Torniamo a parlare del monumento a Giordano Bruno, la cui realizzazione, come abbiamo già visto (Cfr: http://cesim-marineo.blogspot.it/2015/02/quando-litalia-alzo-la-testa-contro-la.html) conobbe un iter lungo e travagliato.
Non è una pagina minore della storia d'Italia, ma un esempio emblematico (e per questo importante da conoscere) di come la lotta per mantenere viva la memoria resti fondamentale in un paese che tende a dimenticare, rimuovere tutto ciò che non sia mera gestione dell'esistente.
Non è una pagina minore della storia d'Italia, ma un esempio emblematico (e per questo importante da conoscere) di come la lotta per mantenere viva la memoria resti fondamentale in un paese che tende a dimenticare, rimuovere tutto ciò che non sia mera gestione dell'esistente.
Adriano Prosperi
Giordano Bruno e le
sue ceneri parlanti
Ci fu un tempo in Italia
in cui tutta la politica e la cultura sembrava
fossero riassumibili in un nome e nell’idea
di un monumento: il nome era quello di Giordano Bruno e il
monumento quello celebre di Campo dei Fiori. È di
questa storia che racconta Massimo Bucciantini,
già narratore di cose galileiane, nel suo nuovo
libro, Campo dei fiori Storia di un monumento maledetto
(Einaudi, pp. 391, euro 32,00).
La Chiesa e i
cattolici italiani fecero di Giordano Bruno un
«maledetto», come si sa; ma non è il loro punto di
vista a interessare Bucciantini, che invece
ha dedicato ricerche accurate al mondo dei caffè
e delle aule universitarie dove i giovani
figli della borghesia italiana si ubriacarono
di retorica del martirio e del libero pensiero.
Furono loro a concepire il progetto del
monumento. Distratta e sbiadita, la «nuova Italia»
liberale rimase sullo sfondo, alle prese con l’ostilità di
masse popolari, sempre fedeli alla religione e al
papa.
Tra i meriti della ricerca di Bucciantini c’è dunque l’aver concentrato l’attenzione sull’ambiente giovanile e studentesco da cui vennero sia la prima idea del monumento sia l’impegno decisivo per la sua realizzazione. Difficile dire che cosa sapessero di Giordano Bruno il primo attore della storia, Adriano Colocci, ventenne di piccola nobiltà marchigiana, e il suo compagno d’avventura il cesenate Comandini. D’altra parte, perfino Antonio Labriola, quando l’onda del movimento lo coinvolse con la richiesta di una conferenza su Bruno, dovette chiedere i libri necessari a un giovane e già dottissimo Benedetto Croce: gli mancava perfino quella edizione Daelli degli scritti di Bruno che fu a lungo l’unica offerta dell’editoria italiana.
Resta indiscutibile,
tuttavia, un dato di fatto: il secondo Ottocento
dell’Italia liberale fu interamente pervaso
dalla «brunomania»: l’insultante definizione
fu lanciata da un articolo del gesuita Luigi Previti,
uscito anonimo sulla «Civiltà cattolica» del 1888,
l’anno precedente a quello della inaugurazione
del monumento a Campo dei fiori. Ma l’epoca in cui
Giordano Bruno divenne oggetto di una vera e propria
mania era cominciata molto prima e i suoi effetti si erano
diffusi in tutto il nostro paese.
Quando nel 1876 lo
storico cattolico bavarese Ludwig Pastor
scese in Italia per dedicarsi al compito di
ribattere al libro di storia dei Papi del protestante
Ranke con quella che doveva diventare una delle più grandi
imprese erudite di ogni tempo, la prima domanda che si sentì
rivolgere, appena toccata Verona, fu se era proprio
vero che Giordano Bruno fosse stato mandato al rogo.
L’apologetica cattolica si era rifugiata nella
negazione di quella morte. Solo alla fine, quando ormai si
spegnevano i furori dell’età liberale, il
documento fu trovato: e fu una delle poche
acquisizioni di nuove conoscenze in tutta quella fase
di scritture e di discorsi.
Una gigantesca fabbrica di parole, secondo Massimo Bucciantini, che nel suo libro non nasconde il fastidio per essersi dovuto sciroppare il beverone di retorica piazzaiola e avvocatesca, allora di prammatica in quell’ambiente. Il Sant’Uffizio dell’Inquisizione, da poco tempo privato del braccio secolare con la nascita dello stato liberale, appariva allora come la macchina mostruosa dell’intolleranza e della superstizione che aveva tenuto gli italiani lontani dalla civiltà moderna – quella civiltà che papa Pio IX aveva additato col Sillabo come la somma di tutti gli errori.
Nel processo
pubblico che si aprì toccò al papato prendere il posto
dell’imputato davanti ai fantasmi dei «martiri del
libero pensiero»: la folla di ombre di torturati
e uccisi, incalzante dietro i nomi di Bruno,
Campanella e Galileo. Però alla fine Galileo
rimase indietro: per entrare nel pantheon dei martiri
poteva esibire solo la frase celebre ma inventata
dell’«eppur si muove» e l’altrettanto inventata
tortura inquisitoriale, che però non bastava ad
assolverlo dal cedimento dell’abiura.
E tuttavia il
sogno di un’Italia laica, capace di prendere le distanze dal
potere papale e di legarsi ai valori laici delle nazioni
europee, attirò intorno al progetto del monumento
l’attenzione e il consenso di tanti autorevoli
protagonisti della vita intellettuale
del tempo: lo mostra l’elenco delle adesioni e delle
offerte in danaro che arrivarono dall’estero al
comitato promotore degli studenti; anche se poi,
davanti al trascinarsi senza esiti del progetto, ci
furono circospette domande di informazioni.
Ma nomi come quelli di
Victor Hugo, Ernest Renan, Rudolf Jhering e tanti
altri, danno un’idea delle attese che l’Italia era in grado di
suscitare nella cultura internazionale.
E il coraggio di questi studenti appare tanto
più apprezzabile, pur con tutta la sua dose di
giovanile approssimazione, a fronte
delle chiusure e delle pavidità di una dirigenza
politica che li lasciò soli in Campidoglio
quando organizzarono una solenne commemorazione
di Jules Michelet.
D’altra parte, nemmeno l’idea del monumento fu farina di menti italiche: Bucciantini ha scoperto che il primo inventore e poi assiduo sostenitore del progetto fu l’esule comunardo ebreo francese Armand Lévy. È questo il nome da ricordare, sfuggito finora perfino all’imponente e dottissimo Dizionario bruniano da poco pubblicato dalle edizioni della Normale a cura e sotto la direzione di Michele Ciliberto. Dietro Armand Lévy si avanzavano tanti giovani, da Giovanni Amici al bolognese Giuseppe Vernazzi e agli animatori e componenti dei gruppi giovanili che tennero viva la fiaccola del progetto. Perché l’altra scoperta di questo libro riguarda l’esclusivo merito di un movimento italiano di studenti – allora piccole minoranze di una università d’élite in un paese di analfabeti – nel portare al successo definitivo la costruzione di quel monumento.
Bastò la fedeltà
a quel progetto per portare un vento di nobili ideali
e di grandi valori che mosse le acque stagnanti di una
politica asfittica, dominata da consorterie
massoniche e dal timore dei movimenti
popolari. Agli studenti romani si affiancarono
quelli di tante altre università: e a loro si
aggiunsero movimenti anarchici, come quelli della
turbolenta Pisa da cui partì l’invito a Labriola,
che fu dunque costretto a documentarsi su
Giordano Bruno.
Ma c’era anche
qualcosa di nuovo. Labriola spiegò a Croce che
a muoverlo era l’impulso di una classe operaia in
formazione: la si era vista per le strade di Roma in un
imponente corteo guidato da Andrea Costa,
e l’anarchico romagnolo non perse l’occasione per
ricondurre idealmente la lotta presente a quella
di Giordano Bruno e degli altri martiri della
libertà.
Erano segni nuovi e inquietanti per le classi dirigenti dell’Italia liberal-massonica. Non per niente il consiglio comunale di Roma oppose sordità e silenzi all’iniziativa degli studenti. Ci vollero l’intervento deciso di Crispi e le nuove elezioni che portarono in consiglio una diversa maggioranza perché finalmente fosse approvata l’erezione del monumento nel luogo dove si era svolto il rogo.
Dietro quelle
resistenze si percepisce la paura di una classe
sociale esitante davanti ai ricatti della Chiesa, che fino ad
allora le aveva garantito la docilità delle classi
popolari vincolandole alla religione.
E così arrivò la grande giornata del 9 giugno
1889, e la marea di popolo venne esaurientemente
documentata da un giornalismo che imparava
allora a far uso del reportage fotografico.
Il mondo intero guardò
quel giorno all’Italia e al cupo pensoso monaco nero
scolpito da Ettore Ferrari per Campo dei fiori. Bastò il
suo spettro a esorcizzare, in quella fine
secolo, la minaccia della conciliazione tra
Stato e Chiesa. Ma il sogno dell’Italia laica ebbe breve
durata. E la statua corse non pochi pericoli quando,
tornate le classi dominanti alla devozione, la
Conciliazione divenne una realtà.
Toccò a Eugenio
Pacelli chiedere la rimozione della statua da quel
luogo. Non la ottenne. Il re e Mussolini non ebbero
il coraggio di consentire una sconfessione
troppo sfacciata dell’eredità risorgimentale.
La Chiesa dovette contentarsi di un risarcimento
simbolico: dichiarare santo il cardinale
Bellarmino, tanto per ribadire la condanna di
Giordano Bruno.
Né ci fu posto per il
frate filosofo quando il quarto centenario del
suo rogo fu tutto occupato dal Grande Giubileo,
nell’anno 2000. Ma quel monaco nero resta come un rimorso per il
paese della laicità assente, che impicca a un articolo
7 le solenni dichiarazioni di uguaglianza dei
diritti della Costituzione repubblicana.
Il Manifesto – 8 marzo
2014
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