13 marzo 2015

ROBERTO ROVERSI SU PIER PAOLO PASOLINI






Roberto Roversi ha conosciuto bene Pasolini.  Hanno animato, insieme ad altri, una delle più interessanti riviste del 900 (Officina) e anche quando hanno cessato di avere progetti comuni hanno continuato a stimarsi e a volersi bene.
Riprendiamo stasera da  http://www.robertoroversi.it/altri-materiali/item/474-quattro-brevi-note-su-pasolini-reale.html  un suo scritto del 1979 che mostra quanto profonda sia stata la sua comprensione dell'opera del poeta corsaro. 


Fortini ha (o avrà) come al solito delle buone lucide ragioni per non volere oggi (adesso) parlare o scrivere su Pasolini, poiché il potere culturale o l’ufficialità ecc. ne manipola tutti i segmenti in modo famelico e scriteriato; ma io penso proprio il contrario e proprio perché il potere culturale ecc.; cioè penso che oggi si possa, anzi si debba parlare di Pasolini soprattutto per l’uso indiscriminato che a livello pubblico si fa di questo “autore”. E che ogni nostro intervento, sia pure marginale, è sempre un minimo contributo al ristabilimento di una verità, e al rafforzamento di una lotta verso la verità (e la libertà della cultura) alla quale Pasolini partecipava con tutta la forza dei suoi sentimenti arrabbiati.
È per questo che io, in certe occasioni e a ragion veduta, non ho preoccupazione a parlare ancora su di lui, in quanto ritengo che Pasolini sia un tramite per i nostri discorsi generali; un supporto forse necessario. È ancora, insomma, un suscitatore di problemi. Cercare di capirlo sempre meglio, in particolare, è un modo di cercare di interpretare un poco anche questo nostro tempo. E per questa occasione, senza alcuna pretesa di sistematicità, proporrei tre o quattro note su alcuni punti che a me sembrano interessanti. Ancora interessanti.

1) LA TENEREZZA VITALE DI PASOLINI. Pasolini è sempre stato aggredito, contrastato e ferito dall’arroganza culturale di un tempo e di una ufficialità culturale che non lo tollerava. Non riusciva né d’altra parte poteva tollerarlo. Pasolini, nonostante un successo cinematografico assordante e un poco cupo, fu nella sostanza dei fatti un escluso dal suo tempo, anzi fu tenuto escluso e con accidia rifiutato e ributtato ogni volta che egli proponeva un contatto “organico”. Quando lo inglobavano, lo inglobavano per inquinarlo, comprometterlo, infiacchirlo – come è poi il giuoco solito del potere. D’altra parte è anche vero che Pasolini non tollerò mai questa opposizione che lo escludeva; ma è altrettanto vero che partecipò al dolore di questa esclusione come a una offesa più generale, che andava oltre di lui, e che lui riteneva fosse fatta alla ragione e anche alla “purezza” (una purezza intesa come conoscenza e giovinezza) della vita. A tutto ciò che era lontano dalla corruzione, dall’intrigo, dall’interesse e invece si affidava all’ingenuità piena di fantasia e di sorpresa, alla volontà precisa e continua di giustizia, al desiderio forte e stimolante di agire, di conoscere, di comunicare.
Parlando con Ferdinando Camon Pasolini diceva: “Il fondo del mio carattere non è il malessere, bensì la gaiezza, la vitalità, e questo io paleso non solo nell’opera letteraria ma nella vita stessa. Intendo per vitalità quell’amor di vita che coincide con la lietezza. E gaia, vitale, affettuosa è nell’intimo la mia natura: son le continue angosce oggettive che ho dovuto affrontare che hanno esasperato gli aspetti del mio malessere”.
Una esclusione e una concomitante tensione angosciosa, dialettica, che si esercitarono fin dai primi momenti, fin dai primi atti ufficiali di questo autore. A partire, ed è importantissimo ricordarlo, dalle vicende e poi dall’ultima vicenda friulana che lo vide prima emarginato pubblicamente, poi contrassegnato col disprezzo di un diverso infine espulso dal partito comunista. Singoli momenti e atti checonfluiscono in una storia che è atroce soprattutto per i biechi risvolti di una polemica rissosa e paesana (fra cellula a sacrestia) che l’avevano suscitata e alimentata e che lo costrinsero a fuggire verso Roma. Dirà nel 1965: “Son tredici anni che non capito in Friuli, se non per fughe di un giorno. Non ne so più niente”.
Questo episodio, a mio parere, è il momento centrale nella biografia di Pasolini; e si aggancia direttamente anche alla morte del fratello, partigiano. Insultato; accusato come corruttore di giovani per la sua omosessualità, Pasolini sottostava improvvisamente (cioè con lo sbalordimento angosciato e doloroso di chi passa da un sentimento di libertà felice a una costrizione impaurita e opprimente e quasi irrazionale) al saldarsi di una duplice condanna. Una era rappresentata dalla definitiva esclusione da parte cattolica, che lo considerava un transfuga non più recuperabile e lo combatteva come un doppio avversario; l’altra era di essere considerato un “inquinato” da parte comunista. La sua omosessualità in quell’Italia dai codici tradizionali (o stalinista o bigotta) spaventava, indignava, repelleva. Il comunismo ufficiale, ad esempio, manifestava un’attitudine intransigente e bigotta, contrassegnata da un moralismo abbastanza cupo, per tutto ciò che restava fuori o sembrava restare fuori dalle istituzioni “congelate” di una norma morale molto tradizionale. Perciò anche di fronte a questo episodio il suo atteggiamento fu di pronta chiusura. E questo moto di riflusso continuò fino all’impatto col primo romanzo di Pasolini, Ragazzi di vita, contro il quale buona parte della critica marxista si esercitò in un rifiuto molto duro, uniforme anche se poco argomentato.

2) IL MARXISMO DI PASOLINI. D’altra parte a me è sempre sembrato che il marxismo di Pasolini fosse soltanto una sua personale e originale rivelazione. O intuizione. La componente mitica, o mistica, di questa straordinaria intuizione o, se si vuole, dell’ansiosa invenzione marxista di Pasolini è stata poi una connotazione determinante e quasi esplodente depositata ne Le ceneri di Gramsci e incanalata poi anche nelle opere successive. Ma già in questa prima, ne Le ceneri di Gramsci, il marxismo è ricerca di una innocenza perduta da sé ma anche in generale e che dunque va ritrovata ad ogni costo per riappropriarsene come necessità, bisogno per vivere. Quindi è ricerca di verità sociale più che di giustizia sociale. E nella verità è compreso soprattutto cercare e capire. Non è mai un bisogno di sistematicità, un rassicurante sistema chiuso da norme delegate e da delibare.
Bisogno di innocenza, ho appena detto. Ma non tanto di una innocenza della memoria (per cose e fatti ormai accaduti) quanto di una innocenza per le cose e per i fatti che stanno accadendo o sono per accadere. Da paragonarsi all’ordine della natura. Tale ricerca finiva per tradursi in una sperimentazione di vita continua, ossessiva; ossessiva anche nella sua insaziabilità pubblica di fare, cercare, scrivere, parlare, esporsi ed esibirsi. Ma non era un’esibizione declamatoria, narcisistica. Dirà: “Questo dare accade mio malgrado, per le vie che non sono tipiche dell’estroversione, e inconsciamente. Alcuna forme esibizionistiche ci sono evidentemente in me, ma in quel profondo che non implica responsabilità, fanno parte dei miei traumi, della mia psicologia patologica e io non le domino”.
Quindi il marxismo di Pasolini è anche una invenzione di questa innocenza; è mescolato alla continua ricerca di questa innocenza (perduta) e al suo continuo affannoso doloroso tragico rimando. Conseguente è anche il suo bisogno di definirsi, per la necessità immediata di darsi un appiglio. “Sono, come dire, gramsciano. È una definizione possibile? Comunque la mia indipendenza non è né voluta né amata: è coatta e dolorosa. Vorrei poter scegliere…” scrive in una dichiarazione del l955. Altrove, in quegli anni, si definiva ideologo e poi marxiano. Marxiano direi come gramsciano, con equale tenerezza per il mondo; ideologo, quindi disposto più a definirsi per discutere che a discutere per definirsi (nella tensione di ritrovare una connotazione significante all’interno del sistema dei rapporti politici, concedendosi contemporaneamente una zona di franchigia).
E per un immediato approfondimento in merito, già nelle pagine di poesia de Le ceneri di Gramsci si ricava una descrizione in filigrana della rivoluzione (della rivoluzione combattuta e violenta) che io ritengo di sconvolgente attualità. E la descrizione muove da una premessa che presuppone l’accettazione di questa (possibile? probabile?) verità: che una rivoluzione definitiva in quanto vittoriosa non si dà né si è mai data. La rivoluzione, la sua ricerca, il bisogno sociale di farla, è il propellente della storia, da sempre; è il momento della sua tragica e travolgente utopia. Ma ogni rivoluzione (oppure: sempre, la rivoluzione) hain sé l’inevitabile ma giusta (direi, necessaria) sconfitta. L’ebbrezza della rivoluzione (per chi questa ipotesi può suscitare entusiasmo) sta dunque nella volontà di farla, nel suo progetto e poi nell’avviarla. Dunque nel farla. Ma la inevitabilità tragica e la giusta sconfitta di ogni rivoluzione è una conclusione assolutamente anticipatrice che ha consentito a mio parere a Pasolini di inserirsi, negli ultimi anni di vita, dentro al contesto dei problemi in atto (scoprendo e non inventando metafore fulminanti).

3) IL TRAGICO QUOTIDIANO DI PASOLINI. Prima ho parlato di tenerezza vitale; poi di ricerca di innocenza (una ricerca continua, spesso ansiosa o disperata per trovare una nuova diversa innocenza, più matura, con ferite riconosciute e ricomposte, più faticosa e faticata ma, se raggiunta, senza più strazio e dunque rassicurante). Adesso aggiungo: una memoria sempre in piena luce per gli anni giovani in quel Friuli assolato e una dolcezza itinerante e ricorrente per questa memoria che concludeva sempre a riportare i dati e i singoli elementi nella sopravvenuta disperazione. Tale voglio dire, che non lasciava margini e copriva tutto, nella sostanza. Era allo stato puro. Così da non consentire neanche il suicidio, perché esso è, in questa situazione, una liberazione ed è anche scelta per questa liberazione, lasciando libertà per l’attesa e per il modo. Attesa della propria morte.

4) Questa libera attesa, non condizionata da una scelta, è stato il momento che ha reso davvero terribile ed esemplare l’ultimo periodo della vita di Pasolini. L’ha reso carico del peso di un “insegnamento” pubblico, di un ammonimento pubblico e di sollecitazioni generali di cui il tempo gli darà senz’altro atto. E che noi, almeno, dovremmo fare in modo intanto di mantenere attivi dentro al dibattito culturale. Cercando di difenderlo dall’abuso che il nostro tempo fa di lui e di altre persone (personaggi) meritevoli d’attenzione e di rispetto (nel senso di considerazione delle proposte). Infatti ai nostri giorni questo uso e questo abuso sono sempre più strumentali, sempre più terrificanti in ogni senso. Non si cerca né si tenta alcuna aggregazione culturale, sia pure dimidiata; ma si cerca subito e soltanto la conferma di pubbliche mitologie. L’uso/abuso non consiste nella quantità di accettazione o di rifiuto, dato che l’inglobamento, quando è deciso, diventa totale (vincendo ogni contraddizione). È la ridistribuzione dei messaggi dei singoli artisti, assunti o acquisiti dal sistema culturale, che ubbidisce a una logica di potere non certo codificata ma esercitata con spregiudicatezza che può sembrare alle volte naturale mentre altre volte è segnata da un imbarazzo cavilloso o teatrale. Si può ad esempio, e a questo proposito, riscontrare sia pure in fretta il rapporto di Pasolini con le istituzioni ufficiali della comunicazione, proprio negli ultimi anni prima della sua esecuzione. Mi riferisco alla sua collaborazione con II Corriere della sera; che fu manovrata con spregiudicatezza tattica e tecnologica del tutto organica al sistema. Così, mentre si presentavano le invenzioni di un uomo certamente di grande ingegno ma già codificato nella opinione pubblica come stravagante e diverso, la sua collaborazione su questo giornale/monumento era commentata come un esempio di libertà e di democratica tolleranza delle idee. Ci si limitava soltanto a far corrispondere, a ogni “pezzo” di Pasolini, un secondo intervento del tutto contrario, oppure che lo correggesse o lo limitasse o lo interferisse indirettamente con strafottenza - a firma di notabili, baroni universitari e personaggi credibili. Pasolini pativa il peso di questa situazione piena di contraddizioni (e che gli era comunque garantita non dal suo valore artistico ma dalla sua fama cinematografica), secondo la quale da una parte era accettato e magari anche un poco genericamente adulato, mentre dall’altra era tenuto al margine, in una esclusione che lo legava sempre ai giorni terribili del Friuli. Fuori da ogni panegirico, la sua realtà era la seguente: presente a tutto, in fondo egli gestiva niente. Non aveva potere. E le piccole concessioni gli erano ribattute in faccia attraverso piccole persecuzioni, denunce, processi, censure eccetera. Occorre sempre ricordare che il romanzo Ragazzi di vita subì il processo (che ho già ricordato) a seguito di una denuncia inoltrata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dietro una richiesta precisa del Ministero degli Interni.

Anche da questi brevi appunti, credo si possa avere conferma che Pasolini non è stato un intellettuale che ha “usato” la cultura ma un uomo che ha vissuto i problemi reali della cultura a lui contemporanea partecipandoli fino a morirne. Questo, io credo, definisce e chiarisce anche la sua violenza, la sua instancabile e acuta ferocia nell’aggressione del reale, la sua fame di verità vera, il suo instancabile bisogno di cercarla e poi di difenderla. Spiega anche il suo eccesso vitale. E la sua insaziabilità di linguaggi.

Roberto Roversi, 1979.

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