Paul Valéry
Da http://www.leparoleelecose.it/ riprendo questo interessante articolo:
Paul Valéry oggi
di Pierluigi Pellini
Nel periodo fra le due guerre, Il cimitero marino
era probabilmente la poesia contemporanea più celebre in Europa; il suo
autore, Paul Valéry, senz’ombra di dubbio l’intellettuale più omaggiato
del continente. Perfino una sua raccolta di articoli sul presente, gli Sguardi sul mondo attuale, composta di pezzi d’occasione per lo più pensosamente superficiali (e alquanto reazionari: non manca un elogio dell’Idea di dittatura,
ispirato da un libro d’interviste di Salazar, e datato sinistramente
1934), ha potuto essere per anni, in Francia, poco meno che un best seller. Vate incensato, maître à penser,
emblema del ritorno all’ordine dopo il carnevale delle avanguardie,
l’uomo che per più di vent’anni si era quasi completamente negato alla
parola pubblica, concentrandosi sul quotidiano esercizio di autoanalisi
affidato alla scrittura privata dei Quaderni, assurge improvvisamente con La giovane Parca,
nel 1917, al rango di poeta ufficiale; e si costringe fino alla morte,
avvenuta nel 1945, a alimentare, con rare pubblicazioni poetiche – per
l’essenziale, la raccolta Charmes (Incanti), del 1922 – e innumerevoli interventi di circostanza, spesso su commissione, la figura mummificata del classico vivente.
Oggi, i versi di Paul Valéry sono
certamente i meno vivi fra quelli di tutti i poeti laureati del
Novecento europeo. Li condanna con poche eccezioni all’obsolescenza, se
non addirittura all’illeggibilità, proprio quell’ambizione di coniugare
la modernità di un linguaggio poetico intransitivo e l’impeccabile
versificazione del grand siècle (Racine redivivo!), proprio
quell’innesto sistematico di oscurità mallarmeana e di fulgido
formalismo classicista che a suo tempo ne giustificò la canonizzazione,
ad opera del cenacolo raffinato (e spesso miope) della «Nouvelle Revue
Française». Un altro classicismo, quello modernista e paradossale di
Eliot e di Montale, capace di riscattare poeticamente le rovine della
storia e gli oggetti poveri della quotidianità, nutrirà quel che conta
della poesia del Novecento (e oltre); non avranno domani, invece, la
censura di ogni contingenza, l’aristocratico sprezzo della vita di ogni
giorno (delle sue occasioni e soprattutto «della massa» che la popola),
l’epurazione lessicale di ogni scoria contaminata dal tempo umano, i
capisaldi, insomma, della poetica degli Incanti. A rileggerla oggi, la stroncatura sbarazzina di Nathalie Sarraute, che fece scandalo nel 1948 (Paul Valéry e l’elefantino, tradotto da Einaudi nel 1988, oggi purtroppo esaurito), sembra addirittura ovvia.
Eppure, uno stesso punto di partenza storico e teorico accomuna l’autore della Giovane Parca
e i poeti maggiori del primo Novecento: la convinzione controintuitiva,
che Valéry meglio di chiunque altro ha saputo esprimere in un saggio
memorabile su Baudelaire, che «ogni classicismo presuppone un
romanticismo anteriore», perché «l’essenza del classicismo è di venir
dopo», e «l’ordine presuppone un certo disordine che esso ha il compito
di ridurre». Idea di cui si appropria tempestivamente, in Italia, un
ammiratore e emulo di Valéry – poeticamente, diciamolo pure, assai più
dotato di lui – come Giuseppe Ungaretti, per motivare la svolta
restauratrice che dall’Allegria conduce a Sentimento del tempo.
Come per Baudelaire l’effusione sentimentale dei romantici è al tempo
stesso presupposto imprescindibile e oggetto di polemico rifiuto, così
la rottura avanguardista, lo scardinamento delle forme tradizionali, lo
sberleffo all’istituzione letteraria sono ineludibile pietra di paragone
(per emulazione o per antitesi) di ogni poesia che si voglia, negli
anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, all’altezza dei
tempi.
La consapevolezza di «venir dopo», appunto, è il primum della scrittura: solo il provincialismo dei nostri ermetici potrà rimuoverla tout court,
nella velleità di una poesia sedicente pura. I modernisti la integrano
invece, questa consapevolezza, nella sostanza stessa dei loro testi:
così nella poetica del correlativo oggettivo; così nella rifrazione
degli eteronimi in Pessoa; così nell’ostentata, artefatta naturalezza di
Saba (gli esempi, diversissimi e convergenti, si potrebbero
moltiplicare). Valéry segue un percorso diverso: espunge quasi ogni
riverbero di creaturale impurità dai suoi rari, algidi versi, peraltro
sempre mirabili per levigata fattura, e affida al contrario alla prosa
saggistica, e più ancora alle pagine tormentate dei Quaderni,
una riflessione inquieta e spregiudicata, che ha tratti di vertiginoso
acume e di assoluta modernità. Quasi, si direbbe, con una sorta di
lucida schizofrenia: come se rifiutasse di spezzare il cristallo polito
della metrica regolare, il vieto simulacro del bello tradizionale, pur
riconoscendone l’intima, insostenibile vacuità di «piccolo monumento
forse funebre», fatto delle «parole più pure» e delle «forme più nobili»
della lingua francese – e non senza intuire, forse, che i suoi confusi
brogliacci avrebbero trovato grazia, presso i posteri, assai più degli
aridi frutti del labor limae.
Per questo conviene salutare con
gratitudine il lavoro immenso che ha consentito a Maria Teresa Giaveri
di offrire, per la prima volta in Italia, e con cura editoriale
impeccabile, una corposa silloge di Opere scelte («I Meridiani», Mondadori, 2014, pp. CIII + 1782, euro 80), capace di restituire, in sei ampie sezioni (Poesia, Prosa poetica, Modelli e strumenti del pensiero, Dialoghi, Teatro, Saggi:
traduzioni tutte rigorosamente nuove), l’immagine complessa e
sfaccettata di uno scrittore molto diverso da quello canonizzato negli
anni Trenta e, al contrario di quello, in parte ancora
incontestabilmente vivo: non solo (non tanto) nella levigata lentezza,
punteggiata di squarci illuminanti, dei dialoghi socratici (in specie i
celeberrimi Eupalinos o L’architetto, e L’anima e la danza); ma anche (forse soprattutto) nella prosa giovanile di Monsieur Teste e nello sterminato cantiere dei Quaderni:
al tempo stesso traboccante zibaldone di pensieri e ascetica ginnastica
della mente, cui sono dedicate ogni mattina le energie più fresche; e,
ancora, nella tendenziosa lucidità dei saggi letterari, che costruiscono
una genealogia della lirica moderna con cui rimane inevitabile fare i
conti (la linea Baudelaire, Mallarmé, Valéry), anche se è viziata da
un’ottica nazionale angusta – questo scrittore come pochi intimamente
franco-francese (ancorché di origini italiane per parte di madre, e di
costumi cosmopoliti) elegge a testa di turco un romanticismo
sentimentale di cui fa mostra d’ignorare la complessità filosofica
sviluppata oltre Reno.
Del Valéry poeta, invece, Giaveri propone un’integrale traduzione in metrica, certo ammirevole come tour de force, ma spesso svantaggiosamente infedele. Un solo esempio: il celebre «Le vent se lève!… il faut tenter de vivre» del Cimitero marino,
che nella nuova versione italiana suona: «S’alza il vento!… Affrontiamo
la vita». La scelta, indubbiamente coraggiosa, di trasporre Valéry in
metrica regolare italiana è motivata dal desiderio di non perdere quel
che il poeta riteneva essenziale, cioè la musica della parola, anche a
costo di sacrificarne il significato. E tuttavia quella che conduce
della metrica francese al suo supposto equivalente italiano – come
mostrano molti tentativi anche illustri, e quasi sempre assai
problematici: da ultimo, il Baudelaire feltrinelliano di Antonio Prete –
è strada accidentata e spesso intransitabile (in particolare, ma non
solo, per la statutaria irriducibilità dell’alessandrino sia al
cantabile martelliano sia al più denso endecasillabo; ma anche il
decasillabo francese, come mostra l’esempio del Cimitero marino,
fatica nella nostra lingua a indossare veste endecasillabica). Il verso
appena citato è forse l’unico, o uno dei pochissimi, di Valéry, a
essersi imposto nella memoria culturale contemporanea anche al di fuori
dell’istituzione scolastica francese: ne è prova il suo esibito ri-uso
in un successo globale del 2013 come il film di animazione Si alza il vento (Kaze tachinu) del regista giapponese Hayao Miyazaki. E se si è imposto, è precisamente per la connotazione pre-esistenzialista di quel tenter de vivre,
“tentare di vivere”, che la traduzione Giaveri perde completamente –
risolvendosi peraltro (a meno di forzare la logica e le consuetudini
della metrica italiana, escludendo la sinalefe) non in un endecasillabo,
ma in un decasillabo manzoniano (del tipo «Soffermati sull’arida sponda
/ Vòlti i guardi al varcato Ticino, / Tutti assorti nel novo destino,
ecc.»: il secondo e il terzo verso hanno la stessa scansione di prima,
terza, sesta e nona), che volge la sospensione metafisica e la
perplessità esistenziale del Cimitero marino quasi in fanfara (poco avendo in comune il nostro decasillabo con il décasyllabe francese), peraltro intonata al volontarismo un po’ marziale dell’«Affrontiamo la vita».
Ma di Valéry, si diceva, reggono oggi soprattutto i Quaderni:
esercizio di scrittura inaugurato, non a caso, nel 1894, dopo che, due
anni prima, si è incrinata – fra le ambasce della celebre notte di
Genova, e non solo – la fiducia nel platonismo del maestro riverito,
Stéphane Mallarmé, e nella possibilità, per la parola poetica, di
attingere l’ideale. L’interesse della ricerca si concentra ormai sui
meccanismi di funzionamento della mente; il valore della scrittura
diventa meramente gnoseologico: non più l’opera perfetta, ma la
conoscenza di sé, ne sarà il fine. Accanto a quello di Mallarmé,
s’impone il modello di Edgar Allan Poe, da cui Valéry mutua l’imperativo
dell’autocoscienza, e alla cui filosofia della composizione vota un
autentico culto. Rari gli altri interlocutori di questo «Robinson
intellettuale», che sfiora l’egotismo forgiando di volta in volta i
concetti di cui si serve, e fingendo d’ignorare il contemporaneo
dibattito culturale – i riferimenti alle scienze esatte sono più
pregnanti di quelli all’attualità filosofica o letteraria. E, di
quaderno in quaderno, delinea, con puntiglioso rigore razionale,
l’abbozzo di una dottrina della creazione artistica, per poi offrirne un
compendio, a partire dal 1937, nel corso di Poetica al Collège de
France, di cui Giaveri regala al lettore italiano la traduzione di tre
lezioni (due inedite anche in francese).
Quella dei Quaderni è una
nebulosa di appunti, aforismi, formulazioni parziali che non trovano mai
(e probabilmente non potevano trovare) definitiva sistemazione; ma
pochi altri testi contengono un insieme più fecondo di intuizioni
disparate, capaci di nutrire gli studi letterari (e non solo) dei
decenni a venire. Il catalogo è impressionante (e incompleto). Il
formalismo e lo strutturalismo degli anni Sessanta e Settanta,
prevedibilmente, hanno potuto vedere in Valéry un precursore – al punto
che le due riviste parigine più significative di quella stagione, «Tel
Quel» e «Poétique», gli sono debitrici del titolo. Il ruolo
riconosciuto, nella genesi del testo letterario, a «non so qual
presentimento delle reazioni esterne», e la consapevolezza che l’opera
d’arte vive solo «in atto», nella concreta singolarità della lettura («è
l’esecuzione della poesia che è poesia»), anticipano – ed era cosa
molto meno scontata – le tesi della critica della ricezione. La volontà
di promuovere la «fabbricazione dell’opera» a «cosa principale» (perché
«fare una poesia è poesia»), lo studio instancabile dei processi mentali
che presiedono alla creazione artistica (intesa «come danza, come
scherma»), l’assioma per cui «l’opera non è mai finita interiormente», e
anche il fascino per i manoscritti del passato (di Stendhal, di Hugo),
lo predisponevano a diventare il nume tutelare, oltre che un oggetto
d’indagine privilegiato, della critique génétique (versione
francese, teoricamente più agguerrita, della nostrana critica delle
varianti e degli scartafacci). Infine, l’odierna voga degli studi
cognitivi può trovare stimolo e riscontro in quell’instancabile
autoanalisi del pensiero, e dei suoi più sottili meccanismi, che sembra
fare dell’impresa intellettuale di Paul Valéry il rovescio difensivo, ma
non per questo meno grandioso, dell’opera di Sigmund Freud. Perché
davvero, come l’avanguardia è l’implicito antimodello della sua poesia,
così la psicanalisi pare il rimosso – o, se si preferisce, il bersaglio
nascosto – della sua personale filosofia della mente: che dei sogni,
della memoria, dell’attenzione, dell’immaginazione, e in genere dei
meccanismi psichici, cerca ostinatamente di descrivere il funzionamento
facendo economia di ogni ipotesi d’inconscio.
Una postura intellettuale, questa, che
non poteva non entrare in rotta di collisione con il movimento
surrealista, a lungo egemone sulla scena letteraria francese; ma che sul
medio e lungo periodo si è rivelata più produttiva dell’opera in versi
anche in termini di discendenza letteraria, come mostra bene un esempio
italiano. È infatti alle prose e ai Quaderni, assai più che agli Incanti,
che ha guardato un poeta come Valerio Magrelli: non solo nel saggio
einaudiano che ha dedicato all’autoscopia di Monsieur Teste e alla
ripresa del mito di Narciso (Vedersi vedersi, 2002), ma anche
nelle tematiche e nelle forme delle raccolte in versi degli anni
Ottanta. I due episodi maggiori della ricezione italiana di Valéry –
Ungaretti e Magrelli, appunto – disegnano esemplarmente il destino di
un’opera: da monumentale cauzione di un irrigidimento classicista, a
stimolo seminale, e disperso nell’infinibilità del work in progress, di un’autorappresentazione fluida, metamorfica, aporetica. Anche se poi quell’Inesausta volontà di autocostruzione,
che dà il titolo all’elegante introduzione di Maria Teresa Giaveri,
quel rifiuto di oggettivare sé stesso nella materialità finita
dell’opera («Gli altri fanno libri. Quanto a me, io faccio la mia
mente»), quel subordinare la conoscenza e la scrittura stessa alla
trasformazione di sé (per cui l’opera di Paul Valéry, in definitiva, è
Paul Valéry), se per un verso è lascito di stupefacente, quasi
situazionista modernità, per un altro – ancora un paradosso – affonda le
sue radici nell’humus del dandysmo fin de siècle, si
ammanta di pretese estetizzanti, e insomma rivela insospettabili
parentele con l’auto-mitologizzazione di un altro, più pacchiano vate:
ovviamente, il nostro d’Annunzio, cui infatti l’autore della Giovane Parca
non manca di render visita e omaggi. Per l’allievo più dotato dello
schivo Mallarmé, del poeta moderno più autenticamente alieno da
esibizionismo, per il poeta metafisico che nel finale del Cimitero marino
ha offerto un precoce emblema ai dilemmi dell’esistenzialismo – il già
citato «Le vent se lève!… il faut tenter de vivre» – pare l’ennesima
ironia della sorte.
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