11 marzo 2015

IL MONUMENTO A GIORDANO BRUNO




Torniamo a parlare del monumento a Giordano Bruno, la cui realizzazione, come abbiamo già visto (Cfr: http://cesim-marineo.blogspot.it/2015/02/quando-litalia-alzo-la-testa-contro-la.html) conobbe un iter lungo e travagliato.
Non è una pagina minore della storia d'Italia, ma un esempio emblematico (e per questo importante da conoscere) di come la lotta per mantenere viva la memoria resti fondamentale in un paese che tende a dimenticare, rimuovere tutto ciò che non sia mera gestione dell'esistente.



Adriano Prosperi



Giordano Bruno e le sue ceneri parlanti

Ci fu un tempo in Ita­lia in cui tutta la poli­tica e la cul­tura sem­brava fos­sero rias­su­mi­bili in un nome e nell’idea di un monu­mento: il nome era quello di Gior­dano Bruno e il monu­mento quello cele­bre di Campo dei Fiori. È di que­sta sto­ria che rac­conta Mas­simo Buc­cian­tini, già nar­ra­tore di cose gali­leiane, nel suo nuovo libro, Campo dei fiori Sto­ria di un monu­mento male­detto (Einaudi, pp. 391, euro 32,00).
La Chiesa e i cat­to­lici ita­liani fecero di Gior­dano Bruno un «male­detto», come si sa; ma non è il loro punto di vista a inte­res­sare Buc­cian­tini, che invece ha dedi­cato ricer­che accu­rate al mondo dei caffè e delle aule uni­ver­si­ta­rie dove i gio­vani figli della bor­ghe­sia ita­liana si ubria­ca­rono di reto­rica del mar­ti­rio e del libero pen­siero. Furono loro a con­ce­pire il pro­getto del monu­mento. Distratta e sbia­dita, la «nuova Ita­lia» libe­rale rimase sullo sfondo, alle prese con l’ostilità di masse popo­lari, sem­pre fedeli alla reli­gione e al papa.

Tra i meriti della ricerca di Buc­cian­tini c’è dun­que l’aver con­cen­trato l’attenzione sull’ambiente gio­va­nile e stu­den­te­sco da cui ven­nero sia la prima idea del monu­mento sia l’impegno deci­sivo per la sua rea­liz­za­zione. Dif­fi­cile dire che cosa sapes­sero di Gior­dano Bruno il primo attore della sto­ria, Adriano Colocci, ven­tenne di pic­cola nobiltà mar­chi­giana, e il suo com­pa­gno d’avventura il cese­nate Coman­dini. D’altra parte, per­fino Anto­nio Labriola, quando l’onda del movi­mento lo coin­volse con la richie­sta di una con­fe­renza su Bruno, dovette chie­dere i libri neces­sari a un gio­vane e già dot­tis­simo Bene­detto Croce: gli man­cava per­fino quella edi­zione Daelli degli scritti di Bruno che fu a lungo l’unica offerta dell’editoria italiana.
Resta indi­scu­ti­bile, tut­ta­via, un dato di fatto: il secondo Otto­cento dell’Italia libe­rale fu inte­ra­mente per­vaso dalla «bru­no­ma­nia»: l’insultante defi­ni­zione fu lan­ciata da un arti­colo del gesuita Luigi Pre­viti, uscito ano­nimo sulla «Civiltà cat­to­lica» del 1888, l’anno pre­ce­dente a quello della inau­gu­ra­zione del monu­mento a Campo dei fiori. Ma l’epoca in cui Gior­dano Bruno divenne oggetto di una vera e pro­pria mania era comin­ciata molto prima e i suoi effetti si erano dif­fusi in tutto il nostro paese.
Quando nel 1876 lo sto­rico cat­to­lico bava­rese Lud­wig Pastor scese in Ita­lia per dedi­carsi al com­pito di ribat­tere al libro di sto­ria dei Papi del pro­te­stante Ranke con quella che doveva diven­tare una delle più grandi imprese eru­dite di ogni tempo, la prima domanda che si sentì rivol­gere, appena toc­cata Verona, fu se era pro­prio vero che Gior­dano Bruno fosse stato man­dato al rogo. L’apologetica cat­to­lica si era rifu­giata nella nega­zione di quella morte. Solo alla fine, quando ormai si spe­gne­vano i furori dell’età libe­rale, il docu­mento fu tro­vato: e fu una delle poche acqui­si­zioni di nuove cono­scenze in tutta quella fase di scrit­ture e di discorsi.

Una gigan­te­sca fab­brica di parole, secondo Mas­simo Buc­cian­tini, che nel suo libro non nasconde il fasti­dio per essersi dovuto sci­rop­pare il beve­rone di reto­rica piaz­za­iola e avvo­ca­te­sca, allora di pram­ma­tica in quell’ambiente. Il Sant’Uffizio dell’Inquisizione, da poco tempo pri­vato del brac­cio seco­lare con la nascita dello stato libe­rale, appa­riva allora come la mac­china mostruosa dell’intolleranza e della super­sti­zione che aveva tenuto gli ita­liani lon­tani dalla civiltà moderna – quella civiltà che papa Pio IX aveva addi­tato col Sil­labo come la somma di tutti gli errori.
Nel pro­cesso pub­blico che si aprì toccò al papato pren­dere il posto dell’imputato davanti ai fan­ta­smi dei «mar­tiri del libero pen­siero»: la folla di ombre di tor­tu­rati e uccisi, incal­zante die­tro i nomi di Bruno, Cam­pa­nella e Gali­leo. Però alla fine Gali­leo rimase indie­tro: per entrare nel pan­theon dei mar­tiri poteva esi­bire solo la frase cele­bre ma inven­tata dell’«eppur si muove» e l’altrettanto inven­tata tor­tura inqui­si­to­riale, che però non bastava ad assol­verlo dal cedi­mento dell’abiura.
E tut­ta­via il sogno di un’Italia laica, capace di pren­dere le distanze dal potere papale e di legarsi ai valori laici delle nazioni euro­pee, attirò intorno al pro­getto del monu­mento l’attenzione e il con­senso di tanti auto­re­voli pro­ta­go­ni­sti della vita intel­let­tuale del tempo: lo mostra l’elenco delle ade­sioni e delle offerte in danaro che arri­va­rono dall’estero al comi­tato pro­mo­tore degli stu­denti; anche se poi, davanti al tra­sci­narsi senza esiti del pro­getto, ci furono cir­co­spette domande di informazioni.
Ma nomi come quelli di Vic­tor Hugo, Ernest Renan, Rudolf Jhe­ring e tanti altri, danno un’idea delle attese che l’Italia era in grado di susci­tare nella cul­tura inter­na­zio­nale. E il corag­gio di que­sti stu­denti appare tanto più apprez­za­bile, pur con tutta la sua dose di gio­va­nile appros­si­ma­zione, a fronte delle chiu­sure e delle pavi­dità di una diri­genza poli­tica che li lasciò soli in Cam­pi­do­glio quando orga­niz­za­rono una solenne com­me­mo­ra­zione di Jules Miche­let.

D’altra parte, nem­meno l’idea del monu­mento fu farina di menti ita­li­che: Buc­cian­tini ha sco­perto che il primo inven­tore e poi assi­duo soste­ni­tore del pro­getto fu l’esule comu­nardo ebreo fran­cese Armand Lévy. È que­sto il nome da ricor­dare, sfug­gito finora per­fino all’imponente e dot­tis­simo Dizio­na­rio bru­niano da poco pub­bli­cato dalle edi­zioni della Nor­male a cura e sotto la dire­zione di Michele Cili­berto. Die­tro Armand Lévy si avan­za­vano tanti gio­vani, da Gio­vanni Amici al bolo­gnese Giu­seppe Ver­nazzi e agli ani­ma­tori e com­po­nenti dei gruppi gio­va­nili che ten­nero viva la fiac­cola del pro­getto. Per­ché l’altra sco­perta di que­sto libro riguarda l’esclusivo merito di un movi­mento ita­liano di stu­denti – allora pic­cole mino­ranze di una uni­ver­sità d’élite in un paese di anal­fa­beti – nel por­tare al suc­cesso defi­ni­tivo la costru­zione di quel monumento.
Bastò la fedeltà a quel pro­getto per por­tare un vento di nobili ideali e di grandi valori che mosse le acque sta­gnanti di una poli­tica asfit­tica, domi­nata da con­sor­te­rie mas­so­ni­che e dal timore dei movi­menti popo­lari. Agli stu­denti romani si affian­ca­rono quelli di tante altre uni­ver­sità: e a loro si aggiun­sero movi­menti anar­chici, come quelli della tur­bo­lenta Pisa da cui partì l’invito a Labriola, che fu dun­que costretto a docu­men­tarsi su Gior­dano Bruno.
Ma c’era anche qual­cosa di nuovo. Labriola spiegò a Croce che a muo­verlo era l’impulso di una classe ope­raia in for­ma­zione: la si era vista per le strade di Roma in un impo­nente cor­teo gui­dato da Andrea Costa, e l’anarchico roma­gnolo non perse l’occasione per ricon­durre ideal­mente la lotta pre­sente a quella di Gior­dano Bruno e degli altri mar­tiri della libertà.


Erano segni nuovi e inquie­tanti per le classi diri­genti dell’Italia liberal-massonica. Non per niente il con­si­glio comu­nale di Roma oppose sor­dità e silenzi all’iniziativa degli stu­denti. Ci vol­lero l’intervento deciso di Cri­spi e le nuove ele­zioni che por­ta­rono in con­si­glio una diversa mag­gio­ranza per­ché final­mente fosse appro­vata l’erezione del monu­mento nel luogo dove si era svolto il rogo.
Die­tro quelle resi­stenze si per­ce­pi­sce la paura di una classe sociale esi­tante davanti ai ricatti della Chiesa, che fino ad allora le aveva garan­tito la doci­lità delle classi popo­lari vin­co­lan­dole alla reli­gione. E così arrivò la grande gior­nata del 9 giu­gno 1889, e la marea di popolo venne esau­rien­te­mente docu­men­tata da un gior­na­li­smo che impa­rava allora a far uso del repor­tage fotografico.
Il mondo intero guardò quel giorno all’Italia e al cupo pen­soso monaco nero scol­pito da Ettore Fer­rari per Campo dei fiori. Bastò il suo spet­tro a esor­ciz­zare, in quella fine secolo, la minac­cia della con­ci­lia­zione tra Stato e Chiesa. Ma il sogno dell’Italia laica ebbe breve durata. E la sta­tua corse non pochi peri­coli quando, tor­nate le classi domi­nanti alla devo­zione, la Con­ci­lia­zione divenne una realtà.
Toccò a Euge­nio Pacelli chie­dere la rimo­zione della sta­tua da quel luogo. Non la ottenne. Il re e Mus­so­lini non ebbero il corag­gio di con­sen­tire una scon­fes­sione troppo sfac­ciata dell’eredità risor­gi­men­tale. La Chiesa dovette con­ten­tarsi di un risar­ci­mento sim­bo­lico: dichia­rare santo il car­di­nale Bel­lar­mino, tanto per riba­dire la con­danna di Gior­dano Bruno.
Né ci fu posto per il frate filo­sofo quando il quarto cen­te­na­rio del suo rogo fu tutto occu­pato dal Grande Giu­bi­leo, nell’anno 2000. Ma quel monaco nero resta come un rimorso per il paese della lai­cità assente, che impicca a un arti­colo 7 le solenni dichia­ra­zioni di ugua­glianza dei diritti della Costi­tu­zione repubblicana.

Il Manifesto – 8 marzo 2014






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