Roberto Roversi ha conosciuto bene Pasolini. Hanno animato, insieme ad altri, una delle più interessanti riviste del 900 (Officina) e anche quando hanno cessato di avere progetti comuni hanno continuato a stimarsi e a volersi bene.
Riprendiamo stasera da http://www.robertoroversi.it/altri-materiali/item/474-quattro-brevi-note-su-pasolini-reale.html un suo scritto del 1979 che mostra quanto profonda sia stata la sua comprensione dell'opera del poeta corsaro.
Fortini
ha (o avrà) come al solito delle buone lucide ragioni per non volere
oggi (adesso) parlare o scrivere su Pasolini, poiché il potere culturale
o l’ufficialità ecc. ne manipola tutti i segmenti in modo famelico e
scriteriato; ma io penso proprio il contrario e proprio perché il potere
culturale ecc.; cioè penso che oggi si possa, anzi si debba parlare di
Pasolini soprattutto per l’uso indiscriminato che a livello pubblico si
fa di questo “autore”. E che ogni nostro intervento, sia pure marginale,
è sempre un minimo contributo al ristabilimento di una verità, e al
rafforzamento di una lotta verso la verità (e la libertà della cultura)
alla quale Pasolini partecipava con tutta la forza dei suoi sentimenti
arrabbiati.
È
per questo che io, in certe occasioni e a ragion veduta, non ho
preoccupazione a parlare ancora su di lui, in quanto ritengo che
Pasolini sia un tramite per i nostri discorsi generali; un supporto
forse necessario. È ancora, insomma, un suscitatore di problemi. Cercare
di capirlo sempre meglio, in particolare, è un modo di cercare di
interpretare un poco anche questo nostro tempo. E per questa occasione,
senza alcuna pretesa di sistematicità, proporrei tre o quattro note su
alcuni punti che a me sembrano interessanti. Ancora interessanti.
1)
LA TENEREZZA VITALE DI PASOLINI. Pasolini è sempre stato aggredito,
contrastato e ferito dall’arroganza culturale di un tempo e di una
ufficialità culturale che non lo tollerava. Non riusciva né d’altra
parte poteva tollerarlo. Pasolini, nonostante un successo
cinematografico assordante e un poco cupo, fu nella sostanza dei fatti
un escluso dal suo tempo, anzi fu tenuto escluso e con accidia
rifiutato e ributtato ogni volta che egli proponeva un contatto
“organico”. Quando lo inglobavano, lo inglobavano per inquinarlo,
comprometterlo, infiacchirlo – come è poi il giuoco solito del potere.
D’altra parte è anche vero che Pasolini non tollerò mai questa
opposizione che lo escludeva; ma è altrettanto vero che partecipò al
dolore di questa esclusione come a una offesa più generale, che andava
oltre di lui, e che lui riteneva fosse fatta alla ragione e anche alla
“purezza” (una purezza intesa come conoscenza e giovinezza) della vita. A
tutto ciò che era lontano dalla corruzione, dall’intrigo,
dall’interesse e invece si affidava all’ingenuità piena di fantasia e di
sorpresa, alla volontà precisa e continua di giustizia, al desiderio
forte e stimolante di agire, di conoscere, di comunicare.
Parlando
con Ferdinando Camon Pasolini diceva: “Il fondo del mio carattere non è
il malessere, bensì la gaiezza, la vitalità, e questo io paleso non
solo nell’opera letteraria ma nella vita stessa. Intendo per vitalità
quell’amor di vita che coincide con la lietezza. E gaia, vitale,
affettuosa è nell’intimo la mia natura: son le continue angosce
oggettive che ho dovuto affrontare che hanno esasperato gli aspetti del
mio malessere”.
Una
esclusione e una concomitante tensione angosciosa, dialettica, che si
esercitarono fin dai primi momenti, fin dai primi atti ufficiali di
questo autore. A partire, ed è importantissimo ricordarlo, dalle vicende
e poi dall’ultima vicenda friulana che lo vide prima emarginato
pubblicamente, poi contrassegnato col disprezzo di un diverso
infine espulso dal partito comunista. Singoli momenti e atti
checonfluiscono in una storia che è atroce soprattutto per i biechi
risvolti di una polemica rissosa e paesana (fra cellula a sacrestia) che
l’avevano suscitata e alimentata e che lo costrinsero a fuggire verso
Roma. Dirà nel 1965: “Son tredici anni che non capito in Friuli, se non
per fughe di un giorno. Non ne so più niente”.
Questo
episodio, a mio parere, è il momento centrale nella biografia di
Pasolini; e si aggancia direttamente anche alla morte del fratello,
partigiano. Insultato; accusato come corruttore di giovani per la sua
omosessualità, Pasolini sottostava improvvisamente (cioè con lo
sbalordimento angosciato e doloroso di chi passa da un sentimento di
libertà felice a una costrizione impaurita e opprimente e quasi
irrazionale) al saldarsi di una duplice condanna. Una era rappresentata
dalla definitiva esclusione da parte cattolica, che lo considerava un
transfuga non più recuperabile e lo combatteva come un doppio
avversario; l’altra era di essere considerato un “inquinato” da parte
comunista. La sua omosessualità in quell’Italia dai codici tradizionali
(o stalinista o bigotta) spaventava, indignava, repelleva. Il comunismo
ufficiale, ad esempio, manifestava un’attitudine intransigente e
bigotta, contrassegnata da un moralismo abbastanza cupo, per tutto ciò
che restava fuori o sembrava restare fuori dalle istituzioni “congelate”
di una norma morale molto tradizionale. Perciò anche di fronte a questo
episodio il suo atteggiamento fu di pronta chiusura. E questo moto di
riflusso continuò fino all’impatto col primo romanzo di Pasolini, Ragazzi di vita, contro il quale buona parte della critica marxista si esercitò in un rifiuto molto duro, uniforme anche se poco argomentato.
2)
IL MARXISMO DI PASOLINI. D’altra parte a me è sempre sembrato che il
marxismo di Pasolini fosse soltanto una sua personale e originale
rivelazione. O intuizione. La componente mitica, o mistica, di questa
straordinaria intuizione o, se si vuole, dell’ansiosa invenzione
marxista di Pasolini è stata poi una connotazione determinante e quasi
esplodente depositata ne Le ceneri di Gramsci e incanalata poi anche nelle opere successive. Ma già in questa prima, ne Le ceneri di Gramsci,
il marxismo è ricerca di una innocenza perduta da sé ma anche in
generale e che dunque va ritrovata ad ogni costo per riappropriarsene
come necessità, bisogno per vivere. Quindi è ricerca di verità sociale più che di giustizia sociale. E nella verità è compreso soprattutto cercare e capire. Non è mai un bisogno di sistematicità, un rassicurante sistema chiuso da norme delegate e da delibare.
Bisogno
di innocenza, ho appena detto. Ma non tanto di una innocenza della
memoria (per cose e fatti ormai accaduti) quanto di una innocenza per le
cose e per i fatti che stanno accadendo o sono per accadere. Da
paragonarsi all’ordine della natura. Tale ricerca finiva per tradursi in
una sperimentazione di vita continua, ossessiva; ossessiva anche nella
sua insaziabilità pubblica di fare, cercare, scrivere, parlare, esporsi
ed esibirsi. Ma non era un’esibizione declamatoria, narcisistica. Dirà:
“Questo dare accade mio malgrado, per le vie che non sono
tipiche dell’estroversione, e inconsciamente. Alcuna forme
esibizionistiche ci sono evidentemente in me, ma in quel profondo che
non implica responsabilità, fanno parte dei miei traumi, della mia
psicologia patologica e io non le domino”.
Quindi
il marxismo di Pasolini è anche una invenzione di questa innocenza; è
mescolato alla continua ricerca di questa innocenza (perduta) e al suo
continuo affannoso doloroso tragico rimando. Conseguente è anche il suo
bisogno di definirsi, per la necessità immediata di darsi un appiglio.
“Sono, come dire, gramsciano. È una definizione possibile?
Comunque la mia indipendenza non è né voluta né amata: è coatta e
dolorosa. Vorrei poter scegliere…” scrive in una dichiarazione del l955.
Altrove, in quegli anni, si definiva ideologo e poi marxiano.
Marxiano direi come gramsciano, con equale tenerezza per il mondo;
ideologo, quindi disposto più a definirsi per discutere che a discutere
per definirsi (nella tensione di ritrovare una connotazione significante
all’interno del sistema dei rapporti politici, concedendosi
contemporaneamente una zona di franchigia).
E per un immediato approfondimento in merito, già nelle pagine di poesia de Le ceneri di Gramsci si ricava una descrizione in filigrana della rivoluzione
(della rivoluzione combattuta e violenta) che io ritengo di
sconvolgente attualità. E la descrizione muove da una premessa che
presuppone l’accettazione di questa (possibile? probabile?) verità: che
una rivoluzione definitiva in quanto vittoriosa non si dà né si è mai
data. La rivoluzione, la sua ricerca, il bisogno sociale di
farla, è il propellente della storia, da sempre; è il momento della sua
tragica e travolgente utopia. Ma ogni rivoluzione (oppure: sempre, la
rivoluzione) hain sé l’inevitabile ma giusta (direi,
necessaria) sconfitta. L’ebbrezza della rivoluzione (per chi questa
ipotesi può suscitare entusiasmo) sta dunque nella volontà di farla, nel
suo progetto e poi nell’avviarla. Dunque nel farla. Ma la inevitabilità
tragica e la giusta sconfitta di ogni rivoluzione è una
conclusione assolutamente anticipatrice che ha consentito a mio parere a
Pasolini di inserirsi, negli ultimi anni di vita, dentro al contesto
dei problemi in atto (scoprendo e non inventando metafore fulminanti).
3) IL TRAGICO QUOTIDIANO DI PASOLINI. Prima ho parlato di tenerezza vitale; poi di ricerca di innocenza (una
ricerca continua, spesso ansiosa o disperata per trovare una nuova
diversa innocenza, più matura, con ferite riconosciute e ricomposte, più
faticosa e faticata ma, se raggiunta, senza più strazio e dunque
rassicurante). Adesso aggiungo: una memoria sempre in piena luce per gli
anni giovani in quel Friuli assolato e una dolcezza itinerante e
ricorrente per questa memoria che concludeva sempre a riportare i dati e
i singoli elementi nella sopravvenuta disperazione. Tale voglio dire,
che non lasciava margini e copriva tutto, nella sostanza. Era allo stato
puro. Così da non consentire neanche il suicidio, perché esso è, in
questa situazione, una liberazione ed è anche scelta per questa liberazione, lasciando libertà per l’attesa e per il modo. Attesa della propria morte.
4) Questa libera attesa, non condizionata da una scelta,
è stato il momento che ha reso davvero terribile ed esemplare l’ultimo
periodo della vita di Pasolini. L’ha reso carico del peso di un
“insegnamento” pubblico, di un ammonimento pubblico e di sollecitazioni
generali di cui il tempo gli darà senz’altro atto. E che noi, almeno,
dovremmo fare in modo intanto di mantenere attivi dentro al dibattito
culturale. Cercando di difenderlo dall’abuso che il nostro tempo fa di
lui e di altre persone (personaggi) meritevoli d’attenzione e di
rispetto (nel senso di considerazione delle proposte). Infatti ai nostri
giorni questo uso e questo abuso sono sempre più strumentali, sempre
più terrificanti in ogni senso. Non si cerca né si tenta alcuna
aggregazione culturale, sia pure dimidiata; ma si cerca subito e
soltanto la conferma di pubbliche mitologie. L’uso/abuso non consiste
nella quantità di accettazione o di rifiuto, dato che l’inglobamento,
quando è deciso, diventa totale (vincendo ogni contraddizione). È la
ridistribuzione dei messaggi dei singoli artisti, assunti o acquisiti
dal sistema culturale, che ubbidisce a una logica di potere non certo
codificata ma esercitata con spregiudicatezza che può sembrare alle
volte naturale mentre altre volte è segnata da un imbarazzo cavilloso o
teatrale. Si può ad esempio, e a questo proposito, riscontrare sia pure
in fretta il rapporto di Pasolini con le istituzioni ufficiali della
comunicazione, proprio negli ultimi anni prima della sua esecuzione. Mi
riferisco alla sua collaborazione con II Corriere della sera; che fu manovrata con spregiudicatezza tattica e tecnologica del tutto organica al sistema. Così, mentre si presentavano le invenzioni di un uomo certamente di grande ingegno ma già codificato nella opinione pubblica come stravagante e diverso,
la sua collaborazione su questo giornale/monumento era commentata come
un esempio di libertà e di democratica tolleranza delle idee. Ci si
limitava soltanto a far corrispondere, a ogni “pezzo” di Pasolini, un
secondo intervento del tutto contrario, oppure che lo correggesse o lo
limitasse o lo interferisse indirettamente con strafottenza - a firma di
notabili, baroni universitari e personaggi credibili. Pasolini pativa
il peso di questa situazione piena di contraddizioni (e che gli era
comunque garantita non dal suo valore artistico ma dalla sua fama
cinematografica), secondo la quale da una parte era accettato e magari
anche un poco genericamente adulato, mentre dall’altra era tenuto al
margine, in una esclusione che lo legava sempre ai giorni terribili del
Friuli. Fuori da ogni panegirico, la sua realtà era la
seguente: presente a tutto, in fondo egli gestiva niente. Non aveva
potere. E le piccole concessioni gli erano ribattute in faccia
attraverso piccole persecuzioni, denunce, processi, censure eccetera.
Occorre sempre ricordare che il romanzo Ragazzi di vita subì il
processo (che ho già ricordato) a seguito di una denuncia inoltrata
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dietro una richiesta
precisa del Ministero degli Interni.
Anche
da questi brevi appunti, credo si possa avere conferma che Pasolini non
è stato un intellettuale che ha “usato” la cultura ma un uomo che ha vissuto
i problemi reali della cultura a lui contemporanea partecipandoli fino a
morirne. Questo, io credo, definisce e chiarisce anche la sua violenza,
la sua instancabile e acuta ferocia nell’aggressione del reale, la sua
fame di verità vera, il suo instancabile bisogno di cercarla e
poi di difenderla. Spiega anche il suo eccesso vitale. E la sua
insaziabilità di linguaggi.
Roberto Roversi, 1979.
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