Roberto Esposito
L'arte del dubbio
Nel cercare Dio in tutte
le cose resta sempre una zona di incertezza. Le grandi guide del
popolo, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio». A
pronunciare tali parole non è un filosofo neoscettico, ma papa
Francesco nella sua prima intervista a Civiltà Cattolica .
In molti hanno visto in
esse, più che una semplice apertura all'esigenza di rinnovare il
linguaggio della Chiesa, la testimonianza del ruolo crescente che la
dimensione del dubbio ha assunto nella nostra società. In questo
senso il grande successo che sta riscontrando in Francia, anche a
livello di partecipazione ai corsi universitari, la "zetetica"
— come Henri Broch ha definito l'arte del dubbio nei confronti di
settarismi, faziosità, dogmi ammantati di pretese scientifiche —
non può sorprendere: viviamo immersi un un'epoca in cui ci arriva
continuamente una massa enorme di informazioni.
E così il controllo
sulla autenticità, sulla buona fede, sulla correttezza o sulla
logica interna di qualsiasi messaggio, dal tweet di un personaggio
noto a un documento ufficiale di un'istituzione, diventa un'attività
cruciale, un meccanismo di sopravvivenza: l'unico esercizio possibile
per non restare impigliati nelle miriadi di reti della propaganda
presenti su internet così come nei prodotti culturali più
tradizionali, nella politica così come nelle discipline accademiche,
nei video degli estremisti islamici così come nelle verità di
regime di ogni luogo e tempo.
È chiaro che, in questo
contesto, l'arte del dubbio cambia pelle. Da perno di sistemi di
pensiero illuministi o liberal di vario spessore, diventa adesso
quello che in fondo è sempre stata: un metodo di conoscenza, un
approccio da applicare in maniera trasversale in qualsiasi campo
della nostra vita. Una guida indispensabile in un mondo globalizzato,
spezzettato, confuso eppure sempre a rischio di finire intrappolato
nelle spire del pensiero unico di turno.
Per queste sue
caratteristiche, il rilievo filosofico del dubbio naturalmente è
antico — può essere fatto risalire alla classica formula socratica
del "sapere di non sapere". Teorizzato dal Pirrone già nel
III secolo avanti Cristo, ha trovato una prima formulazione
cristiana, condizionata alla verità divina, con sant'Agostino.
Successivamente Descartes lo ha posto alla base della conoscenza: pur
dubitando di tutto, non si potrà mai dubitare di essere, proprio
perciò, un soggetto pensante.
Se Pascal e Hume hanno
diversamente sottoposto l'idea di certezza assoluta a una critica
corrosiva, è stato Kant ad assumere a oggetto di dubbio la ragione
stessa, individuandone possibilità e limiti. Tutta la discussione
novecentesca sulla relazione indissolubile tra dubbio e certezza —
sostenuta da Wittgenstein, ma anche, diversamente, da Popper, Kuhn,
Lakatos — ha insistito sulla necessaria falsificabilità dei
paradigmi scientifici.
D'altra parte se
Kierkegaard scrive in Aut Aut che il dubbio appartiene al movimento
interno del pensiero, nel suo Zibaldone Leopardi afferma che
«piccolissimo è quello spirito che non è capace o è difficile al
dubbio». Su questa linea di ragionamento, che desume la necessità
di dubitare dal carattere finito e incompiuto del nostro sapere,
Vladimir Jankélévitch, in Da qualche parte nell'incompiuto (
Einaudi, a cura di Enrica Lisciani Petrini), sostiene che, contro le
false certezze, va tenuto fermo «il dubbio rispetto alle verità e a
se stessi».
E tuttavia fin qui non
siamo ancora pervenuti al cuore del problema. Perché qualcosa che
appartiene alla storia dell'intera tradizione filosofica torna oggi a
interpellarci con particolare urgenza? Cosa rende la richiesta
all'arte del dubbio così pressante?
Già alla fine degli anni
Settanta un volume collettivo curato da Aldo Gargani, con il titolo
Crisi della ragione ( Einaudi), monopolizzò il dibattito filosofico
in concomitanza con il successo internazionale del libro sul
postmoderno di Jean-François Lyotard (Feltrinelli).
Ciò che in quegli anni
pareva incrinarsi era un intero regime di senso che per un lungo
periodo aveva costituito al contempo la struttura indubitabile del
reale e un modello normativo di comportamento. A venire meno era il
primato del passato sul presente — l'idea che tutto ciò che
avveniva fosse predeterminato da quanto lo precedeva secondo un nesso
diretto tra cause ed effetti. Quando invece ai codici razionali si
accompagnano sempre elementi imprevedibili di tipo intuitivo, emotivo
o pragmatico, spesso portati a configgere con essi.
Ma una scossa ancora più
destabilizzante si è verificata negli ultimi anni, quando, con il
nuovo disordine globale, tutti i riferimenti che fino a qualche tempo
fa hanno guidato i nostri comportamenti sembrano essere venuti meno.
Da qui nasce la spinta a una ricerca ininterrotta, capace di sfidare
dogmi e luoghi comuni. Il termine stesso di zetetica rimanda al verbo
greco che significa "cercare". Alla sua base vi è un
bisogno urgente di spirito critico, una diffidenza crescente rispetto
alla continua manipolazione che media spregiudicati o asserviti,
sondaggi con esiti preconfezionati, dispositivi di propaganda ci
rovesciano quotidianamente addosso.
Gli attentati di Parigi,
rivolti espressamente contro la libertà di pensiero e di scrittura,
hanno rinforzato ulteriormente questa esigenza, come dimostra la
pronta scalata delle opere di Voltaire nella zona alta delle
classifiche di vendita. Già preparata dal successo di instancabili
partigiani del dubbio come Montaigne e Diderot, il ritorno, non solo
da parte dei francesi, a Voltaire rilancia la tradizione dei lumi
contro l'accecamento prodotto dal fanatismo.
Tale impulso zetetico,
d'altra parte, si innesta in un orizzonte filosofico già orientato
in direzione laica e libertaria. Esso rimanda a filoni culturali
diversi, che hanno trovato un primo punto di aggregazione nel "New
Atheism" americano — teorizzato da filosofi e saggisti come
Richard Dawkins, Daniel Dennet, Sam Harris e Christopher Hitchens.
Ciò che li collega in uno stesso punto di vista non è la polemica
contro particolari religioni, ma contro qualsiasi tipo di presupposto
dogmatico che vincoli la ricerca scientifica e anche i comportamenti
pratici. Si tratta di una interpretazione radicale del darwinismo,
che sottrae il fenomeno della vita al rimando a qualcosa che ne
trascenda lo sviluppo specifico.
A questa corrente — che
dall'America si è diffusa in Germania, in Francia, in Italia — si
affiancano altri filoni libertari ispirati in vario modo alla
tradizione illuministica. Il neo-materialismo individualista di
Michel Onfray, autore di un discusso Trattato di ateologia ( tradotto
in Italia da Fazi), è stato oggetto di un ampio dibattito e anche di
forti critiche. Portando agli esiti estremi la dottrina della
tolleranza che ha i suoi padri in Locke e nello stesso Voltaire, la
sua prospettiva è caratterizzata da una critica preventiva di
qualsiasi nozione che non sia passata al vaglio dell'analisi
razionale.
L'altra scuola di
pensiero che, forse con maggiore consapevolezza teoretica, rompe con
ogni forma di trascendenza è quella che guarda da un lato al
pensiero di Spinoza e dall'altro alla genealogia di Nietzsche. Ciò
spiega la forte ripresa di interesse per un autore come Gilles
Deleuze, del quale DeriveApprodi ha appena edito il film-intervista,
a cura di Claire Parnet, dal titolo Abecedario. Forse prevedendo la
svolta in atto, Michel Foucault aveva una volta pronosticato «che un
giorno il secolo sarà deleuziano». Prudentemente non aveva
specificato di quale secolo parlava.
La Repubblica – 22 febbraio 2015
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