Roberto Scarpinato e Domenico Mogavero
Martedì scorso, partecipando alla presentazione dell'ultimo libro di Rosario Giue (Peccato di mafia, Dehoniane, 2015), sono rimasto particolarmente colpito dall' intervento del Procuratore della Repubblica Roberto Scarpinato che ha messo in rilievo alcune delle contraddizioni che caratterizzano il mondo cattolico odierno.
Non avendo disponibile il discorso pronunciato nell'occasione dal Magistrato, ripropongo un suo precedente intervento, pubblicato da Micromega, in cui ritrovo alcune delle argomentate tesi sostenute dallo stesso Scarpinato l'altra sera.
DIO, MAFIA E POTERE
Dialogo tra Roberto
Scarpinato e mons. Domenico Mogavero,
Roberto Scarpinato: Vorrei iniziare questo dialogo con una premessa che riguarda il mio rapporto con la religione. Da molto tempo non mi riconosco più nel Dio ecclesiastico, e, tuttavia, non ho mai smesso di interrogarmi su Dio, di cercare cioè un senso della vita che trascenda le nostre brevi esistenze individuali. Così dalla trascendenza verticale che attribuisce valore al prossimo solo perché crede in Dio, sono approdato a una problematica trascendenza orizzontale che dà valore al prossimo anche a prescindere da Dio. Nella prima parte della mia esistenza sono stato il classico italiano: un cattolico non per libera scelta ma per «destino culturale». Si attraversa un’esistenza scandita dal succedersi di riti – battesimi, matrimoni, comunioni, funerali – dei quali si è quasi smarrito il senso. Riti che in fondo sembrano servire a tenerci compagnia, a non farci sentire soli nella vita. Ho cominciato a riflettere seriamente su Dio e sulla religione quando, nella seconda parte della mia esistenza, sono stato costretto per motivi professionali a una lunga frequentazione degli assassini. Il primo approccio con il mondo della criminalità organizzata è stato con i mafiosi dell’ala militare, i killer, gli esecutori materiali, persone per lo più di estrazione popolare, e sono rimasto molto colpito dal verificare, interrogandone parecchi, che si trattava di cattolici devoti e praticanti. Alcuni mi hanno confessato che dopo ogni omicidio andavano in chiesa a pregare e sono noti alle cronache episodi di tanti capimafia che durante la latitanza si facevano costruire delle cappelle votive nei loro rifugi, da Nitto Santapaola a Pietro Aglieri. Altri, come Michele Greco e Bernardo Provenzano, erano assidui lettori della Bibbia. Fin dall’inizio ho dovuto rendermi conto che non si trattava di una simulazione, ma che questi mafiosi avevano un reale rapporto con il cattolicesimo che andava capito.
La mia sorpresa è aumentata quando, con il passare degli anni, ho cominciato a conoscere i collaboratori di giustizia e i mafiosi di estrazione borghese, quelli che appartengono alla cosiddetta borghesia mafiosa, e quindi medici, avvocati, commercialisti, architetti, imprenditori, persone di elevata scolarizzazione, e poi ancora i politici – anche di livello nazionale, taluni dei quali ogni mattina andavano a messa e poi magari partecipavano a summit mafiosi. La questione quindi ha assunto una dimensione ancora più complessa, perché il fenomeno non era limitato alla componente mafiosa popolare che poteva dare un’interpretazione neo-paganeggiante del cattolicesimo, ma attraversava tutti gli strati sociali. E quindi mi sono posto questo problema: come è possibile che vittime e carnefici preghino lo stesso Dio? Sembra una contraddizione insanabile. La risposta che mi sono dato, grazie ai tanti dialoghi che ho avuto con i mafiosi, è che in realtà pregano un Dio diverso perché i mafiosi traggono dalla religione cattolica quello che conviene loro e si costruiscono un Dio «adeguato alle loro esigenze», operazione questa che, come dirò più avanti, è replicata anche da tanti cattolici non mafiosi.
Poi però mi sono chiesto: che cosa determina la non contraddizione tra la cultura mafiosa e quella cattolica? E ho provato a dare una risposta anche a questa domanda. Innanzitutto il mafioso – e quando uso questa parola intendo il mafioso di tutti i livelli sociali – assume come principio fondante del proprio comportamento non l’etica della responsabilità ma l’etica dell’intenzione, secondo la quale ciò che conta è il pentimento interiore dinanzi a Dio e non il pentimento dinanzi agli uomini. Faccio alcuni esempi. Ci è capitato di intercettare una conversazione tra la moglie di un capomafia e un mafioso, il quale le comunicava che all’interno del carcere c’era un componente dell’organizzazione che stava attraversando momenti di crisi interiore sicché vi era il pericolo che, sottoposto a stringenti interrogatori, potesse iniziare a collaborare con i magistrati. La donna commentò che quella persona, se proprio doveva pentirsi, doveva farlo solo dinanzi a Dio e non dinanzi agli uomini «rovinando» tanti poveri cristiani. Per la cronaca è già accaduto in passato che mafiosi in crisi siano stati assassinati perché ritenuti psicologicamente poco affidabili e quindi incapaci di autogovernarsi pentendosi solo interiormente. Ricordo anche la vicenda di un capomafia, un medico chirurgo, il dottor Giuseppe Guttadauro, che raccomandava a un altro mafioso, che gli aveva confessato di essere in crisi e di avere bisogno di un prete, di trovarsi un prete «intelligente», e non come era capitato a lui che aveva avuto a che fare con un prete che gli aveva fatto notare una serie di contraddizioni del proprio comportamento. E anche Pietro Aglieri, capo di uno dei più importanti mandamenti mafiosi – che poi una volta catturato ha studiato teologia – ha sempre ribadito che secondo l’etica cattolica non è importante pentirsi dinanzi agli uomini, ma dinanzi a Dio, motivo per cui non ha mai voluto collaborare con la giustizia. E ancora, ricordo l’episodio riferitomi da un collaboratore di un suo parente mafioso che, sul letto di morte, aveva avuto una crisi e voleva chiedere perdono. I parenti subito avevano pensato di chiamare un prete, ma lui aveva detto che non voleva pentirsi dinanzi a un prete, che lo «avrebbe dovuto perdonare per mestiere», ma dinanzi ai familiari delle sue vittime che aveva fatto tanto soffrire. I parenti, preoccupatissimi, gli avevano negato questa possibilità e avevano fatto venire in casa un sacerdote il quale aveva rassicurato il moribondo che quel che contava era il perdono di Dio e non quello degli uomini. Ho anche conosciuto killer mafiosi che, dopo ogni delitto, andavano in chiesa e chiedevano perdono a Dio trovando così il modo di «aggiustarsi» con lui e sentendosi poi a posto con la propria coscienza, pronti per il successivo delitto.
Questa etica dell’intenzione – che caratterizza anche molti cattolici non mafiosi – consente, come è stato osservato anche da alcuni teologi – una riconciliazione con se stessi che non passa attraverso la riconciliazione con il prossimo. Si tratta di una sorta di «privatizzazione» della salvezza, ottenuta grazie a un rapporto solipsistico e interiore con Dio.
Un altro elemento che consente una piena conciliazione tra la cultura mafiosa e quella cattolica è la centralità che nella predicazione cattolica hanno l’etica familiare e la morale sessuale. Nel decalogo del mafioso trovato nel 2006, quando fu arrestato il capomafia Salvatore Lo Piccolo, tra i più importanti precetti c’era quello di non desiderare la donna d’altri e di rispettare la propria moglie. I mafiosi doc sono campioni di etica familiare ed estremamente rigorosi quanto ad etica sessuale. Ricordo che nel corso di un confronto al maxiprocesso, Riina accusò Buscetta di essere un immorale perché andava con molte donne, mentre lui era sempre rimasto fedele alla moglie. Lo stesso Buscetta mi confidò che in passato aveva declinato l’offerta di entrare a far parte della Commissione, l’organo di vertice della mafia, perché era consapevole che non gli sarebbe stata consentita e perdonata la sua condotta licenziosa in questo campo.
Ma i mafiosi non si sentono in contraddizione con l’etica cattolica neanche su quello che dovrebbe essere il punto di rottura: l’omicidio. Ricordo che un mafioso, uno dei più famosi medici di Palermo e persona di grande cultura, a proposito dell’omicidio mi disse: «Dottore, ma anche il diritto canonico prevedeva la pena di morte, e non fu forse il papa a condannare al rogo Giordano Bruno per eresia? Lei e i suoi colleghi vorreste forse processare anche il papa? Quindi anche la somministrazione della morte, quando è giustificata da esigenze superiori, quindi come extrema ratio, non provoca nessuna contraddizione con il comandamento «non uccidere». Mi raccontò anche che suo zio, il quale era stato un famoso capo mafia, andava a pregare sulle tombe di coloro che era stato costretto ad «abbattere». Dio sapeva – diceva lo zio – che erano stati loro stessi a volere la propria morte in quanto si erano rifiutati sino all’ultimo di seguire i buoni consigli degli «amici».
mons. Domenico Mogavero: Quello che lei ha appena raccontato è impressionante perché rivela un quadro di disvalori, una filosofia e soprattutto una visione della religione e della morale che, partendo da alcuni elementi veri, costruisce un sistema nel quale io, cattolico, vescovo della Chiesa cattolica, non ritrovo nulla del patrimonio genuino di valori etici e di religiosità della mia fede. Mi ha colpito in particolare il fatto che lei attribuisce ai mafiosi una religiosità che si fonda sull’etica dell’intenzione e non sull’etica della responsabilità, che è una distorsione sostanziale della visione cristiana della vita. Nell’ottica cristiana l’etica dell’intenzione, è vero, è centrale, ma nel senso che l’intenzione talvolta qualifica un’azione che in sé non avrebbe una rilevanza morale precisamente definita. Quando io guardo una persona posso essere mosso dal fatto che mi è simpatica, o che mi ricorda un incontro precedente. Ma posso guardarla anche con un desiderio malsano, o con l’intenzione di sopprimerla. In questo caso è l’intenzione che qualifica l’atto del guardare. Ma di fronte al furto, all’omicidio, a delitti conclamati il problema dell’intenzione non si pone neanche perché si tratta di azioni in se stesse immorali! In tutto questo discorso a farne le spese è, purtroppo, il buon Dio. Quando noi parliamo del «Dio dei mafiosi» a me si drizzano i capelli, perché un Dio dei mafiosi non esiste; non può esistere; non deve esistere. Esistono, invece, dei mafiosi, uomini senza Dio, uomini contro Dio che pretenderebbero di portare Dio dalla loro parte; un Dio – si badi bene – costruito a loro immagine e somiglianza. Dal quadro così articolato che lei ha tracciato – che non è astratto, ma è un quadro che viene dell’esperienza diretta – emerge in modo inequivocabile una infausta corruzione della visione di Dio, della morale e della vita. Dal mio punto di vista sarebbe molto interessante capire qual è il momento e quali sono le motivazioni che determinano questa degenerazione del concetto di Dio e, in connessione, l’impoverimento del concetto di pentimento come rapporto privato con Dio che esclude il prossimo; e, in dipendenza da questa dinamica relazionale, come nasce un’etica dell’intenzione che possa prescindere dall’etica della responsabilità. Quello che mi interesserebbe capire è cosa è rimasto in questi soggetti dell’insegnamento appreso nell’infanzia e nell’adolescenza con il catechismo, negli incontri eventuali con singoli sacerdoti, nella lettura della Bibbia; così pure come si è determinata questa graduale e progressiva divaricazione dalla retta dottrina fino a giungere alla «deviazione» da lei segnalata e che configura un’elaborazione – per così dire teologica – personalissima, ma errata, finalizzata a crearsi una moralità di comodo ridondante a proprio esclusivo vantaggio.
La mia voglia di comprendere l’origine e l’evoluzione di questo percorso mentale ed etico è dettata anche dalla necessità di capire se in questa elaborazione teorica, in questo processo di rottura rispetto alla corretta visione cristiana, hanno influito responsabilità, dirette o indirette, di uomini di Chiesa. Personalmente, infatti, salvaguardando eventualmente la buona fede degli interessati, non penso che padre Mario Frittitta, quando andava a celebrare la messa e a portare la comunione a Pietro Aglieri nel suo covo di latitante, agisse in modo coerente con i princìpi della dottrina cattolica. A suo tempo – lei ricorderà – ci furono parecchie tensioni e lacerazioni all’interno del mondo cattolico palermitano tra chi si schierò decisamente contro l’operato di padre Mario e chi tentava invece di rilevarne i risvolti positivi. Quindi, mi chiedo: fino a che punto quella del mafioso è l’elaborazione autonoma di una religiosità deviata e quanto, invece, è influenzata dall’apporto di qualcuno che in qualche maniera avalla una deriva e, perciò, una devianza del concetto di Dio, di pentimento, di giustizia, di rispetto della vita?
Io non ho avuto mai contatti diretti con i mafiosi, li conosco attraverso quello che è riportato nei resoconti dei processi e anche dalla pubblicistica ormai abbondante che ha sollevato il velo su un mondo una volta assolutamente impenetrabile. Un altro tema che mi interessò e mi turbò molto fu quello del «pentimento» e del «pentitismo» quando si verificarono i primi casi di collaborazione. La cosa mi colpì particolarmente perché il senso di queste parole usate a proposito dei collaboratori di giustizia non aveva niente a che fare con il concetto cristiano di pentimento. Il pentimento non è un atteggiamento che produce vantaggi per chi lo mette in atto; non è neanche qualcosa che riguarda gli altri; è, invece, una scelta ardua e impegnativa che cambia decisamente la vita di chi perviene a una tale decisione. Se però guardiamo al pentito di mafia, non possiamo fare a meno di domandarci: perché ha scelto di parlare? La risposta è facile ed è dettata anche dalla legislazione sui pentiti. Il mafioso parla perché gli conviene: ottiene sconti di pena, e vantaggi nel trattamento detentivo. Raramente c’è anche qualcuno che, partendo dal pentimento – per così dire – dettato dalla legge, intraprende un cammino di redenzione, quando il peso delle sue colpe gravissime diventa insostenibile e la sua coscienza gli impone un cambiamento di vita. Questo è il pentimento secondo l’etica cristiana che porta a rinnegare completamente un certo comportamento immorale, con l’impegno serio di allontanarsene nelle intenzioni e nei fatti. Quindi, il pentimento vero non solo è assolutamente gratuito, ma impone anche di pagare qualcosa come riparazione del male commesso. Ne consegue che l’uso di questi termini a proposito dei cosiddetti pentiti – che il più delle volte non rinnegano affatto quello che hanno compiuto, ma parlano per convenienza – non è pertinente e ha contribuito anche a creare una certa confusione.
Tornando al tema della religiosità, occorre essere chiari e senza tentennamenti: i mafiosi, quale che sia la loro origine e la loro posizione sociale, non hanno mai avuto una religiosità vera perché hanno vissuto sempre, e non potrebbe essere diversamente, ai margini dell’esperienza religiosa autentica; nessuno di loro – per quanto è dato di sapere – ha mai avuto una vita cristiana a 18 carati. Io ho la percezione che queste persone abbiano assunto una linea di condotta nella quale è rimasta solo qualche traccia superficiale di cristianesimo, risalente all’infanzia o all’adolescenza; su questa verniciatura di religiosità hanno poi sovrapposto un quadro di valori e una visione della vita che li ha portati a sfruttare quello sfondo di religiosità per piegarlo alla giustificazione della propria condotta assolutamente priva di respiro religioso. Il fatto stesso che molti mafiosi hanno continuato ad appartenere alle confraternite, o hanno continuato a portare con grande ostentazione la statua del santo nelle processioni, esibendo in maniera molto conclamata una pratica religiosa esteriore e priva di coerenza nella vita, quasi a voler controbilanciare e nascondere in tal modo una condotta per nulla irreprensibile, sia sotto il profilo civile sia soprattutto sotto il profilo religioso, mi induce a pensare che il loro percorso li abbia portati molto lontani da una religiosità autentica. In conseguenza di ciò e per le considerazioni che ho tentato di esporre, mi rifiuto categoricamente di pensare che vittime e carnefici pregano lo stesso Dio. No: il Dio dei mafiosi non è il Dio delle vittime; è un altro dio, che in verità non esiste. Io mi rifiuto di pensare che il dio di Riina, di Provenzano, di Aglieri sia il mio Dio.
Scarpinato: In realtà, se ci pensiamo bene, il problema di cui stiamo discutendo travalica il mondo mafioso e pone interrogativi di ordine generale sul modo in cui viene vissuto il cattolicesimo. Il mondo infatti è pieno di assassini ben più pericolosi di un Riina o di un Provenzano, assassini che sono cattolici ferventi e praticanti e la cosa più impressionante, dal mio punto di vista, è che tanti di essi muoiono nel proprio letto senza sensi di colpa, in pace con se stessi. Mi riferisco per esempio ai dittatori latinoamericani, come Augusto Pinochet o come il generale Videla, che si sono resi responsabili del genocidio di migliaia di persone. Augusto Pinochet si è sempre professato un fervente cattolico, confermato in questa sua convinzione da vescovi che frequentavano la sua mensa, ne condividevano le idee e che sul letto di morte l’hanno benedetto come salvatore della patria. Il generale Videla e i suoi colonnelli, quando sono stati processati in Argentina, hanno professato il loro essere buoni cattolici. Alcuni di essi hanno raccontato che alcuni preti cattolici avevano sostenuto che era anticristiano uccidere i dissidenti politici mettendoli su un aereo e poi buttandoli nell’oceano in pieno stato di coscienza. Per questo motivo, proprio seguendo il consiglio di quei preti, essi avevano cominciato a narcotizzare le vittime prima di scaraventarle nell’oceano dall’aereo, col che erano convinti di aver ottenuto la patente di buona cattolicità.
C’è poi una questione che non smette di interrogarmi: l’Italia è la culla del cattolicesimo e la patria di una Chiesa che per secoli è stata la più importante e capillare agenzia di formazione culturale del paese, eppure non solo è il paese delle mafie, ma è anche il paese dove c’è la più alta corruzione d’Europa, ed è il paese di uno stragismo che ha segnato ininterrottamente la storia nazionale, e mafiosi, corrotti e stragisti, sono spesso cattolici praticanti. Allora il problema secondo me va ben al di là di Riina, di Provenzano, dei mafiosi, e ci interroga sulle cause di quello che, stanti le sue dimensioni, sembra piuttosto assumere i contorni di un fallimento pedagogico del cattolicesimo che ha prodotto e continua a produrre falsa coscienza e ateismo pratico in vaste masse cattoliche e non solo in Italia. Perché personaggi come Pinochet, Videla e tanti altri dittatori cattolici che si sono macchiati di crimini efferati non sono eccezioni. Non ci troviamo dinanzi alla follia morale di singoli individui. La storia insegna che le dittature argentine, brasiliane, cilene e quelle di tanti altri paesi dell’America latina sono state il braccio armato di borghesie latinoamericane in larghissima misura cattoliche che non hanno esitato a fare ricorso al genocidio di massa per difendere sistemi di privilegio che venivano messi in pericolo dalle rivendicazioni popolari di milioni di sfruttati. Allo stesso modo dietro personaggi come Riina e Provenzano, elevati nell’immaginario collettivo a icone assolute ed esclusive del male di mafia, vi sono in realtà imponenti masse di cattolici appartenenti alla cosiddetta borghesia mafiosa e paramafiosa che sin dall’Unità d’Italia aggrega intorno ai propri interessi uno dei più potenti blocchi sociali del paese. La mia frequentazione coatta con i mafiosi è divenuta quindi con il tempo il punto di partenza per una riflessione di carattere più generale il cui tema centrale restava come fosse possibile la coabitazione all’interno della stessa Chiesa del Dio dei carnefici e di quello delle vittime, e cioè la coabitazione non problematica di modi di relazionarsi con Dio e con la religione apparentemente incompatibili. La risposta che mi sono dato è che, poiché nella religione cattolica il rapporto con Dio è gestito da un «mediatore culturale» che è un sacerdote, ogni segmento sociale esprime dal proprio interno un mediatore culturale che consente di avere un rapporto non problematico con Dio, per cui i dittatori latinoamericani avevano un rapporto con Dio mediato da vescovi che condividevano la loro visione della vita e del mondo, così come durante il fascismo e il franchismo vi erano dei vescovi che condividevano le idee di Mussolini o di Franco, mentre dall’altra parte vi erano vescovi e prelati che condividevano le idee dei perseguitati. E mi pare che questo pluralismo della mediazione culturale determini una sorta di occulto politeismo, nel senso che ognuno ha la possibilità di costruirsi un Dio a immagine della propria visione della vita.
Lo stesso ragionamento si può applicare alla mafia, a proposito della quale credo che si debba parlare di una pluralità di Chiese che convivono tra di loro. Abbiamo una Chiesa dei mafiosi, che è fatta di ecclesiastici che non sono mafiosi ma che sono talora imbevuti di una cultura paramafiosa perché magari vengono dallo stesso habitat culturale, dallo stesso segmento sociale. Sono numerosi i mafiosi doc che hanno cugini, parenti, zii vescovi e preti. Poi abbiamo una Chiesa dell’antimafia che esprime un padre Puglisi, un don Fasullo, don Cosimo Scordato e pochi altri, e poi abbiamo la Chiesa di quelli che padre Ernesto Balducci chiamava i «burocrati di Dio», cioè quelli che non stanno né con la mafia né con l’antimafia, né con lo Stato né con l’antistato, né con la destra, né con la sinistra, né con il centro, ma stanno esclusivamente dalla propria parte…
mons. Mogavero: … o dalla parte vincente…
Scarpinato: … e per i quali va bene una predicazione evangelica di taglio generalista, che è appunto quella improntata sulla morale sessuale, sulla famiglia, sul generico amore per il prossimo e sulla carità ridotta alla cultura dell’elemosina, che non crea alcun problema e che non costa nulla, specie se l’elemosina viene fatta con le briciole dei soldi pubblici rubati con la corruzione, o del denaro accumulato con l’evasione fiscale o con lo sfruttamento degli altri.
La cultura dell’elemosina lascia le cose come stanno e si traduce in un’acquiescenza all’esistente. L’esatto contrario della cultura dei diritti, che costituisce la declinazione di una carità attiva, e che invece è una cultura problematica e scomoda perché costringe a prendere posizione nei confronti dei potenti che sono responsabili dell’ingiustizia sociale e della sofferenza dei nostri confratelli.
E qui si pone secondo me – e lei ne accennava poco fa – un problema di responsabilità dei vertici istituzionali della Chiesa. Insomma, in questo occulto politeismo io so per certo che ci sono chiese frequentate dal popolo di mafia, che ascolta messe celebrate da sacerdoti nei quali quel popolo si riconosce, ci sono chiese frequentate dal popolo dell’antimafia e ci sono chiese frequentate dal popolo degli indifferenti. E questa coesistenza dà vita a più Dei, perché Dio a volte parla per bocca di un prete che ha una cultura paramafiosa, a volte per quella di un prete che ha una cultura antimafiosa. Il rapporto con Dio viene quindi mediato culturalmente e qui si pone un problema non solo di occulto politeismo, ma di vero e proprio relativismo etico della cultura cattolica. Il relativismo etico nella cultura laica è un valore democratico perché la democrazia si basa sulla libertà di coscienza e quindi sul pluralismo dei valori e delle culture. Dal punto di vista laico, pluralismo dei valori non significa quindi nichilismo, ma rispetto dei valori degli altri che si confrontano poi nel libero gioco democratico. Il relativismo etico della cultura laica viene costantemente avversato dai vertici ecclesiastici che rivendicano di essere depositari di una verità assoluta senza se e senza ma e, per questo motivo, pretendono di condizionare talora la legislazione statale. Gli stessi vertici ecclesiastici sono tuttavia ben consapevoli che nella realtà delle Chiese e delle parrocchie di tutto il mondo, convivono una pluralità di mediazioni culturali cattoliche tra gli uomini e Dio, spesso tra loro incompatibili, per cui il vissuto culturale di Dio – il Dio ecclesiastico – e l’etica cattolica si relativizzano quasi balcanizzandosi.
Da questo punto di vista, la storia dei vescovi di Palermo è emblematica della coesistenza all’interno della stessa Chiesa di una pluralità di mediazioni e approcci culturali alla realtà della mafia. Possiamo distinguere tre fasi a far data dal secondo dopoguerra. La prima lunga fase è stata quella del cardinal Ruffini – il quale definì la strage di Portella della Ginestra come una reazione all’estremismo di sinistra e si rifiutò di prendere posizione netta contro la mafia persino dopo la strage di Ciaculli del 1963, nonostante la sollecitazione del segretario di Stato vaticano preoccupato del fatto che invece la Chiesa valdese locale aveva tappezzato la città di manifesti di ripulsa contro quell’eccidio. Poi vi è stata la fase del cardinal Pappalardo, figlio di un carabiniere, il quale ha iniziato a introdurre nelle sue omelie prese di posizione chiare contro la mafia, soprattutto dopo l’omicidio del giudice Terranova e del commissario Boris Giuliano. È passata alla storia la sua omelia al funerale del generale Dalla Chiesa durante la quale egli pronunciò quella famosa citazione di Tito Livio: «Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo». Quando poco tempo dopo Pappalardo si recò al carcere dell’Ucciardone per officiare la messa, non solo non si presentarono i mafiosi, ma non si presentarono neppure i detenuti comuni. Quel che è più grave – e che forse meno noto – è che il cardinale Pappalardo non dovette subire solo l’ostracismo palese e scontato della mafia popolare, che tuttavia continuava ad affollare parrocchie dove officiavano sacerdoti di suo gradimento, ma subì anche il dissenso della potente borghesia mafiosa, di cui facevano parte tanti potenti del tempo, e fu criticato anche all’interno dell’ambiente ecclesiastico. Nel libro La mafia devota, la professoressa Alessandra Dino ha intervistato alcuni prelati i quali hanno rivelato che Pappalardo fu contestato internamente per aver usato quell’espressione ritenuta troppo forte, gli si disse che doveva parlare solo di misericordia e di pietà e, secondo queste testimonianze, Pappalardo ammise di aver sbagliato.
E in effetti da quel momento in poi il cardinale fece commenti sempre più rari e generici sulla mafia e, in una conferenza stampa dopo il maxiprocesso, disse che Palermo non era Sagunto e che non voleva essere scambiato per un vescovo antimafia perché il problema mafia occupava solo il 2 per cento della sua attività pastorale. Poi c’è stata la terza fase quella del cardinale De Giorgi, che pure in occasione della festa di Santa Rosalia nel 1997 ha detto che la mafia è incompatibile con il Vangelo e che il pentimento non può essere solo un fatto interiore. Ma quando dopo il caso Frittitta si è rifiutato di prendere netta posizione a favore di quest’ultimo, ha subìto anche lui vivaci critiche all’interno del mondo curiale ecclesiastico. Per arrivare infine ai tempi di oggi, abbiamo in Sicilia da una parte il vescovo di Piazza Armerina Michele Pennisi che rifiuta i funerali pubblici al boss mafioso Emanuello, dall’altra un altro prelato, l’arcivescovo di Palermo Salvatore di Cristina, che, in occasione della commemorazione di Placido Rizzotto, è stato capace di non pronunciare la parola mafia per tutta la sua omelia, per due volte ha pure storpiato il nome di Placido Rizzotto e non ha consentito a don Ciotti di prendere la parola.
Tutti questi esempi per dire che l’esistenza di più Chiese è un problema reale che chiama in causa non tanto i singoli prelati, ma direttamente il vertice vaticano, il quale è responsabile della formazione culturale dei mediatori tra Dio e gli uomini. Io credo che sia mancata nella prassi una presa di posizione netta da parte dei vertici vaticani per impedire questo occulto politeismo, questo relativismo di fatto che si trasforma in un pericolo di scristianizzazione strisciante. Insomma, se ciascuno può di fatto scegliersi il Dio che più gli conviene e nella stessa Chiesa trovo la vittima della mafia e il mandante dell’omicidio e ciascuno dei due si sente in pace con se stesso perché ciascuno dei due ha un mediatore culturale che gli consente di avere un rapporto non problematico con Dio, allora io credo che esista un problema che, come lei stesso ha accennato, chiama in causa le responsabilità della Chiesa come istituzione.
mons. Mogavero: La sua è un’analisi che guarda con grandissima attenzione i fenomeni e li guarda dall’esterno. Li guarda nelle loro manifestazioni fenomeniche sulle quali non c’è granché da aggiungere perché i fatti non si possono contestare. Mi ha molto colpito, invece, il suo discorso sul ministro sacro visto come mediatore culturale, perché si ricollega con l’interrogativo che mi ponevo prima: quando nasce e come si determina la discrepanza tra il Dio unico e vero e il dio che il mafioso si costruisce a suo uso e consumo? E chi potrebbe avere delle responsabilità o un’influenza diretta e/o indiretta in questa devianza corruttiva dal concetto di Dio? Ora è chiaro che se la religione è «Dio e basta», senza alcun riferimento agli altri, io privilegio il rapporto con un Dio che non vedo e non sento, un Dio che non mi bacchetta, un Dio tutto interiore; di riflesso, quando io trasgredisco la legge di questo Dio, è sufficiente che, quando ne avverto il bisogno, io mi riconcili con lui ignorando gli altri. Ma invece nella religione cristiana «Dio e gli altri», secondo gli insegnamenti evengelici, si richiamano in modo necessario. Dice Gesù: il primo comandamento è «Ama Dio con tutte le tue forze, con la tua mente, con il tuo cuore, con tutto te stesso»; e il secondo è simile a questo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Se, per una qualche ragione, mettiamo da parte questa seconda faccia dell’unica medaglia, noi abbiamo tradito Dio, il Vangelo, Gesù Cristo, la Chiesa.
Ci siamo costruiti un universo che non esiste, in quanto non ci sono diverse Chiese, non ci sono Dio diversi. Se si nega la dimensione umana del cristianesimo, si arriva alla negazione di Dio. Per me parlare di un «Dio dei mafiosi» è l’uccisione di Dio, perché quel Dio non esiste, non può esistere – lo ripeto. I mafiosi hanno abolito Dio creandosi un feticcio; quindi Dio è assente dal loro mondo. Il mafioso, di conseguenza, è un ateo, quali che siano le sue pratiche esteriori di religiosità. Infatti, non ci può essere una religiosità che vincola a Dio escludendo l’altro, l’altro che è mio fratello, mia sorella, mia madre, l’altro che è anche il mio concorrente, che, se intralcia i miei disegni, deve essere eliminato perché mi impedisce di perseguire i miei obiettivi. Ecco, una religiosità che esclusivizza il rapporto con Dio e che rende la Chiesa, sia come istituzione sia come singoli soggetti, semplicemente mediatrice che mi consente di avere quegli avalli che mi interessano per poter andare avanti, una simile religiosità è ateismo pratico. Il mafioso che si è costruito questo feticcio ha distrutto Dio e quindi non è un cattolico, anche se esternamente continua a compiere gesti e pratiche che sembrerebbero attestarne l’appartenenza alla Chiesa cattolica.
Se poi a tutto questo si aggiunge la funzione di quello che lei, con una formula elegante, chiama il mediatore culturale, allora il discorso diventa assai problematico. Il vescovo che benedice Pinochet o Videla, il prete che avalla il mafioso, o che va addirittura a celebrare messa nel suo covo, o suggerisce di pentirsi davanti a Dio senza prescrivere le condizioni connesse con il vero pentimento – e cioè rinnegare tutto il passato, riparare il male fatto e pagare il debito di giustizia contratto con la società – hanno fatto un danno incalcolabile alla Chiesa cattolica. E se l’hanno fatto in buona fede il buon Dio forse avrà misericordia di loro. Ma se costoro hanno agito in mala fede non so quali conti dovranno pagare alla giustizia divina, perché Dio è misericordioso, ma è anche giusto.
Per entrare poi nel dettaglio delle responsabilità personali, ci sono, come ha ricordato lei, sacerdoti che hanno rapporti di parentela anche stretta con alcuni mafiosi e che, sulla base di una malinteso familismo, si sono sentiti di prendere le parti dei loro congiunti. E Dio domanderà loro conto di tutto questo. Che ci siano state delle carenze nella formazione dei sacerdoti in certi periodi ben identificati, che ci sia stata da parte di taluni uomini di Chiesa un’inadeguata o non corretta lettura di alcuni fenomeni sociali è innegabile. Io sono entrato in seminario quando era arcivescovo di Palermo il cardinale Ruffini e ho avuto modo di conoscerlo abbastanza bene. Lei ricorderà certamente che, nel 1964, il cardinale Ruffini scrisse la lettera pastorale Il vero volto della Sicilia in cui affermava che la mafia non esisteva e che era un’invenzione dei comunisti. Si trattò di un documento che divise e divide ancora gli opinionisti e i commentatori. Il ragionamento che il cardinale faceva – e mi rendo conto che è operazione ardua tentare di giustificarlo – non era tanto di ordine sociologico, o etico. Ruffini era lombardo; aveva molto lavorato a Roma; era stato professore e rettore della Pontificia Università Lateranense. Era stato nominato arcivescovo di Palermo nel ’46, cioè in piena epoca di ricostruzione, quando la Sicilia e Palermo in particolare uscivano martoriate dalla guerra. L’arcivescovo aveva avuto modo di conoscere l’animo del siciliano semplice e proprio in base a questa sua esperienza si era convinto che la mafia non poteva esistere perché il siciliano che conosceva lui non poteva essere mafioso. Questo approccio, indubbiamente apologetico a favore dei siciliani onesti, poteva dipendere o dall’idea di mafia che egli si era fatto, o dall’idea di siciliano che aveva elaborato dentro di sé, o dalla volontà di difendere la Sicilia da questo marchio che indubbiamente si è portata addosso per tanto – troppo – tempo.
Il cardinale Pappalardo fu arcivescovo di Palermo in un periodo molto diverso e assai drammatico; fu testimone delle stragi, essendo rimasto a Palermo dal 1970 al 1996. La lettura che lei ha fatto del percorso del cardinale Pappalardo la condivido in parte, mentre dall’episodio accaduto nel carcere dell’Ucciardone in poi farei qualche distinguo. Innanzitutto bisogna precisare che il cardinale Pappalardo fu solo sia nel momento in cui pronunciò le sue omelie contro la mafia, senza avere alcun timore di eventuali rischi, sia successivamente. Pappalardo era siciliano, figlio di un maresciallo dei carabinieri, ma aveva abitato quasi sempre fuori. Aveva frequentato il Seminario romano; aveva prestato servizio in segreteria di Stato e successivamente nella diplomazia vaticana. Era arrivato a Palermo a 53 anni senza precedenti esperienze pastorali, senza una conoscenza approfondita della realtà palermitana così complessa e contorta. All’inizio ha avuto bisogno di capire e si è dato un tempo di riflessione per rendersi conto della realtà, ma senza mettersi sul filone garantista, ossia «la mafia non esiste». Il giorno del funerale del prefetto Dalla Chiesa ebbi modo di incontrare Pappalardo prima e dopo la celebrazione delle esequie. Il cardinale era apparentemente tranquillo, ma si notava una certa tensione. L’omelia non fu improvvisata; l’aveva scritta e, quindi, era ben ponderata nei suoi contenuti. La famosa citazione di Tito Livio gli venne proprio dal cuore con l’espressione finale: «povera Palermo». Con quelle parole accorate egli si mise dalla parte della città come vescovo e come padre che aveva la missione e il compito di soccorrere una creatura così lacerata e martoriata nel suo tessuto sia sociale sia umano. Dopo quell’episodio, in effetti, qualche voce dissenziente ci fu. Però posso affermare con certezza che il cardinale da quel momento in avanti non tacque perché qualcuno gli impose il silenzio, ma perché non accettò di diventare il cardinale antimafia nel senso mediatico del termine. Il cardinale Pappalardo era una persona passionale per cui a un certo punto si stancò…
Scarpinato: Scusi se la interrompo, ma ricordo che la stampa nell’83 pubblicò la notizia che il cardinale Pappalardo rischiava di essere trasferito da Palermo, notizia che, mi pare, non fu smentita.
mons. Mogavero: Non fu smentita perché in quel momento si ebbe la percezione che il cardinale fosse in partenza, ma non tanto per queste polemiche quanto perché in quel momento le sue prese di posizione e il suo lavoro pastorale a Palermo gli avevano meritato molta stima all’interno dell’episcopato siciliano e della Chiesa italiana. Si ebbe la sensazione che fosse in procinto di lasciare Palermo per assumere responsabilità maggiori, proprio perché gli si riconosceva un carisma che lo proponeva come testimone di religiosità non indifferente verso i problemi dell’uomo del nostro tempo.
Scarpinato: A proposito del rapporto problematico tra Pappalardo e i vertici vaticani, ho letto un libro dedicato alla storia del movimento Città per l’Uomo, che è stata un’esperienza di cattolicesimo politico molto significativa per la Palermo della prima metà degli anni Ottanta. Alcuni fondatori di questo movimento riferivano che in un primo momento il cardinale Pappalardo aveva favorito e sponsorizzato questo esperimento che tentava di ricristianizzare la politica partendo dal basso e dalle effettive esigenze del territorio, recidendo ogni legame del mondo cattolico con politici compromessi con la mafia e con quelli adusi alle pratiche clientelari. Ma non appena il movimento aveva cominciato a decollare suscitando entusiasmi e aspettative, erano intervenuti sulle alte gerarchie ecclesiastiche alcuni maggiorenti della Dc del tempo, tra i quali anche l’onorevole Salvo Lima, massimo referente politico della mafia in Sicilia, e a quel punto Pappalardo era stato costretto a tirarsi indietro, sicché Città per l’Uomo privata del suo autorevole sostegno e lasciata a se stessa aveva consumato brevemente la sua parabola politica. Vorrei anche ricordare che il cardinale Pappalardo non riuscì, nonostante ci avesse provato in diverse occasioni, a far inserire nei documenti ufficiali della Conferenza episcopale italiana il tema della mafia. E, sempre a proposito di responsabilità istituzionali, mi ha molto colpito che, sia dopo la strage di Capaci sia dopo quella di via d’Amelio, non vi sia stato nei documenti ufficiali della Cei nessun riferimento alle stragi, e addirittura un documento che uscì poco dopo la morte di Falcone era incentrato sul problema del disfacimento del partito cattolico a seguito della caduta della Prima Repubblica, come se quelle stragi, quegli eventi così drammatici da essere vissuti come una ferita dall’intera nazione, fossero invece fuori dall’orizzonte culturale e dalla stessa sensibilità cristiana della Conferenza episcopale italiana.
mons. Mogavero: E lo erano. Non dobbiamo dimenticare che la Chiesa in quanto istituzione vive in questo mondo. La consapevolezza della pericolosità della mafia da parte dell’opinione pubblica e delle istituzioni civili non nasce nel ’48 dopo Portella della Ginestra, nasce dopo le stragi. La Chiesa risente di questo clima e ne è in qualche modo cassa di risonanza. Insomma, non possiamo pretendere che la Chiesa esprimesse già 30-40 anni fa una sensibilità che è cresciuta e maturata nel tempo, anche nella società civile. Per tornare al cardinale Pappalardo, negli anni in cui è stato a Palermo, la città ha conosciuto momenti di grande impegno religioso e sociale. Puglisi non nasce per caso, Puglisi non è un giglio che nasce isolato in mezzo a un territorio circostante fatto di letame puzzolente che odora di mafia in ogni sua piega. Puglisi è sicuramente l’espressione di una linea di pensiero e di strategia pastorale, che potremmo definire carsico e abbastanza minoritario ma mai assente all’interno della Chiesa palermitana. Puglisi, Fasullo, Pintacuda, Garau, Scordato… sono figure che dimostrano come il cammino fatto a Palermo e in tutta Italia avesse una sua consequenzialità. Ricordiamoci delle parole che Giovanni Paolo II pronunciò l’8 maggio del ’92 ad Agrigento, parole che rimangono nella storia, perché per la prima volta e in maniera assai informale e per questo ancora più significativa – si dice che sia stato determinante l’incontro avuto con il papà e la mamma del giudice Rosario Livatino prima della messa – un papa prese una posizione che non lasciava ombra di dubbio su come si devono considerare la mafia e i mafiosi di fronte al giudizio di Dio. E io non mi sento di escludere un qualche nesso fra quelle parole e l’attentato di Firenze, quello di San Giovanni in Laterano e l’uccisione di don Pino Puglisi. Forse la mafia finalmente in quel momento si rende conto di essere incompatibile con il tessuto ecclesiale.
A questo punto occorre comprendere che non si potrà trovare la mafia come punto prioritario dell’agenda della Conferenza episcopale italiana perché noi siamo il Sud e la Cei le vicende del Sud non sempre le ha vissute come un problema del paese, anche se oggi le cose sono comunque molto cambiate. Infatti, già in un documento di dodici anni fa sul Mezzogiorno – redatto dai vescovi del Mezzogiorno – si parlava della mafia come cancro, come peccato; parole inaudite tra gli anni Cinquanta e Ottanta. Insomma a fatica e con mille incertezze, però un buon cammino l’abbiamo fatto anche noi come comunità ecclesiale, soprattutto per merito di coloro che hanno tenuta desta una sensibilità e un’attenzione vigile e vera nei confronti della mafia e che ci hanno lasciato la pelle, come don Peppino Diana in Campania e don Pino Puglisi da noi in Sicilia.
Dico questo non per fare un discorso apologetico, che non avrebbe nessun senso, ma per dire che un’evoluzione c’è stata. E, ripeto, il problema mafia non è un problema che investe la Chiesa italiana nella sua totalità. Il papa ne ha parlato e ne parla nelle circostanze in cui questo può avere un senso. Nei discorsi degli ultimi due papi ai vescovi siciliani questa attenzione sulla mafia come urgenza pastorale è costantemente presente. Riconosco che il cammino è stato lungo e variegato; che siamo partiti da una posizione quasi di fiancheggiamento di fatto per le ragioni che ci siamo detti precedentemente, ma che oggi la situazione è completamente diversa e che la posizione di rifiuto e di esecrazione della mafia è un punto di non ritorno e di estrema chiarezza in termini di condanna morale e sociale.
Scarpinato: Prendo atto dei passi avanti da lei sottolineati, però continuo a pensare che, fino a quando continueranno a convivere l’uno accanto all’altro alti prelati che fanno una chiara scelta di pastorale antimafia, alti prelati che invece non pronunciano ancora la parola mafia e magari condividono certi aspetti della cultura paramafiosa, come l’etica dell’intenzione intesa in senso distorto, e alti prelati che possiamo definire burocrati di Dio, noi ci ritroveremo ancora dinanzi a una forma di relativismo etico, perché di volta in volta possiamo prendere un esempio positivo e uno negativo, ma resta il fatto che noi oggi, nell’Italia, nella Sicilia del 2012, continuiamo ad avere masse di cattolici che si scelgono a piacimento il proprio mediatore con Dio, e questo mi pare un problema grave che riguarda non solo la mafia, ma anche la corruzione. La corruzione è un gravissimo peccato contro la solidarietà sociale, che sta distruggendo le possibilità di riscatto di questo paese e abbiamo una massa di politici cattolici corrotti che non si sentono assolutamente in colpa con se stessi e anzi vengono talora additati come buoni cattolici e buoni cristiani perché elargiscono alla Chiesa le briciole dei soldi che hanno rubato. Voglio raccontare un episodio che sembra inventato e invece è riportato in una sentenza a carico di un ministro della Prima Repubblica, il quale, dovendo subire un’operazione al cuore molto difficile, si recò negli Stati Uniti e prima di entrare nella camera operatoria fece un voto alla Madonna in base al quale, se si fosse salvato, avrebbe regalato 100 milioni delle vecchie lire alla parrocchia della sua città. L’operazione andò bene e allora il ministro chiamò un imprenditore e gli disse: tu mi dovevi dare 100 milioni di tangente, invece di darli a me li dai al parroco perché io ho fatto un voto, e così si sentiva assolutamente in pace con se stesso.
Lei ha citato don Diana e padre Puglisi. Io ho conosciuto la storia di don Diana quando le monache paoline mi hanno invitato a presentare un libro a lui dedicato scritto da un sacerdote e teologo palermitano che si chiama Rosario Giuè, e sono rimasto molto colpito dal ringraziamento che in quell’occasione l’autore fece alla casa editrice delle monache paoline per il «coraggio» che avevano avuto nel pubblicare quel libro. Giuè infatti racconta che don Giuseppe Diana era stato cancellato dalla memoria collettiva e storica della Chiesa cattolica e spiega perché i vertici del Vaticano non l’hanno mai valorizzato come martire. Don Giuseppe Diana aveva tradotto nella sua azione pastorale i princìpi della teologia della liberazione del cardinale Oscar Romero e questo in una Chiesa cattolica che aveva condannato la teologia della liberazione non veniva gradito. Per quanto riguarda padre Puglisi, ricordo che il regista Roberto Faenza, che ha realizzato un film su di lui, ha scritto in un articolo che l’eredità di padre Puglisi si è in gran parte dispersa perché il suo successore è, a suo parere, una persona molto diversa da padre Puglisi tanto che ha persino avuto incarichi dall’onorevole Cuffaro all’interno della Regione Siciliana. Faenza sostiene – ma dialogando con diverse persone mi sono reso conto che si tratta di un’opinione condivisa da altri – che anche i seguaci di padre Puglisi, tra cui suor Carolina e un altro sacerdote, sono stati dispersi, per cui quello che aveva rappresentato un salto qualitativo della presenza cristiana sul territorio si è trasformato in una piccola holding della solidarietà che ha ricevuto in passato finanziamenti pubblici anche da parte di personaggi politici talora poco trasparenti.
Io non so quanto tutto questo corrisponda o meno alla realtà, però mi sembra di poter dire che permangono aspetti problematici che ci riconducono a quello che lei ha detto a proposito del fatto che la Chiesa vive nella realtà. Verissimo, e infatti vivendo nella realtà, il primo problema che la Chiesa ha sempre avuto è il rapporto con il potere. Ecco perché io faccio una distinzione di fondo tra Chiesa istituzione e Chiesa comunità. La Chiesa comunità a mio parere non può non riflettere tutte le contraddizioni della società civile, una società che si porta dentro anche la cultura della corruzione, della paramafiosità e della illegalità di massa. Ma il punto secondo me è la responsabilità della Chiesa come istituzione. Siccome la Chiesa cattolica è l’unica monarchia assoluta che è rimasta nella modernità ed è un ordinamento giuridico fondato sul vincolo di obbedienza e di subordinazione gerarchica, ci sarebbero tutti i presupposti per una rapida riconversione culturale guidata da quei vertici ecclesiastici che sono responsabili della formazione culturale e dell’educazione etica dei mediatori con Dio e delle masse cattoliche. Una riconversione che potremmo definire come la ricristianizzazione del cattolicesimo.
A me pare che il vizio di fondo della Chiesa istituzione sia invece una sorta di machiavellismo il cui prezzo è la scristianizzazione strisciante del cattolicesimo. Si ritiene in genere che il machiavellismo sia un’invenzione della cultura laica, e invece io ritengo che sia un’invenzione della cultura cattolica, per la quale nessun fine è superiore a quello della salvezza della Chiesa stessa e, in vista di questo fine superiore, nel corso della storia i vertici vaticani hanno rinsaldato di volta in volta il patto con il potere, il patto con Cesare. Quando il papa sceglie il fascismo, nonostante il fascismo avesse ucciso anche dei preti antifascisti, è una scelta che la Chiesa compie sull’altare degli interessi della Chiesta-Stato e un ragionamento simile si può applicare anche al rapporto con la mafia. Il cardinal Ruffini era un ammiratore del generale Franco, fascista, ed era uno che riteneva che il maggior pericolo per la Chiesa di allora fosse il comunismo, tutto il resto era secondario.
mons. Mogavero: E non era il solo.
Scarpinato: E non era il solo, anzi c’era proprio un filone culturale che non considerava la mafia un pericolo, anzi, riteneva che almeno una parte della mafia fosse una mafia devota, una mafia che non solo non contestava la Chiesa, ma che addirittura aveva una sua propria religiosità e soprattutto costituiva un importantissimo baluardo contro la diffusione del comunismo. Ma il problema del rapporto col potere si pone anche al di fuori della mafia, perché quando si è trattato di scegliere tra Pinochet, uomo simbolo delle dittature sanguinarie sudamericane, e il cardinale Oscar Romero, uomo simbolo della teologia della liberazione, il vertice vaticano ha fatto la sua scelta: è noto che papa Wojtyła si mostrò sul balcone insieme a Pinochet, legittimandolo, e quando anni dopo il giudice spagnolo Garzón chiese l’estradizione di Pinochet, i vertici del Vaticano fecero di tutto per impedirla, tanto che le madri dei desaparecidos inviarono una lettera al papa in cui manifestavano tutta la loro indignazione per il fatto che non solo non aveva fermato il genocidio allora, ma si intrometteva ora anche per evitare l’estradizione del capo degli assassini.
Come dicevo all’inizio di questa nostra conversazione, io quando ero ragazzo ero sostanzialmente indifferente nei confronti della Chiesa cattolica, però ho avuto la fortuna di vivere in un tempo in cui avevamo tutti l’illusione di poter cambiare il mondo ed era anche il tempo del cattolicesimo riformista, un momento in cui c’era un ampio dialogo tra laici e cattolici, eravamo ancora pienamente dentro la primavera del Concilio Vaticano II, una stagione di rinnovamento interno per la Chiesa, di democratizzazione, di apertura alla società civile, una stagione iniziata con il pontificato di papa Giovanni XXIII e drammaticamente conclusasi proprio con l’omicidio di Oscar Romero, che ha segnato un ritorno alla Chiesa pre-conciliare. Oscar Romero tentò disperatamente di avere l’appoggio del papa, e invece venne lasciato solo e fu proprio questo suo stato di isolamento che lo condannò a morte, mettendolo nelle mani della dittatura di San Salvador che sapeva bene che quell’omicidio sarebbe passato sotto silenzio e avrebbe chiuso una stagione di neocristianesimo che dava voce e speranza a milioni di campesinos sfruttati a sangue da poche famiglie di grandi latifondisti che, grazie alla violenza, si erano impadroniti di tutte le ricchezze del paese. Ma quel che è più grave dal mio punto di vista è che quando tempo dopo Wojtyła si recò a San Salvador, non inserì nel suo itinerario ufficiale la visita alla tomba del cardinal Romero, come riconoscimento postumo del valore del suo martirio. Ci andò solo privatamente, proprio per non attribuire valore simbolico a quella visita. Poi tutte le cattedre della teologia della liberazione vennero chiuse e al posto di Romero è stato nominato un cardinale che era ai suoi antipodi. Anche questa vicenda – una tra le tante che si potrebbero ricordare – mostra come l’interesse supremo del Vaticano sia sempre stato la salvezza della Chiesa intesa come compromesso con i poteri che ne garantiscono la sopravvivenza come istituzione, e in quest’ottica si riteneva che Oscar Romero, con la sua Chiesa dalla parte dei popoli, potesse favorire il comunismo, visto come la più grave minaccia per la Chiesa.
Ecco, a me pare che questo machiavellismo cattolico sia il peggiore tradimento dell’importante lezione antipotere di Gesù Cristo. Come sostiene il teologo Alberto Maggi, Gesù opera una rivoluzione culturale perché, mentre prima di lui il rapporto tra Dio e l’uomo era un rapporto di sottomissione dell’uomo a Dio, a cui si doveva obbedienza, un Dio che era soprattutto potenza, con Gesù Dio è amore ed è quindi al servizio dell’uomo e, se non c’è più un rapporto di dominio di Dio sull’uomo, a maggior ragione non può esserci rapporto di dominio di un uomo su un altro uomo. Una rivoluzione del rapporto tra l’uomo e Dio che investe anche il rapporto tra uomo e uomo e il rapporto tra uomo e potere, rivoluzione che è il fondamento della democrazia. Non è un caso che Gesù chiami sempre in causa i potenti come responsabili del dolore degli uomini. E non è un caso che Gesù venga condannato a morte dai potenti del suo tempo – Cesare e Caifa – che lo ritenevano un pericolo sovversivo dell’ordine costituito. Ecco, questo insegnamento antipotere, che aveva trovato nella teologia della liberazione e nella stagione conciliare una possibilità di nuova rivisitazione, è stato completamente abbandonato dalla Chiesa post-conciliare. Una Chiesa tornata alla cultura pre-conciliare, con una riaffermazione del vincolo di subordinazione gerarchica, del vincolo di obbedienza, con una sostituzione della sostanza spirituale con la gestione mediatica delle masse. Mi pare che la Chiesa stia subendo una deriva che assomiglia in qualche modo a quella del potere laico: un potere che diventa sempre più oligarchico e verticistico e che usa i mass media come principale veicolo di comunicazione. In tv vediamo continuamente sceneggiati sui santi e una presenza costante dei vescovi, ma non vediamo mai il popolo di base. Eppure frequentando le parrocchie si scopre che c’è una forte domanda di senso, di nuovo cristianesimo. Cosa di cui non ti accorgi se ascolti parlare i vescovi in tv che non usano il linguaggio del «sì, sì, no, no, e il resto è farina del diavolo» ma parlano in maniera criptica e molto politicante. Quando mi è capitato di fare dei discorsi critici sul Vaticano in contesti cattolici – dalle suore paoline o al Centro Balducci, per esempio – temevo di essere travolto dai fischi e invece ho sempre ricevuto applausi scroscianti, come se volessero dirmi: siamo d’accordo con te, ma di’ tu queste cose che noi non le possiamo dire. Insomma, come accade anche nella società civile, c’è un popolo di base che è molto più avanti delle sue gerarchie, ed è un’occasione che non andrebbe sprecata.
mons. Mogavero: Se io fossi stato tra i suoi ascoltatori in quelle occasioni pubbliche che ha citato stia certo che mi sarei unito molto volentieri agli applausi. Le cose che lei dice, infatti, sono in parte anche le mie sofferenze. Io ho vissuto la stagione del Vaticano II; ho vissuto il prima, il durante e il tempo della sua ricezione attraverso nuovi modelli di vita ecclesiale e nuove dinamiche di partecipazione. E sto vivendo un presente che mi fa soffrire maledettamente perché – lei non ha usato questa parola che io invece voglio usare – siamo in clima di restaurazione. Ritengo, perciò di avere motivi per rimpiangere quella stagione così promettente – una meravigliosa primavera dello Spirito – apportatrice di aria pulita, di finestre aperte, di dialogo col mondo, di capacità di guardare alle altre religioni non come a concorrenti da combattere, ma come compagni di un’avventura da condividere. Dalla mia diocesi, Mazara del Vallo, io guarda l’Africa e sono convinto che non dobbiamo temere l’islamizzazione dell’Europa e che il dialogo con l’islam, pur se difficilissimo, è l’unica risorsa che abbiamo se non vogliamo fare perennemente la guerra. Avendo molto a che fare con le Chiese del Maghreb, posso dire che ne rimango molto ammirato perché sono Chiese che non hanno niente a che spartire con il potere perché non hanno niente da dare al potere. In un paese di 10,5 milioni di abitanti come la Tunisia, una Chiesa di ventiduemila fedeli, come quella cattolica, pur essendo poco rilevante sotto il profilo numerico, non è irrilevante dal punto di vista della presenza e della capacità di testimoniare il Vangelo. La stessa cosa vale anche per gli altri paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo. Facendo tesoro di queste esperienze, ritengo che anche nel nostro paese noi dobbiamo gestire una presenza e assumere un ruolo nella società che non siano modellati su categorie dell’organizzazione umana, e meno che mai sulla gestione del potere. Ci dobbiamo collocare su prospettive altre rispetto a chi rimpiange la Democrazia cristiana o pensa a un nuovo partito dei cattolici; per non dire dell’inverosimile partito dei preti!
Però per fortuna la Chiesa oggi, anche in Italia, che pure è un paese abbastanza retrivo, non si identifica nella gerarchia e sente, nonostante tutto, un grande bisogno di Vaticano II da riprendere, non solo nelle sue idealità ma anche in talune sue linee operative e progettuali. Purtroppo, il magistero conciliare è tenuto ben custodito in un congelatore, in attesa che qualcuno la riprenda nella sua inalterata freschezza. Io, comunque, sono molto fiducioso perché oggi non abbiamo più talune preoccupazioni che nel recente passato, per varie ragioni, ci hanno fatto perdere di vista qual è il nostro essenziale, e cioè che noi siamo portatori di una speranza che non è un concetto ma è una persona, Gesù Cristo, che è il Dio degli ultimi, colui il quale non ha niente a che spartire con il potere e che proprio per questa sua guerra al potere costituito, religioso e civile, ha pagato con la vita. In ragione di ciò sono persuaso che il martirio oggi nella Chiesa è una risorsa, non una sciagura. Quando ammazzano un prete o un laico, quando fanno fuori qualcuno che con la sua vita e con la sua parola è diventato un messaggio scomodo, siamo davanti a una grazia, perché il martirio è la conferma, l’avallo autorevole attraverso il sangue di un messaggio che altrimenti non sarebbe credibile.
Lei ha citato più volte il santo Oscar Romero, che santo non è ancora, ma lo diventerà, perché, a mio modesto avviso, la beatificazione di don Pino Puglisi è il precedente per la beatificazione del vescovo Romero. Il tempo è galantuomo e fa giustizia. E se davanti a Dio mille anni sono come un giorno solo, come recita un salmo, i nostri anni sono veramente poca cosa nell’ottica di una lettura religiosa della storia. Ed è quello di cui abbiamo bisogno perché una lettura religiosa nel senso alto del termine, non devozionistica, né bigotta, ci fa comprendere il disegno che Dio va manifestando attraverso le vie contorte e le teste matte di noi uomini, ecclesiastici e non, devoti e non, guardandosi dagli atei devoti, soggetti un po’ sospetti…
Io penso che viviamo oggi un tempo assai tribolato di crisi molteplici, che, come tutti i tempi di crisi, è la premessa di un qualcosa di nuovo e di buono che si sta preparando, anche attraverso fatiche, indecisioni, oscillazioni tra il sì e il no, la mafia e l’antimafia, l’ateo devoto e il devoto assolutamente ateo, il credente e il non credente, il praticante e il non praticante. Abbiamo bisogno di una grande purificazione del pensiero, di intelligenze grandi, di nuovi umanesimi. La vera crisi che ci sta logorando non è una crisi di fede, è una crisi di cultura. Se noi oggi riuscissimo a recuperare la dimensione culturale della fede, della liturgia, della devozione, della pietà popolare, dei rapporti vicendevoli, daremmo a questo nostro mondo quello che si aspetta da noi e che noi forse non percepiamo chiaramente. C’è – e le sue parole lo confermano – una grande domanda – spesso inespressa – di Chiesa, che è una domanda di valore, di senso, di orizzonti e di prospettive che consenta a ciascuno di prendere le proprie decisioni ispirandosi unicamente alla verità, alla giustizia, alla corretta e costruttiva relazione interpersonale.
Scarpinato: Io credo che bisognerebbe impegnarsi per favorire un nuovo incontro tra cultura laica e cultura cattolica su nuove basi che mettano da parte vecchi paradigmi del passato. Quando sento parlare della creazione di nuovi partiti cattolici fondati solo sulla comune appartenenza allo stesso credo religioso, mi sembra di assistere alla riproposizione fuori tempo massimo di vecchie e improponibili operazioni di Palazzo che pretendono di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa: cattolici onesti e cattolici corrotti e mafiosi. Bisogna abbandonare la falsa distinzione tra credenti e non credenti: alcuni miei colleghi magistrati non erano credenti eppure si sono fatti uccidere perché credevano nei valori di eguaglianza, di giustizia, di fratellanza e io credo che loro fossero molto più cristiani di tanti atei pratici che si definiscono buoni cattolici solo perché vanno ogni domenica a messa e poi sono corrotti o traccheggiano con i mafiosi. Il punto è che ci sono modi diversi di credere negli stessi valori, ma del resto la Rivoluzione francese, che determina la nascita della modernità, dell’Illuminismo, a quali valori si ispirava? Libertà, eguaglianza e fraternità. E l’eguaglianza e la fraternità non sono forse valori cristiani? Il punto è che questa domanda di senso è trasversale al mondo laico e al mondo cattolico e non trova più risposta né all’interno della Chiesa istituzione né all’interno delle istituzioni statali.
mons. Mogavero: Sono molto d’accordo sulla sua conclusione. Io ho la fortuna di incontrare molta gente e molte persone, con cui dialogo piacevolmente, mi fanno sorridere quando, rivolgendosi a me quasi scusandosi, precisano: guardi che io non sono cattolico! Come se questa fosse una discriminante e non, al contrario, un motivo in più per un dialogo sincero e costruttivo.
Redazione del testo a cura di Cinzia Sciuto.
Pubblicato da MicroMega 7/2012 .
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