alle irregolarità e alle inadeguatezze dei concorsi a preside. Ne sono stai annullati tantissimi: in Molise, in Abruzzo, in Toscana. E nell’ultimo concorso in Sicilia la commissione non solo corresse 1400 compiti, di dieci pagine ciascuno, in meno di tre ore, ma promosse un testo dov’era scritto: «Ciò induce il dirigente ha (sic) ricercare accordi». E nessuno si accorse di quel candidato che aveva scritto “ledership”. Il concorso fu annullato ma i trecento promossi furono salvati da una legge nazionale. Sono ancora presidi. E presto saranno clientela, baronato dei poveri, anche loro, come Totò, presidenti di una Spa.
Da LA REPUBBLICA, 14 marzo 2015
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